Ridurre le distanze

Michele Colucci
Ricercatore ISMED CNR

I processi di integrazione delle popolazioni di origine straniera sono oggetto da molto tempo, anche in Italia, di percorsi di ricerca, di analisi, di confronto, non senza conflitti e differenze che chiamano in causa le ragioni degli osservatori che si sono via via affacciati nella discussione.

Guardando storicamente all’intreccio tra migrazioni e politiche nella più recente vicenda italiana emerge però un dato che per certi versi ci costringe a ripensare alla radice tale dibattito e a mettere in crisi le premesse che lo hanno generato.

Anziché domandarsi quando, come e perché le politiche di integrazione non hanno funzionato proviamo a partire dalla domanda opposta: quando, come e perché possiamo rintracciare nella storia dell’Italia repubblicana percorsi sociali che hanno garantito forme di integrazione lineari di soggetti inizialmente esclusi dalla platea dei diritti fondamentali? Le risposte sono molte e i casi sono molto numerosi.

Iniziamo dalle migrazioni interne. Sappiamo che tra il censimento del 1951 e quello del 1971 i trasferimenti di residenza tra comuni hanno riguardato circa 9 milioni di persone. Non tutti emigranti, pronti a trasferirsi in luoghi lontani dal proprio luogo di nascita o di residenza, ma una buona parte sicuramente sì. La vicenda delle migrazioni interne, sviluppatasi con una dinamica di massa soprattutto negli anni 50 e 60, ha trasformato alla radice il nostro paese. I contemporanei restavano stupiti di fronte alle ondate di persone che a centinaia di migliaia ogni anno andavano a popolare quartieri, borghetti, aree vecchie e nuove di inurbamento nelle principali città italiane, che conoscevano una espansione senza precedenti: Torino, Milano, Genova, Venezia, Firenze, Roma solo per citare i casi più conosciuti.

Proprio in quegli anni nasceva il dibattito politico e sociologico sull’integrazione. Una parola che Luciano Bianciardi usava nel titolo di uno dei suoi libri più famosi nel 1960 con una evidente sfumatura al confine tra la rassegnazione e la stigmatizzazione, ma anche una parola che Francesco Alberoni e Guido Baglioni usavano cinque anni dopo nel titolo di un volume in cui si analizzavano con toni entusiasti i “magnifici” risultati del passaggio dalla campagna alla città. Quel gigantesco processo migratorio ha generato conflitti, trasformazioni, smottamenti, veri e propri terremoti in tutti i contesti in cui si è verificato, ma se vogliamo proporre un bilancio in termini di acquisizione di diritti e di allargamento dei confini della cittadinanza quel bilancio è innegabilmente positivo.

Insieme all’emigrazione interna milioni di persone hanno conosciuto e conquistato il diritto alla casa, il diritto a un lavoro stabile e retribuito dignitosamente, il diritto alla sanità pubblica, il diritto all’istruzione. Hanno forse in quella stagione beneficiato di politiche virtuose, di “best pratices”, di percorsi finalizzati all’empowerment? No. Hanno conosciuto insieme al resto della popolazione, che non stava vivendo un’esperienza migratoria, una fase di lotte e di progressivo allargamento delle maglie del welfare, dei diritti, delle tutele sociali negli ambiti più disparati della vita quotidiana.

Facciamo un bel salto nel tempo e catapultiamoci nei primi anni 90, quando proprio in una di quelle regioni che tanto avevano vissuto l’emigrazione, la Puglia, è diventato improvvisamente visibile l’impatto dell’immigrazione straniera, nella forma di un movimento particolarmente drammatico e - per quella fase – sorprendente. Si tratta dell’immigrazione dall’Albania, iniziata in modo puntiforme nel 1990 e diventata poi nel 1991 una delle grandi questioni calde del dibattito nazionale. Percepita e affrontata come una clamorosa emergenza nazionale, l’immigrazione albanese ha dominato il dibattito pubblico per tutti gli anni novanta, anche perché i flussi hanno conosciuto rapide fiammate legate alle congiunture particolarmente negative emerse nel corso del decennio, come nel 1997, quando il crollo delle cosiddette “piramidi finanziarie” creò le premesse in Albania per una spinta emigratoria fortissima.

Quale bilancio possiamo trarre a più di 20 anni di distanza da quegli eventi? Sicuramente un bilancio positivo. Le generazioni di immigrazione albanese che si sono inserite negli anni 90 hanno conosciuto una progressiva stabilizzazione, radicandosi sul territorio italiano in modo articolato, posizionandosi in comparti diversificati del mondo del lavoro e dell’impresa, avviando anche investimenti e percorsi di ritorno in patria. Senza ovviamente eccedere in una modellistica idealizzante verso l’esperienza albanese, occorre comunque sottolineare la divaricazione macroscopica tra la percezione dell’immigrazione albanese negli anni novanta e l’attuale esito. Hanno gli albanesi conosciuto nel loro percorso circuiti virtuosi legati alle politiche di integrazione che ne hanno favorito l’inserimento? Direi di no. Hanno conosciuto inizialmente razzismo e repressione e hanno poi condiviso con il mondo dell’immigrazione la stretta sempre più dura in tema di interventi legislativi. Ma la vicenda del loro insediamento è iniziata in una fase storica che potremmo definire non ancora completamente schiacciata dal peso delle politiche di austerità e di mancata redistribuzione della ricchezza.

Potremmo continuare ad elencare casi in cui sono evidenti esperienze storiche che segnalano la possibilità che interi cicli migratori conoscano un movimento di progressiva acquisizione di diritti e opportunità, che ne migliorano la condizione iniziale. Quale è quindi il dato che emerge da queste esperienze? La condizione sociale ed economica, l’universo dell’accesso ai diritti, il miglioramento delle condizioni di partenza trovano una coincidenza tra la popolazione di origine straniera e il resto della popolazione. Se migliorano le condizioni generali della popolazione, migliorano anche le condizioni della popolazione di origine straniera.

Io penso che occorra ripartire da questa convergenza di destini, che una volta per tutte ci permette di ripensare – come suggerito nel testo di presentazione del Forum – a una società divisa tra “noi” e “loro”. Nel corso degli anni 60 la popolazione immigrata nelle aree del centro-nord ha potuto godere degli stessi avanzamenti in chiave di diritti sociali del resto della popolazione perché i due segmenti di popolazione hanno condiviso un percorso comune che ne ha alla fine reso di fatto indistinguibili le differenti origini geografiche. Non è successa naturalmente la stessa cosa agli albanesi negli anni 90, ma ugualmente la “variabile” di essere albanese ha iniziato a essere meno visibile, anche perché la fase di sviluppo economico era in qualche modo ancora ascendente per tutta la popolazione, prima della crisi esplosa nel 2007-2008 che ha di fatto interrotto quella fase.

Non è facile in tempi di crisi declinare quali possano essere i percorsi che permettono di uscire in modo coeso dalla spirale della concorrenza tra gruppi, della disoccupazione e dell’abbassamento dei salari. Però a questo orizzonte credo sia urgente guardare: nella storia anche recente le sorprese non sono mancate.

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi