Convivere

Selenia Marabello e Bruno Riccio
Selenia Marabello , Università di Bologna, Università di Modena e Reggio Emilia e Bruno Riccio , Università di Bologna

Nel contributo che avvia questo forum sul tema dell’integrazione, Sebastiano Ceschi descrive come le migrazioni siano state derubricate, nel dibattito pubblico italiano e in quello politico e istituzionale, a questioni meramente tecniche oltre che schiacciate dentro cornici securitarie. L’attenzione si è concentrata infatti sugli arrivi irregolari – via terra e ancor più via mare –, con una forte propensione, tipica della ragione umanitaria (Fassin 2018, Roma, Derive e Approdi), a riconoscere percorsi d’integrazione a vulnerabili eroi, vittime e volenterosi individui. Nel rapporto tra corpi mobili e confini irrigiditi dalle politiche della frontiera (Ciabarri L., 2020, L’imbroglio Mediterraneo. Le migrazioni via mare e le politiche della frontiera, Milano, Raffaello Cortina) lo stato diviene un indiscutibile protagonista del processo di filtraggio dei migranti. D’altra parte Miriam Ticktin (2017, Invasive Others: toward a contaminated world, Social Research: An International Quarterly 84 (1): xxl-xxxiv) aveva già rilevato come le rappresentazioni mediatiche, politiche e scientifiche del pericolo di invasione di agenti patogeni intimino agli stati nazione di sorvegliare, isolare, frenare, combattere “l’altro”, evidenziando come coloro che attraversano i confini siano la forma più riconoscibile, circolante e sovra-rappresentata di alterità. Alterità per eccellenza che Tana Anglana indica come possibile e complessa ri-articolazione del corpo sociale.

La ricerca sulle migrazioni, che ha già documentato tale spettacolarizzazione del confine mediterraneo, può esimersi dal leggere la complessità dei processi migratori nel campo lungo della storia connettendo la matrice delle politiche e le risposte di chi le abita? Tra singoli – migranti vulnerabili e meritevoli vs. cittadini – e stato vi sono spazi intermedi e ibridi che possono indicarci piste di lettura contro-intuitive della contemporaneità?

La logica del controllo e della separazione tra migranti e autoctoni non solo rinsalda presunte appartenenze, ma istituisce una distanza che libera gli attori sociali implicati dal nominarla e produce una rarefazione del legame sociale. Tuttavia quest’ultimo può trovare inedita forma in spazi domestici e privati, come rivelano diverse ricerche in contesto italiano (Cfr. Marabello S., Riccio B., Spazi sociali di convivialità: Convivere e co-abitare con migranti in Italia, Antropologia Pubblica 6/2020) e come argomentano Daniela Giudici e Paolo Boccagni definendole “domopolitiche”. Infatti, in diversi contesti europei la risposta dei cittadini alle politiche migratorie aggressive, se pur non maggioritaria, lascia intravedere pratiche e idee di convivenza.

Ed è proprio su questo termine, citato in alcuni dei contributi (tra cui quello di Altin), che vorremmo prestare particolare attenzione ricollocandolo nella genealogia degli studi migratori. L’intento è quello di capire se in questo scenario sia possibile svelare empiricamente forme concrete, spesso invisibili o immaginate di convivenza o convivialità – come più comunemente definito in ambito socio-antropologico – dotandoci anche di strumenti analitici che ci permettano di leggerle più accuratamente tra le faglie dei processi migratori e nel funzionamento di apparati burocratici lesivi dei diritti individuali. Etimologicamente proveniente dal termine spagnolo “convivencia” per nominare il “vivere assieme” in un contesto multiculturale e multiconfessionale, il termine convivialità ha visto estendere il suo significato da una valenza normativa e morale ad una più prospettica. Paul Gilroy (2006, Dopo l’impero, Roma, Meltemi) ha recuperato il termine per analizzare la Gran Bretagna post-imperiale animata da tensioni sociali, etniche e religiose con il fine di mettere in discussione il multiculturalismo degli anni novanta e la giustapposizione e gerarchizzazione tra gruppi. La convivialità ha poi assunto una nuova connotazione semantica: leggere, nella contemporaneità, i modi di “vita in comune” (Novicka, M. Vertovec, S., 2013, Introduction. Comparing convivalities: Dreams and realities of living- with-difference, European Journal of Cultural Studies, 17 (4): 341-356) osservando i processi di accomodamento dei conflitti, di ridefinizione dei gruppi e, non da ultimo, il prodursi dei significati del vivere insieme (Heil, T. 2020, Comparing Conviviality. Living with difference in Casamance and Catalunya, Switzerland, Palgrave MacMillan). Il dibattito internazionale sulle forme di convivialità ha, infatti, posto l’attenzione teorico-empirica sul dispiegarsi degli “incontri quotidiani” tra migranti e non migranti. Tuttavia nell’analisi dei quartieri, delle relazioni di prossimità, amicali o familiari, si è tralasciato l’impatto degli apparati statali e istituzionali che curvano le esperienze dentro l’arena sociale.

