La Cina nel Golfo Persico

Jacopo Scita
Al-Sabah doctoral fellow, