Una sovranità europea per la politica migratoria*

di 
Piero Fassino

La tormentata e sconcertante vicenda dell’Aquarius ha riproposto la questione di come debbano essere gestiti i flussi migratori che attraversano il Mediterraneo. Il ministro Salvini ha scelto la strada brutale del respingimento, costringendo 600 profughi e migranti ad una odissea che solo la responsabilità del governo spagnolo ha evitato precipitasse in tragedia. Una scelta che - stando agli annunci del Ministro degli interni - si vuole replicare (in queste ore con la nave Lifeline). E ciò nonostante la costante diminuzione degli sbarchi: 181.000 nel ‘16, 119.000 nel ‘17, 17.000 nei primi sei mesi del ‘18, a conferma che i flussi possono essere ridotti senza aggressive esibizioni di muscoli giocate sulla pelle di povera gente. Certo,  Salvini può vantare  il consenso che raccoglie nell’opinione pubblica. Ma è assai dubbio che una continua spirale di provocazioni e conflitti possa consentire all’Italia di ottenere risultati a Bruxelles. Quel che serve oggi, invece, è avanzare proposte serie su cui esigere che l’Unione Europea e i suoi Stati membri assumano responsabilità e concreti impegni.

 Naturalmente qualsiasi strategia non può che muovere dal presupposto che quei profughi e quei migranti sbarcano in Italia, ma in realtà hanno per meta l’Europa. Formalmente l’Unione Europea lo ha riconosciuto, con il Migration compact e un piano di redistribuzione dei migranti su tutti i Paesi dell’Unione. La realtà e’ molto diversa. I programmi di ricollocazione sono stati in gran parte disattesi per il prevalere di egoismi, pregiudizi, interessi elettorali e cosí l’Italia - come, tardivamente, hanno riconosciuto Macron, Juncker, Merkel - è stata lasciata spesso sola. Ma forse è tempo di riconoscere che la sola redistribuzione dei migranti è obiettivo debole se non è parte di una effettiva strategia comune. 

Se si vuole avere una “strategia europea” servono scelte più impegnative. Serve prima di tutto che si adotti la proposta di radicale revisione del Regolamento di Dublino, approvata a larga maggioranza dal Parlamento Europeo e ampiamente corrispondente alle richieste dell’Italia, a partire dal superamento della norma che fa carico al Paese di primo approdo a gestire i migranti. Serve poi una gestione comune delle frontiere esterne dell’Unione con un netto rafforzamento di Frontex e delle sue funzioni, tanto più in un’Europa che ha abolito le frontiere interne. Serve un diritto di asilo europeo - che oggi non c’è - superando la frammentazione e la disomogeneità di normative nazionali. Serve superare la asimmetria contributiva che vede assegnati 6 miliardi di euro alla Turchia per contenere la rotta balcanica e solo alcune centinaia di milioni di aiuti ai paesi africani per contenere i flussi sulla rotta mediterranea. Serve un piano di Accordi bilaterali tra UE e Paesi di origine, sia per dimensionare i flussi alla effettiva capacità di accoglienza dei diversi paesi europei, sia per sottrarre i migranti dalle mani dei trafficanti, sia per concordare la apertura in loco di centri di accoglienza gestiti con il concorso dell’Unchr e dell’UE. Serve estendere l’esperienza dei “corridoi umanitari” per quanti fuggono da teatri di conflitto. E serve sollecitare ogni Paese europeo a promuovere programmi di affidi familiari per dare un focolare e una vita sicura ai tanti minori non accompagnati, estendendo su scala europea anche la positiva esperienza italiana dei tutori volontari.

Insomma serve una “nuova politica migratoria europea” ed è questo obiettivo che l’Italia deve proporre e perseguire a partire dal Consiglio Europeo del prossimo 28 giugno, uscendo finalmente dalla mitologia sovranista che ogni giorno demonizza l’Unione Europea salvo poi pretendere che faccia quel che gli Stati nazionali da soli non sono in grado o non vogliono fare. Se si vuole che l’Unione assuma delle responsabilità è indispensabile riconoscerne la necessità e conferirle gli ambiti di sovranità necessari.

Tutto ciò è indispensabile per governare i flussi migratori, ma non sufficiente per aggredire la questione di fondo. L’Africa vedra’ crescere la sua popolazione dagli attuali 1.2 miliardo a 2.5 miliardi nel 2050 e a 4 miliardi a fine secolo (su 11 totali della popolazione mondiale!): quelle cifre dicono che non si può affidare solo alle migrazioni il destino di quell’immensa moltitudine di persone, a cui invece occorre offrire una diversa prospettiva di vita lí dove sono nati e vivono. Va in questa direzione l’Africa Plan elaborato dalla Commissione europea, che tuttavia dispone di una dotazione finanziaria limitata e insufficiente a promuovere politiche di investimento adeguate. Anche qui è necessario un cambio di passo. Il destino del pianeta sarà determinato in buona misura da quel che accadrà in Africa, il cui futuro non può essere affidato solo ai governi africani, ma sollecita direttamente la responsabilità dell’occidente e in primo luogo dell’Europa, chiamata non a semplici atti di solidarietà, ma a mettere in campo il suo potenziale finanziario, produttivo, tecnologico, sociale a sostegno di uno sviluppo dell’Africa che corrisponda alla stabilità, alla sicurezza e alla prosperità del continente, del Mediterraneo e dell’Europa, sempre di più legati da un destino comune.

 

*Già pubblicato sul quotidiano Corriere della sera il 26 giugno 2018