Quale europeismo? Sette domande in attesa di risposta

Marco Piantini
Consigliere politico per gli Affari europei dei Presidenti del Consiglio durante i governi Renzi e Gentiloni e precedentemente Consigliere politico presso la Presidenza della Repubblica

E’ grande la paura di fronte all’emergere di forze che ostentano distanza e in alcuni casi un vero e proprio disprezzo verso le Istituzioni europee e il loro futuro. Quando cresce la paura, quando il terreno sotto i piedi vacilla, è facile perdere la bussola e cercare nelle soluzioni più semplici le vie di fuga. In realtà siamo tutti avvolti da una frenesia politico culturale che rischia di colpire anche molti sostenitori della causa dell’unità europea. Anche l’europeismo è sottoposto al rischio di dubitare di tutto fuorché di se stesso.

Se non partiamo invece dai limiti che l’europeismo ha mostrato in questi anni, difficilmente saremo in condizione di muoverci in mezzo alla nebbia che ci avvolge. Se non ci interroghiamo su cosa si può intendere per europeismo, ci circonderemo di un velo di retorica senza provare a fare minimamente luce tra le ombre che si avvicinano. Rappresenteremo il conflitto politico come più ci piace, ma non ricercheremo i modi per vincere le battaglie in corso.

E’ essenziale, certo, impegnarsi per contribuire a dissipare la nebbia senza smarrire il dovuto senso di urgenza rispetto alla partita in gioco. Questa è determinata dal fatto che la casa nella quale viviamo, quella europea, non è da assumere per scontata e eterna. Non è caduta dal cielo, come ricorda il vecchio adagio spinelliano, ma non è neanche immune dalle maree che si alzano ciclicamente nella storia.

Un punto centrale per la ricerca di un argine sostenibile e durevole rispetto alla marea euroscettica mi sembra quindi essere quello di incoraggiare una visione critica e plurale dell’europeismo. Se non sapremo mobilitare le diverse motivazioni che hanno animato e animano l’europeismo (nozione peraltro poco gradita, e con ottime ragioni, agli stessi federalisti), se non accetteremo che esso è fatto da visioni anche diverse del ruolo delle Istituzioni europee delle loro politiche, saremo condannati a una posizione minoritaria in una società che cambia a ritmi vertiginosi.

Intendo qui sottolineare la necessità di un rovesciamento di prospettiva rispetto alla quasi ossessiva concentrazione nel dibattito politico sui cosiddetti sovranismi e populismi, in alcuni casi più concretamente, e più correttamente a giudizio di chi scrive, definiti come nazionalismi e demagogie. Se gli avversari da battere sono nazionalismo e demagogie, più che di un generico europeismo abbiamo bisogno di un più forte patriottismo (nazionale e europeo) e del razionalismo come riferimenti culturali e politici alternativi alla marea montante. Abbiamo bisogno di definire molto meglio come rispondere a alcune questioni di base, cercando di recuperare un po’ della credibilità che evidentemente è andata persa agli occhi di molti.

Provo dunque a elencare alcune questioni. Spero siano utili a mettere in evidenza la necessità di avere una visione critica e plurale dell’europeismo.

La prima questione a cui dare risposta è fino a che punto vi sia nelle classi dirigenti europee la piena consapevolezza della fragilità della costruzione europea, anche dopo il superamento del rischio di un vero e proprio crollo finanziario, istituzionale e sociale in seguito alla crisi globale scoppiata nel 2007-2008. In loro e non solo nei movimenti che, con motivazioni diverse e spesso opposte, hanno contestato il cosiddetto establishment e in alcuni paesi hanno raggiunto posizioni di governo. Lo tsunami finanziario globale si è infranto facendo molte vittime, perlopiù tra i meno protetti e meno informati, destabilizzando sistemi politici e mutando i contesti nazionali. L’edificio ha retto, è stato parzialmente sistemato, ma quanto questo esercizio provvisorio di soluzione della crisi ha oggi fatto, forse illusoriamente, crescere la convinzione al centro dei sistemi politici che, tutto sommato, il più è alle spalle? Fino a che punto ci si è resi conto delle fratture che si sono create, di quel sostanziale indebolimento delle classi medie europee che potrebbe diventare un dato strutturale di questi anni e non solo una scossa di assestamento post crisi?

La seconda questione si collega strettamente alla prima e riguarda la consapevolezza, anche all’interno del centro dei sistemi politici nazionali, del legame tra la questione europea, come questione politica del nostro tempo, e questione democratica. Se oggi assistiamo davvero al dispiegarsi di una crisi delle democrazie occidentali e di una rottura inedita nei rapporti transatlantici e del G7, vi è davvero nei movimenti politici non populisti europei la piena assunzione di responsabilità, di una responsabilità che spetta a questa generazione di leader europei nei confronti dell’unità europea? E se è così, quali sono i passi concreti che possono essere fatti? E’ davvero all’orizzonte e all’ordine del giorno delle attività e della mobilitazione di chi oggi ha responsabilità di governo o di opposizione in Europa e non ha un profilo populista? Non è impensabile oggi un pericoloso ritorno alla "nazionalizzazione delle masse". Ne consegue che dovrebbe esserci una risposta all'altezza.

Una terza questione attiene all’oggetto del contendere in questi anni. Penso che un aspetto fondamentale dello scontro politico, più o meno apertamente dichiarato tra favorevoli e contrari a una crescita della Unione Europea, riguarda non solo la possibilità di sviluppare il processo di integrazione e di portarlo a uno stadio ulteriore, quanto alcuni dei principali successi conseguiti sin qui. Le critiche ai limiti europei nascondono anche degli attacchi ai suoi successi. Tre in particolare: il mercato interno; le Istituzioni; lo spazio di diritti che la UE rappresenta.

La domanda in questo caso è quanto questi successi siano stati compresi, apprezzati, sostenuti dal mainstream del pensiero europeista in questo decennio, o quanto siano piuttosto il frutto di una dinamica già messo in atto precedentemente, e di cui rappresentano i frutti. Questo vale anche per quello spazio di diritto e di diritti che intorno al mercato si è sviluppato e che è essenzialmente collegato alle quattro libertà di movimento (persone, merci, capitali, servizi) e al patrimonio della giurisprudenza europea e alla Carta dei diritti fondamentali. Le Istituzioni europee sono mutate considerevolmente in questi anni. La politicizzazione della Commissione è cresciuta, la centralità del Parlamento europeo nella maggior parte dei processi decisionali è stata affermata. Rispetto dunque a questi tre processi di crescita comune, rispetto alla crescita economica e civile dell’Europa, rappresentata insieme dal mercato interno, dalle Istituzioni comuni e dallo spazio dei diritti, davvero le forze non populiste hanno svolto il loro compito? Davvero tutto il possibile è stato tentato per valorizzarli, spiegarli, migliorarli? Si è svolto in questo decennio all’interno dei partiti che si dichiarano – a ragione, certo – antipopulisti e proeuropei un coerente lavoro di formazione e mobilitazione su questi temi?

Una quarta questione riguarda l’impegno possibile per lo sviluppo del progetto europeo. E’ assolutamente legittimo e pertinente pensare che lo sviluppo dell’Unione politica dipenda dal nucleo di maggiore integrazione che l’unione economica e monetaria rappresenta. Sarebbe però limitativo concepire una prospettiva politica di sviluppo che interpreti esclusivamente l’euro come la base dell’Unione politica da costruire, e che si illuda di separare meccanicamente da esso il mercato interno in quanto base di un anello di paesi non interessati a una maggiore integrazione politica. E questo sia perché il mercato costituisce un formidabile fattore di integrazione, sia perché la sua organizzazione (le politiche che vi sono collegate e che si sono sviluppate nei passati decenni intorno ai suoi confini, basti pensare a quella ambientale o ancor più a quella commerciale o di concorrenza) ci offrono l’esempio più realistico di come orientare uno spazio economico con delle scelte politiche e con un modello di governo interno. Regalare il mercato interno a chi ha una visione limitata dell’Europa tarpa le ali a un auspicato sviluppo federalista. L’idea di un “mercato cattivo” contrapposto a una buona alta politica è tra l’altro ben radicato nell’immaginario di sinistra. E’ un sogno piacevole, ma che non dura. Vi è anche un nodo istituzionale legato a questa questione. Il mercato come detto sopra ha rafforzato il prototipo decisionale e giuridico comunitario. Staccarlo da ulteriori tappe evolutive comporta il rischio di un ritorno a un semplice intergovernativismo. Non sarebbe il male assoluto, ma occorre esserne consapevoli. Se si accetta infatti la nozione di europeismo, si accetta che esso possa comprendere correnti che non si rivolgono esclusivamente al federalismo spinelliano o alla variante del funzionalismo monnettiano (uso con generalità questi due riferimenti). Vi è stato e vi è all’interno del mondo europeista un effettivo confronto sulle strade da perseguire e su come arrivarvi? Vi è stato nel decennio alle spalle, vi è oggi, un pieno e approfondito dibattito, nelle forze non populiste, su questi temi? Si sono promosse energie, attenzione, confronti mettendo in campo le risorse a disposizione per capire le procedure, per promuovere politiche?

Una quinta questione riguarda approcci, idee e toni dell’europeismo. La costruzione dell’Unione Europea, una volta chiarito il quadro iniziale e di fondo del processo di integrazione stesso, ha vissuto abbastanza a lungo di indifferenza del grande pubblico e solo in limitati casi di un vero e proprio moto di partecipazione. Come e quanto è disponibile oggi l’europeismo a un dialogo effettivo e costante sui temi relativi alle politiche della Unione ? E non è esso apparso spesso algido e distaccato, impegnato a testimoniare un attestato di fede più o meno credibile agli occhi di molti cittadini, più o meno espressione di un conformismo culturale di una élite abituata a viaggiare? Il tema insomma è come recuperare una motivazione europea in quanto dimensione ideale sentita come tale, parte di un progetto politico che avanzi in sincronia con le sfide del tempo. Può essere urticante oggi porsi questa domanda, ma evitandola non facciamo un favore alla causa che si intende servire, stavolta in tempi in cui il consenso pro europeo è intaccato. Prendendo ad esempio il tema della migrazione, quanto in ritardo è arrivato un dibattito sulla politica europea per l’asilo e la migrazione anche nelle preoccupazioni quotidiane della politica nazionale? E quanto manca ancora oggi una elaborazione su questo tema così cruciale, al di là delle pur importanti soluzioni trovate a fronte di drammatiche emergenze.

La sesta questione attiene alla necessità di sviluppare una visione coerente del futuro dell’Unione Europea, delle sue Istituzioni e delle sue politiche. Questo implica anche sforzarsi di pensare un futuro per la società nella quale viviamo, al netto delle trasformazioni che la attraversano. Le prove date sino qui non sono eccellenti, pensando ad esempio a come sostanziali siano state le divisioni, e in molti casi l’immobilismo, su partite politiche al centro dell’agenda nella Unione Europea di questi anni – dalla riforma dell’euro al tema migrazioni appena citato. In assenza di una visione coerente di sviluppo, l’argomentazione pro europea vacilla paurosamente. Quanto si è investito e quanto si investe oggi per cercare anche una effettiva innovazione degli strumenti europei? Basti pensare alla debolezza del pilastro della cooperazione in ambito culturale. Basti pensare a quanto poco oggi si rifletta sulla qualità dello sviluppo economico.

Una settima domanda infine riguarda la necessità di superare i confini nazionali della politica. Vi sono credo due modi per affrontare questa questione. Il primo è affrettarsi a dichiarare indispensabile la costruzione intorno alla questione europea, e solo a quella, di nuovi soggetti politici. Il secondo è quello di cercare, per quanto sia faticoso, di identificare questioni e argomenti che siano comprensibili e accettabili da opinioni pubbliche di paesi diversi. Vi è qualcosa in comune tra lo sconcerto di ampia parte delle opinioni pubbliche dell’Europa settentrionale per le risorse destinate al salvataggio delle banche e la rabbia nell’Europa meridionale per la grande precarietà delle giovani generazioni? E' possibile, per dirla diversamente, rappresentare insieme l'operaio di Wolfsburg e il giovane precario del Mezzogiorno d'Italia? Se la risposta a questa domanda è negativa, o se non viene cercata una risposta, la causa europea di fatto è già persa. E se la ricerca di una risposta non è vissuta come un assillo fondamentale dalla politica contemporanea allora essa davvero non merita riconoscimento. La sinistra in particolare ha di fronte a se almeno tre nodi da sciogliere. Uno riguarda l'annoso dibattito sul rapporto tra condivisione e prevenzione del rischio finanziario, più indirettamente tra solidità dei conti pubblici nazionali e risorse condivise a livello europeo. C'è o no la necessità di rompere il muro di diffidenza reciproca e dare segnali concreti alle opinioni pubbliche meno vicine ma legate a uno stesso destino per via dell'Unione economica e monetaria? Un secondo riguarda la possibilità di sviluppare la capacità politica dell'Unione intorno al tema della difesa e della sicurezza. È pronta la sinistra europea a sostenere la necessità di realizzare economie di scala in questo settore e anche in alcuni ambiti proporre maggiori investimenti? Infine, sul tema della migrazione già accennato, la questione è se si è capaci di assumere definitivamente una visione di ampio respiro che si ispiri al global compact delle Nazioni Unite e che restituisca all'Europa la dignità persa nel confronto tra tanti piccoli egoismi. Questo riguarda anche e soprattutto i progressisti e li riguarda fino in fondo.

Si può pensare in conclusione è che gli europei possano unirsi intorno alla questione esistenziale della sopravvivenza dello stesso progetto europeo, concependo i prossimi appuntamenti elettorali come dei referendum sull’Europa. Ma prima o poi, il risultato non sarà quello auspicato e un fronte, per quanto unito, che non sia capace di dividere quello opposto è destinato a perdere. Oppure si può pensare che intorno a questioni diverse su politiche europee (una Europa più o meno attiva sui temi sociali, più o meno attiva sul fronte migratorio, più o meno pronta a finanziare città e territori, banche e imprese, e così via) possa più gradualmente crescere una rinnovata coesione politica europea.

Le classi dirigenti che si dicono europeiste devono scegliere se affidarsi a una singola pianta o a radici diverse, ma profonde e capaci di espandersi. L’Europa non fa abbastanza, è diventato il minimo comune denominatore del dibattito politico. Non è una cattiva notizia se chi si assume l’onore di dirsi pro europeo si assume anche l’onere di parlare al vicino di casa, sia in Italia che in Europa.

30 Luglio 2018
di
Pierre Moscovici