Nel 2018 in concomitanza con l’annuncio, le proteste e l’applicazione del D. L. 113 04/10/2018, poi convertito in legge, che ha fortemente scosso le prassi di accoglienza e suscitato un dibattito tra ricercatori e operatori del settore coinvolgendo attivamente i migranti nelle manifestazioni e iniziative di protesta, abbiamo avviato a Bologna una ricerca etnografica (promossa dalla Fondazione Alsos e condotta presso l’Università di Bologna da entrambi gli autori di questo contributo) che ha provato a ri-tracciare i legami tra migranti e non migranti in strutture di accoglienza sotto la pressione e “il ritmo incessante con cui spazi, soggetti e politiche subiscono trasformazioni e assestamenti di cui, talvolta, si perde la continuità degli eventi” (Tazzioli M., p. 37 “Biopolitica attraverso la mobilità nel governo militare-umanitario delle migrazioni” in Marchetti C. Pinelli B. (a cura di) 2017, Confini d’Europa. Modelli di controllo e inclusioni informali, Milano, Raffaello Cortina, pp. 37-62).

La ricerca ha permesso di indagare il senso della convivenza e della solidarietà studiando se proprio intorno alle donne madri di bambini nati in migrazione, considerate vulnerabili anche dal punto di vista giuridico, si potessero delineare circuiti di saperi e relazioni che favorissero, nelle strutture di accoglienza, la convivialità e i processi di inclusione sociale. Le convivenze di persone e nuclei nelle strutture di accoglienza diffusa sono regolate da pratiche di governo e norme giuridiche di accesso in cui lo stato dispone chi può abitarlo e per quanto tempo. Senza esimersi dal notare che nei servizi di accoglienza migranti si possano rilevare pratiche razzializzanti di infantilizzazione, controllo e nanorazzismo (Mbembe A. 2019, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia. Bari-Roma, Laterza), che sono state documentate, la nostra ricerca ha sfidato i confini dell’edificio e delle relazioni operatori/beneficiari per verificare cosa accade se nelle maglie delle norme e delle politiche migratorie, si elaborano le condizioni per costruire pratiche di convivenza. Nell’esercitare una postura etnografica multifocale capace di leggere, nello spazio fisico domestico/pubblico, biografie, pratiche quotidiane, reti amicali e sociali che debordano e si nutrono di scambi di cose, oltre che di snodi, cambiamenti normativi e interventi locali, abbiamo potuto vedere come, paradossalmente e senza sminuire le asimmetrie di potere, potessero svelarsi infrastrutture umane di convivialità. In accordo con la definizione di Simone (Simone, A. M. 2015, The Urban Poor and Their Ambivalent Exceptionalities Some Notes from Jakarta, Current Anthropology, 56 (S 11): 15-23) le infrastrutture di convivialità sono persone, attori statali e prassi istituzionali locali di collaborazione che hanno favorito, accelerato o promosso forme di convivenza tra autoctoni e migranti. La dicotomia autoctono/alloctono, i cui rischi di categorizzazione sono esposti in modo efficace da Colombo, è qui ripresa nel solco degli studi africanistici di Geschiere (2009 The Perils of Belonging. Autochtony, Citizenship and Exclusion in Africa and Europe, Chicago University Press, Chicago) permettendoci di enucleare in modo sintetico idee, storicamente sedimentate, su migrazioni, spazi urbani e rappresentazioni del “farsi del confine” – iper-rappresentato nel discorso pubblico italiano odierno – tra migranti (descritti come alloctoni/estranei) e abitanti (rappresentati come autoctoni).

A Bologna, guardando trasversalmente le politiche locali che hanno, al contempo, agito sul co-sviluppo e associazionismo migrante, sull’accoglienza, sull’interazione con i nuovi cittadini e sulla dimensione burocratica di relazione con il singolo – autoctono e migrante –, così come nella comunicazione e promozione della città, il governo locale ha plasmato un’idea della mobilità come parte integrante della città. Questa digressione sulle forme politiche cittadine mira a rilevare come nell’etnografia contemporanea delle migrazioni il governo locale, le risorse, le pratiche organizzative di apparati statali, attori parastatali, procedure burocratiche e reti sociali dei migranti costituiscano le infrastrutture di mobilità e, nel caso specifico, infrastrutture di convivialità (Xiang, B. Lindquist J., Migration Infrastructure, International Migration Review, n. 48, S1, 2014, pp. 122-148; Riccio, B. 2019, Infrastrutture umane di mobilità e accoglienza, in Europa come rifugio? La condizione di rifugiato tra diritto e società. Ferrari D. Mugnaini F. (a cura di), Siena, Betti Editrice, 23-32) facilitando e/o ostacolando la mobilità delle persone, nonché filtrando l’accesso alle risorse economiche e sociali disponibili. Nella ricerca etnografica è emerso con chiarezza come, intorno alle migrazioni, i cittadini, il privato sociale e le istituzioni abbiano trovato, talvolta anche grazie al supporto della ricerca sociale, spazi di collaborazione concreta, talvolta minuta, creando veri e propri dispositivi acceleratori di inclusione di minori non accompagnati (per es. il progetto Vesta) e madri in accoglienza con bambini nati in migrazione (dove i bambini piccoli inseriti precocemente nei servizi 0-6 anni hanno socializzato le madri). D’altra parte, la co-abitazione tra migranti e non migranti, come nel caso dell’ospitalità di minori non accompagnati, ha permesso ai cittadini italiani di confrontarsi con il proprio Stato da un altro punto di vista, quello dello straniero, dell'estraneo, rivelando in questo modo l'impatto dei poteri burocratici tra i confini dei paesi di origine e destinazione.

La necessità di offrire risposte ai vuoti istituzionali del sistema di accoglienza si è intrecciata, nel contesto bolognese, con concezioni localmente determinate della cittadinanza, dei valori civici e religiosi, del senso di appartenenza a una comunità e dell’aiuto. In questo quadro in cui l’idioma della partecipazione attiva, dell’altruismo e delle economie morali della prossimità ha forgiato spazi di ri-organizzazione istituzionale, del terzo settore e dei cittadini, che potremmo definire citizenship aid (Fechter A. M., Schwittay A. 2019, Citizen aid: grassroots interventions in development and humanitarianism, Thirld World Quarterly 40 (10): 1769-1780), si intravedono delle risposte a norme nutrite dalle retoriche dell’esclusione e spazi interstiziali di elaborazione della coesione sociale senza delegare ai migranti/non migranti la responsabilità del processo di un’integrazione a senso unico. Se si opera sulle infrastrutture di convivialità che rendono i migranti, giunti in diversi periodi e fasi politiche di questo paese, parte del tessuto sociale, si contribuisce, almeno potenzialmente, a plasmare città plurali e inclusive. Senza però dimenticare che i diritti universali di base devono essere ancora acquisiti e garantiti, affinché coloro che sono arrivati in diverse età delle migrazioni (si veda il contributo di Colucci) non permangano alieni.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi