Oltre le nevrosi: la politica estera e il futuro dell’Ue

Maria Giulia Amadio Viceré
Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche della LUISS Guido Carli e coordinatrice accademica del Master in International Public Affairs presso la LUISS School of Government. E’ autrice della monografia “The High Representative and EU foreign policy integration. A comparative study of Kosovo and Ukraine” (2018), pubblicata da Palgrave Macmillan.

Se volessimo dare una lettura psicanalitica delle condizioni dell’Ue, potremmo affermare che soffre da tempo di nevrosi. Mi spiego meglio prendendo in considerazione un settore specifico di policy, ovvero la politica estera di sicurezza e difesa. Una definizione comprensiva di politica estera include, nel caso dell’Ue, sia le politiche intergovernative, che le sue politiche sopranazionali. Con le prime si intendono, essenzialmente, tutte quelle politiche in cui gli stati membri hanno accettato di devolvere la propria sovranità a Bruxelles, ma hanno mantenuto de facto un potere di veto permanente tramite un processo decisionale che prevede l’unanimità fra i vari governi nazionali. La diretta conseguenza di ciò non è solo che ogni stato debba essere d’accordo perché il sistema istituzionale intergovernativo possa produrre una decisione, ma anche che i governi nazionali debbano poi essere disposti ad implementare quelle stesse decisioni, eventualmente tramite l’allocazione di risorse decentralizzate, perché queste possano essere finalizzate. Con politiche sopranazionali, invece, si intendono tutte quelle aree di azione, come le politiche commerciali, che sono state parte dell’Ue fin dalle prime fasi del suo processo di istituzionalizzazione. In questi settori, non solo gli stati membri decidono in genere a maggioranza qualificata, ma le risorse sono centralizzate e quindi perlopiù controllate dalle istituzioni sopranazionali, soprattutto la Commissione Europea.

Questo doppio sistema nasce da una serie di compromessi adottati nel tempo dai paesi europei per poter avanzare nel processo di integrazione nonostante sussistessero rivalità storiche fra gli stessi. Tornando al parallelismo con la psicanalisi, così come nell’individuo l’Io cerca un equilibrio con il subconscio attraverso una serie di compromessi che ne permettano la sopravvivenza, i governi dell’Europa occidentale hanno trovato negli anni degli accomodamenti per conciliare le loro diverse concezioni di democrazia e, più semplicemente, le loro diverse preferenze. Non a caso, a tenere le fila di questo delicato equilibrio tra politiche intergovernative e sopranazionali, è un organo intergovernativo: il Consiglio Europeo. Secondo il Trattato di Lisbona (Art. 15.1), il forum che riunisce i capi di stato e di governo ha infatti il compito di dare “all'Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali”.

Il sistema di politica estera dell’Ue ha funzionato, seppure in maniera imperfetta, fino a quando le condizioni esterne sono state favorevoli. Per essere più precisi, fino a quando non si sono verificate crisi in cui i costi immediati di un eventuale intervento non sarebbero stati equamente distribuiti fra i diversi governi nazionali. In ‘Quale Europa’ Piantini evidenzia giustamente le divisioni, e in molti casi l’immobilismo, dell’Ue di fronte alle sfide centrali degli ultimi anni.  Pensiamo, ad esempio, allo stallo nei processi decisionali rispetto alle transizioni politiche in Nord Africa e Medio Oriente. Oppure alla difficoltà di rispondere inizialmente alle proteste di Maidan e all’annessione russa della Crimea. E, non ultime, le risposte (o non risposte) alle crisi migratorie e la mancata implementazione della ridistribuzione dei rifugiati. Non c’è da stupirsi. Il sistema istituzionale europeo ha conservato al suo interno i compromessi utilizzati per addomesticare i sovranismi dei paesi che hanno deciso di partecipare al progetto di integrazione. Questi compromessi, necessari ma per loro natura fragili, sono stati sconvolti dalle crisi multiple degli ultimi anni. E il risultato è stato disastroso.

Seppure è vero che le recenti crisi di politica estera si sono verificate fuori del sistema dell’Ue e che i loro effetti sono stati spesso catalizzati dalle peculiarità normative e strutturali di determinati stati membri, in molti di questi casi, le incongruenze e inconsistenze della costruzione europea stessa ne hanno amplificato gli effetti. Nel reagire alle crisi nel vicinato est e sud, gli stati membri, tramite la preeminenza del Consiglio Europeo, hanno imbrigliato il funzionamento del sistema istituzionale dell’Unione. Le istituzioni sopranazionali, inclusi la Commissione, il Parlamento Europeo e, in parte, l’Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza sono stati marginalizzati. Inevitabilmente, in un sistema preminentemente intergovernativo, determinati governi, più capaci o, molto più semplicemente più stabili di altri, sono riusciti ad imporre le proprie prerogative sugli altri. Come se ciò non bastasse, oltre ad aver interrotto il delicato equilibrio con le politiche sopranazionali, la preeminenza intergovernantiva ha inficiato i risultati di quest’ultime. Basti pensare alle difficoltà dell’UE degli ultimi anni nel mantenere la stabilità nei Balcani Occidentali dopo la sospensione del processo di allargamento (ora rilanciato) e le continue divisioni fra stati membri a riguardo. Nel mentre, a livello domestico, abili politicanti nazionali hanno approfittato del fianco offerto dall’Unione, fomentando posizioni sovraniste per i propri ritorni elettorali.

Una politica estera concertata a livello europeo sarà indispensabile per evitare l’isolamento del nostro continente in un mondo sempre più multipolare e lo sgretolamento dell’Ue sotto i colpi di nuove pressioni esterne. Per questo motivo, trovare un modello istituzionale che riesca a conciliare gli aspetti sopranazionali ed intergovernativi dell’Unione, anche quando le preferenze degli stati membri non sono allineate, sarà una delle sfide principali dell’europeismo. Naturalmente, conciliare non significa annullare le componenti intergovernative dell’Ue, ma temperarle. È indubbio che il sistema istituzionale dell’Ue sia inefficiente e manchi di legittimità democratica in situazioni di crisi. Ciononostante, sarebbe un’utopia, peraltro estremamente pericolosa come la storia insegna, credere che il progressivo annientamento delle particolarità nazionali sia la strada da intraprendere per proseguire il processo di integrazione europeo. Così come sarebbe inutile, oltre che deleterio, adottare un approccio assertivo e ricattatorio nei confronti di altri stati membri e delle istituzioni europee a protezione delle proprie prerogative nazionali. In vista di una necessaria riforma – più o meno futura – del sistema, sarebbe opportuna invece una strategia che si basi sulla paziente costruzione di alleanze con altri stati membri e con le istituzioni europee.

E’ presumibile che le elezioni europee si giochino, per la prima volta in maniera evidente, intorno ad un asse pro-anti Ue. In questo senso, il recente avvicinamento tra Orban e Salvini è certamente indice di una concertazione sovranista in vista della prossima campagna elettorale europea. Essendo la politica estera legata a molte delle dimensioni della crisi esistenziale che il processo di integrazione sta attraversando (basti pensare alla crisi migratoria), le forze europeiste dovrebbero farsi portatrici di una visione che evidenzi i successi di queste politiche senza temere di riconoscerne i limiti. Sulle modalità e i toni dell’europeismo, è essenziale che “l’élite abituata a viaggiare” di cui scrive Piantini non giudichi, disprezzando, Brexit e i risultati delle ultime elezioni italiane, ma che prenda atto di una sofferenza diffusa fra i cittadini europei. Quest’ultima è un sintomo. E, come la psicanalisi insegna, il sintomo - sia esso paura, ansia o angoscia - è un campanello d’allarme legittimo che, se non ascoltato, diventa terreno fertile per la psicosi.