Oltre l’integrazione. Raccontare nuove storie per raccontare storie nuove

Enzo Colombo
Prof. ordinario Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università degli Studi di Milano, La Statale

È importante capire quali argomenti usiamo per pensare altri argomenti; è importante capire quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; è importante capire quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami intrecciano legami. È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, 2019: 27)

 

 

Nella riflessione che dà avvio a questo dibattito, Sebastiano Ceschi acutamente e giustamente pone come tema centrale la necessità/capacità di ripensare l’idea stessa di integrazione, spesso basata sull’assunto dell’esistenza di una dicotomia Noi/Loro accettata come ‘naturale’, data per scontata e non problematica. Se si accetta tale premessa, appare evidente e scontato dover contrapporre figli di immigrati e figli di autoctoni. Da questa contrapposizione appare legittimo dedurre che esista qualcosa come ‘la cultura italiana’ (la Nostra) che contraddistingue specifici modi di essere, di pensare, di sognare, di aspirare, di comportarsi a cui si contrappongono tradizioni diverse (le Loro), a loro volta caratterizzate da diversi modi di essere, pensare, sognare, aspirare e agire. Nulla evita quindi di dare per certo che le caratteriste più personali (degli Altri – per Noi siamo propensi a pensare che le cose siano più complesse) siano determinate dalla famiglia di appartenenza, la cultura, l’etnia, la nazione e, per molti, ancora, la ‘razza’. Ecco allora che esiste un Noi compatto e riconoscibile, caratterizzato da uno specifico e identificabile tratto culturale che definisce lo spazio entro cui gli Altri si dovrebbero integrare. Ma cosa costituisce questo essere Noi, questa italianità che ci renderebbe riconoscibili e distinti da Altri? E se fosse solo una storia che usiamo per raccontare altre storie? Quale mondo crea questa storia che crea uno specifico mondo? E quanto il nostro pensiero basato sui pensieri di immigrazione, integrazione, inclusione, prime e seconde generazioni ci porta a pensare pensieri di immigrazione, integrazione, Noi e Loro?

Da un punto di vista epistemologico, trovo importante assumere una prospettiva costruzionista radicale: fidarsi troppo delle categorie che utilizziamo per raccontarci storie sulla realtà ci rende miopi e pigri. Questo non significa che i problemi – in questo caso l’integrazione, la convivenza, la cittadinanza – non siano ‘reali’. Neppure significa che le categorizzazioni che utilizziamo siano sempre inutili e fuorvianti: semplicemente invita a non scordare che sono appunto categorie che costruiamo e utilizziamo per dare ordine e senso alla realtà, non una necessità che deriva ‘dall’ordine delle cose stesse’. L’approccio costruzionista è una postura del pensiero che si interroga con costanza su come pensiamo ciò che pensiamo, facciamo ciò che facciamo, creiamo ciò che creiamo.

Questo è particolarmente rilevante quando si parla di ‘figli di immigrati’, ‘seconde generazioni’, ‘nuovi italiani’. Come giustamente sottolinea Francesca Lagomarsino nel suo contributo a questo dibattito, se, nel discutere di ‘integrazione’, tendiamo a riprodurre categorie rigide e a volte banalizzanti non possiamo che avvitarci in trappole essenzializzanti che ri-producono una distinzione Noi/Loro. Distinzione che induce a porci domande che portano nelle premesse la loro risposta, come domandarci se gli immigrati sono compatibili con la democrazia, se sopra una certa soglia l’integrazione – o la contaminazione – divenga illusoria (qui dissento con alcuni punti del contributo a questa discussione, di Lodovico Sonego), oppure se la tradizione e la famiglia contino più di qualche migliaio di ore di lezione e che quindi sarebbe saggio essere cauti nel ritenere che essere nati in Italia e aver frequentato le scuole italiane sia criterio sufficiente per riconoscere la cittadinanza italiana ai figli di immigrati visto che ‘Loro’ (tutti? quanti? quali?) manifestano tendenze antidemocratiche e ‘uno schietto antisemitismo’ (qui il riferimento è a un articolo di Ernesto Galli della Loggia apparso sul Corriere della Sera del 17 maggio 2021).

Cosa succede se proviamo a usare termini diversi? Se abbandoniamo i concetti utilizzati per parlare, pensare e studiare la migrazione quando parliamo di cittadinanza e di giovani? Forse si apre uno scenario diverso che ci consente di pensare ‘altro’ (senza necessariamente abbandonare altre prospettive). Cosa succede se guardiamo ai figli di immigrati come ‘giovani’ (cioè da una prospettiva generazionale) e al problema dell’integrazione come un problema di ‘cittadinanza’ (cioè da una prospettiva di giustizia sociale)?

Le ricerche disponibili ci mostrano che i giovani ‘figli di immigrati’ sono prima di tutto giovani, cioè condividono con i loro coetanei gran parte dello stile di vita, delle scelte di consumo e di utilizzo del tempo libero, dei sogni e delle aspirazioni per il futuro (Dalla Zuanna G., Farina P., Strozza S. Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Il Mulino, Bologna 2009; Colombo E. (a cura di) Figli di migranti in Italia: identificazioni, relazioni, pratiche, Utet, Torino 2010; Caneva E. (2011) Mix generation. Glia adolescenti di origine straniera tra locale e globale, Franco Angeli, Milano; Anna Granata (2011) Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni, Carocci, Roma; Ricucci R. (2018) Cittadini senza cittadinanza. Immigrati, seconde e altre generazioni: pratiche quotidiane tra inclusione ed estreneità. La questione dello «ius soli», Edizioni SEB27, Torino. ).

Alcune delle caratteristiche che si attribuiscono – spesso evidenziandone il tratto problematico – a questi giovani sembrano essere in realtà una caratteristica generazionale, che riguarda ogni giovane che si trova oggi a vivere in una società globale. Piuttosto che costituire degli aspetti critici, la necessità di vivere ‘sospesi’ tra due o più mondi, di parlare più lingue, di acquisire codici differenziati che possono essere usati in contesti differenti e di passare continuamente da un mondo all’altro comprendendone le regole ed evitando di trovarsi esclusi costituiscono delle necessità/capacità necessarie alle nuove generazioni. Queste ultime non sembrano infatti potersi sottrarre alla necessità di sviluppare differenti competenze linguistiche di alto livello, di sapersi muovere con preparazione e perizia in contesti di interazione e di vita diversi, in cui  valgono aspettative e regole diverse, in cui è necessario imparare a convivere rispettando le reciproche differenze (Melucci A. (2000) Culture in gioco, Il Saggiatore.). E sono chiamati a farlo in modo autonomo senza poter contare pienamente sull’esempio e sul bagaglio esperienziale dei loro genitori. Questo perché sono chiamati a vivere in un contesto ampiamente trasformato dai processi di globalizzazione, dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione elettronica, dalle crisi economiche e/o sanitarie (i giovani nati alla metà degli anni novanta si sono trovati a vivere fasi cruciali della loro vita sempre in un momento di crisi: prima quella economica del 2008 dovuta al crollo dei mutui subprime, poi quella pandemica dello scorso anno) (Rebughini P., Colombo E., Leonini L. (a cura di) (2017)Giovani dentro la crisi, Guerini, Milano.). Tutto questo rende i percorsi di transizione alla vita adulta più accidentati, il lavoro precario, le aspettative per il futuro più incerte.

In questa prospettiva, i giovani ‘figli di migranti’ – perlomeno quelli tra loro che hanno a disposizioni maggiori risorse familiari, culturali e sociali, che investono in modo forte sulla loro educazione superiore e sul loro successo professionale – possono essere visti come esponenti ‘esemplari’ di una nuova unità generazionale che cerca di sviluppare competenze specifiche per far fronte all’esperienza della crescente globalizzazione, alla necessità di vivere in contesti mutevoli, spesso incerti. La loro differenza nei confronti dei coetanei ‘autoctoni’ risulta (forse) ‘di grado’, ‘relativa’, piuttosto che ‘sostanziale’.

Insistere sulla distinzione tra giovani figli di immigrati e i giovani autoctoni rischia di avvalorare in forma acritica l’idea che esista una ‘differenza sostanziale’, che questa differenza sia legata a una presunta appartenenza etnica o nazionale o a un’esperienza migratoria dei genitori che, raramente, i loro figli hanno vissuto in prima persona. Ancor più di quanto avvenga per il termine immigrato, è necessario mantenere una finestra riflessiva e critica che sottolinei che la categoria di ‘figli di immigrati’ non deriva da dimensioni oggettive, stabili e definite, di cui questi giovani sarebbero portatori, ma è un concetto analitico che segnala una particolare ‘posizione sociale’, risultato di una serie di relazioni che includono tanto i giovani figli di immigrati quanto la società ‘autoctona’; un concetto che evidenza una particolare modalità di attribuzione di senso alla realtà sociale che ritiene significativa una distinzione basata sull’origine nazionale o etnica degli individui, contribuendo a crearla, confermarla e renderla fonte plausibile di spiegazione della realtà sociale.

Ciò che i ‘figli di immigrati’ chiedono è ciò che i giovani chiedono: avere la possibilità di sviluppare le proprie capacità, poter giocare al meglio le proprie carte, poter incidere, partecipare. Chiedono cioè il riconoscimento della ‘cittadinanza’, intesa non solo in modo formale (anche se questo riconoscimento rimane fondamentale) ma come modalità concreta di esercitare la cittadinanza, di attuarla concretamente, di agire da cittadini (quella dimensione che Engin Isin chiama Acts of citizenship) (Igin E.F., Nielsen G.N. (2008) Acts of Citizenship, Zed Books, London.). Il dibattito sulla cittadinanza diviene allora un confronto sul diritto a rivendicare diritti, cioè il diritto di poter essere presenti nello spazio pubblico, avere una voce ed essere ascoltati, avendo quindi la possibilità di raccogliere il consenso di altri rispetto alla legittimità delle proprie rivendicazioni. La democrazia è soprattutto questo processo aperto di confronto e argomentazione (non una qualità che appartiene per eredità e una volta per tutte a un certo gruppo sociale). L’idea di cittadinanza come diritto a rivendicare diritti supera la dicotomia tra cittadinanza formale e sostanziale, così come la dicotomia tra ius sanguinis e ius soli, e radica gli atti di cittadinanza nel cuore stesso della convivenza democratica. La tensione tra, da un lato, la tenuta dell’importanza della cittadinanza in quanto garanzia di eguaglianza e di partecipazione e, dall’altro, la necessità di allentare il suo legame con l’identificazione nazionale per meglio riflettere la pluralità delle appartenenze invita a porre l’accento sulle ‘pratiche di cittadinanza’, cioè sulle situazioni concrete e quotidiane in cui gli individui si trovano ad agire bilanciando riconoscimento e inclusione, eguaglianza e rispetto delle specificità. La posta in gioco della cittadinanza si orienta quindi verso la stipulazione di ‘nuove forme di italianità’, che ridefiniscono i criteri di appartenenza e le regole di partecipazione alla comunità. Forme che si manifestano soprattutto nei contesti quotidiani di interazione le cui caratteristiche di dinamicità e di pluralità consentono, senza eccessive tensioni, di esprimere attraverso la partecipazione e il riconoscimento reciproco forme differenziate, sfumate e mutevoli di identificazione e di fedeltà.

Riflettere sulle trasformazioni attuali della cittadinanza proposte da una nuova, insorgente, generazione di italiani (‘autoctoni’ o ‘nuovi’), significa riflettere sul nostro futuro e preparare gli scenari entro cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Ampliare lo spazio della cittadinanza significa preparare a un società più agile e più adatta a far fronte alle trasformazioni. Anche il semplice ampliamento del riconoscimento formale di alcuni diritti tradizionalmente assicurati dall’istituto della cittadinanza sembra essere un atto tutt’altro che irrilevante e incapace di incidere sulla realtà che stiamo collettivamente costruendo. Riconoscerlo può essere un buon punto di partenza per immaginare e preparare il mondo in cui vorremmo vivere domani.

Questo implica anche riconoscere che non esiste un insieme statico, già dato e più o meno immodificabile che definisce lo spazio entro cui ‘integrare’ qualcuno che è (per natura? per cultura? per discendenza?) diverso. Ma un insieme – dinamico, continuamente aperto alla discussione e contestabile – di pratiche e di accordi che definiscono chi siamo e, soprattutto, chi vorremmo essere. L’integrazione si gioca più sulla convergenza verso un futuro comune che in un passato a cui aderire.

Assumere questa prospettiva significa però riconoscere anche gli ostacoli che rendono difficile un dibattito aperto su una cittadinanza attiva.

Come giustamente osservano Michele Colucci e Tana Anglana nel loro contributo a questo dibattito, una prospettiva di ‘classe’ può risultare più utile di una prospettiva ‘etnica’. Ad una prospettiva generazionale è dunque utile affiancare una prospettiva attenta alle dimensioni materiali e simboliche che producono discriminazioni. La ‘convergenza di destini’ (la condivisione di una medesima ‘collocazione sociale’) (Anthias F. (2013)’Hierarchies of Social Location, Class and Intersectionality: Towards a Translocational Frame’, International Sociology, 28 (1): 121-138.) consente uno sguardo più aperto che non uno sguardo che pone l’accento sulla differenza culturale (o, per lo meno, aiuta a integrarlo). Prerequisito per il riconoscimento di una cittadinanza attiva è maggiore equità sociale, maggiore attenzione alle necessità dei più svantaggiati. Come sottolineato da Nancy Fraser[2] (Fraser N., Honneth A. (2020) Redistribuzione o riconoscimento? Lotte di genere e disuguaglianze economiche, Meltemi, Milano.), la questione della redistribuzione non può essere sostituita completamente da quella del riconoscimento.

Questo implica anche riconoscere – come suggerisce nel suo intervento in questo dibattito Massimo Bressan – che l’apertura verso una cittadinanza attiva passa attraverso una riflessione collettiva sulle dimensioni etnocentriche e razziste che strutturano le modalità cognitive e politiche del rapporto instaurato con chi viene definito ‘Altro’. Una riflessione sempre più urgente e che in Italia stenta a trovare spazio nella sfera pubblica. Questo riporta alla capacità di riflettere su quali storie raccontiamo (su di Noi e sugli Altri) per raccontare storie (su chi siamo, chi vorremmo essere e su chi pensiamo che gli altri siano). Riconoscere che raccontare il nostro mondo utilizzando le categorie di immigrato, integrazione, ‘prima o seconda generazione’ racconta una specifica storia su Noi – che pone in una posizione subordinata Altri – può aiutare a riconoscere con quali nodi annodiamo nodi; non nell’illusione di scioglierli una volta per tutte ma per aiutarci a riconoscere come, chi e con quali conseguenze annodiamo.

 

 

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi