Restituire vigore all’europeismo con la forza dell’umiltà

Maurizio Caprara
Componente del Comitato scientifico del CeSPI, editorialista del Corriere della Sera ed è stato Consigliere del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Direttore dell’Ufficio per la Stampa e la Comunicazione del Quirinale.

Che cosa si è rotto? Perché siamo passati dall’essere uno dei Paesi più europeisti a uno di quelli che nel guardare l’Unione Europea provano quasi allergia? Perché, considerato che dall’appartenenza all’Ue ricaviamo vantaggi? Perché, mentre la maggior parte delle esportazioni italiane viene assorbita dal mercato unico europeo, il più grande del mondo? Perché, in tempi nei quali l’Ue sembra prendere a cuore più delle autorità nazionali e locali la pericolosità delle polveri sottili che inquinano la nostra aria?

Potremmo facilmente consolarci dicendo che tanta gente non capisce, e che dunque sbaglia. Tentazione da evitare. È più utile cercare spiegazioni su perché l’Unione Europea e noi, europeisti di diversa formazione e provenienza, non ci siamo fatti capire.

Le responsabilità non sono le stesse per ciascuno. Alcuni non ci hanno nemmeno provato e altri si sono sottratti ai propri doveri di spiegare. Con rare eccezioni, una parte del centro-destra ha contribuito alla circolazione di stereotipi contrari all’integrazione europea e un’altra l’ha timidamente accettata. Pavidamente, personalità di governo di centro-sinistra negli anni scorsi non si sono risparmiate di assecondare la retorica contro “la burocrazia di Bruxelles” (in proporzione più snella rispetto alla pubblica amministrazione di vari Stati nazionali, a cominciare dal nostro). Di certo queste personalità si sono guardate dall’ingaggiare una battaglia culturale per sgonfiare falsi luoghi comuni.

L’intervento di Marco Piantini sul sito Internet del Centro Studi di Politica Internazionale intitolato “Quale europeismo? Sette domande in attesa di risposta” ha il merito di puntare a individuare strade nuove che possano rinvigorire l’Unione Europea. Innanzitutto mette in evidenza un lato trascurato della realtà: “La prima questione a cui dare risposta è fino a che punto vi sia nelle classi dirigenti europee la piena consapevolezza della fragilità della costruzione europea, anche dopo il superamento del rischio di un vero e proprio crollo finanziario, istituzionale e sociale in seguito alla crisi globale scoppiata nel 2007-2008”.

In Gran Bretagna, la furbizia fallace di David Cameron ha fornito un esempio di scuola su come tatticismi e personalismi possano compromettere strategie. Un premier intenzionato a non entrare nella cronaca a causa di una sconfitta elettorale, quando temeva la concorrenza degli antieuropeisti di Ukip, è entrato poi nella storia per effetto del referendum sull’appartenenza del suo Paese all’Ue da lui inventato per evitare quell’insuccesso.

In Italia si fa fatica a rintracciare la consapevolezza che l’Unione non è eterna. Ma alla costruzione europea sono venuti meno alcuni puntelli che nella seconda metà del XX secolo le hanno permesso di resistere alle intemperie della storia. Non esiste più il quadro internazionale del mondo diviso in due blocchi, uno influenzato dagli Stati Uniti e uno assoggettato all’Unione Sovietica. Del primo la Comunità economica europea costituiva la parte soffice, sempre più florida, protetta dal recinto solido di un’alleanza politico-militare occidentale. Nei termini di allora, non c’è più la supremazia economica che alcuni soci della Cee potevano vantare rispetto a Paesi poveri come erano Cina e India. E si sono ridotte le lentezze dei movimenti che tenevano lontani i tassi di incremento demografico di Paesi del Sud.

La diffidenza verso l’Ue è cresciuta a causa della crisi economica cominciata nel 2008. In Italia di essa si è attribuita l’origine tutta e soltanto all’esterno, agli Stati Uniti. Della crisi invece oltre l’Atlantico si trovava il detonatore. L’esplosivo era in casa nostra: alto debito pubblico (oggi superiore al 130 % del prodotto interno lordo), produttività bassa, perversioni burocratiche tali da scoraggiare gli investimenti, tolleranza nei confronti di società e piccole banche dalle fondamenta precarie, scarsità di personale adeguatamente formato per nuove funzioni.

Piazzisti di prodotti avariati, molti dirigenti politici hanno preferito assecondare la ricerca di capri espiatori invece di mettere il Paese di fronte ai fatti: i propri limiti. Ciò che finora è stata la classe dirigente italiana non si rende conto di avere un ruolo storico, lo voglia o meno. Settori consistenti dell’informazione nel frattempo presentano come critico e audace uno spirito corrosivo, mai costruttivo, esaltato al pari di una virtù.

Come ha riepilogato il presidente della compagnia IPSOS Nando Pagnoncelli, anche se il 55% degli italiani sarebbe contrario a uscire dall’Ue nel nostro Paese l’indice della fiducia verso l’Europa è calato negli ultimi sette anni da 70% a 38%. Diciamolo: siamo viziati da decenni di pace. Lo scorrere del tempo ha scolorito i ricordi delle guerre tra europei che i genitori e i nonni trasmettevano ai figli. L’assenza di conflitti tra i Paesi dell’Unione Europea ha permesso sviluppo economico e aumento dei diritti sociali, tuttavia ha eliminato le selezioni brutali di dirigenti politici. Selezioni che avevano portato in posizioni decisive uomini e donne con spalle larghe e capacità di riflessione sperimentate. È necessario ridare vitalità a questa trasmissione di conoscenze e affinare le selezioni di personalità pubbliche senza aver bisogno di traumi per riuscirci. Perché dalle reazioni ai traumi - guerre, involuzioni autoritarie, bancarotte e altri eventi dolorosi - possono nascere energie rinnovate. Ma mai subito e mai senza che prima siano stati in tanti a pagare le conseguenze immediate dei traumi.         

Le elezioni europee del 2019 potrebbero segnare un regresso difficilmente riparabile rispetto a quanto l’Ue ha costruito. Gli europeisti italiani non si stanno preparando come servirebbe. Non si intravvede l’offerta di uno o più progetti politici rivolti agli italiani imperniati su quanto converrebbe al Paese essere un motore dell’Ue.

Ridefinire e rafforzare il progetto europeo, ha ragione Piantini, è impossibile senza avvalersi dei diversi filoni dell’europeismo. Compresi quelli minimalisti. Mentre Donald Trump alza i dazi, alle opinioni pubbliche vanno fatti risultare più percepibili i benefici del mercato unico in Europa. Va detto con argomentata chiarezza all’Italia che nessuna delle sfide dalle quali è attesa può essere vinta senza alleati. E andrebbe reso evidente, per esempio, che su spazio e tecnologie collegate siamo la sesta potenza mondiale, e questo dovrebbe incentivare tra i giovani lo studio delle materie scientifiche.

Occorrerebbe dire ai cosiddetti sovranisti: pensateci bene prima di attaccare Stati delicati per gli equilibri geo-strategici del Mediterraneo, come è stato fatto attribuendo alla Tunisia di esportare delinquenti e a Malta di fare la furba sulle navi con migranti e rifugiati. Se a Tunisi crollasse l’unico assetto democratico determinato dalle “primavere arabe” del 2011, potremmo avere alle porte di casa un esportatore di terrorismo più pericoloso di quanto può esserlo una Libia frammentata. E se Malta piegata da un peso eccessivo di presenze straniere cadesse sotto un’influenza cinese, russa o turca non avremmo reso più sicuri i nostri confini. In caso di guerra, non di arrivi (fino ai primi di luglio in forte calo rispetto a 2016 e 2017) di poveracci.

Uno Stato del livello dell’Italia dovrebbe ambire a guadagnare influenza nel Mediterraneo, a trarre vantaggio dall’aiutare parti fragili di Africa e Balcani occidentali. Non rattrappirsi. Sottrarre ai nazionalisti la bandiera della difesa degli interessi nazionali è una delle risposte da dare a sostegno dell’Ue.

Indispensabile è inoltre liberarsi dal vizio dei dotti che continuavano a parlare in latino nell’era del volgare. Uno dei motivi del successo dei populisti sta nel venire chiamati così dagli avversari. Soltanto una minoranza esigua di europei sa che ai populisti si addebita di concepire la politica come illusoria simbiosi tra popolo e capo o ricorda che populisti venivano definiti movimenti antiautoritari russi dell’Ottocento. Nessuno ha più la soggezione verso la cultura marxista-leninista che portava a deplorare il populismo per riflesso condizionato, anche senza capire perché. Sono ormai quasi esclusivamente gli archeologi della preistoria del bolscevismo a rammentare che Lenin nel 1894 definiva “nemici acerrimi” i cosiddetti “amici del popolo”. Tanti di coloro che vengono tacciati di essere populisti, oggi, non si offendono di essere giudicati tali. E le persone comuni non lo reputano motivo di disdoro.

Invece no, nel nostro Paese c’è chi ritiene che basti definire qualcuno populista per squalificarlo agli occhi del popolo. Va recuperata umiltà per riportare l’europeismo fuori dalle secche nelle quali adesso sembra arenato. Con urgenza.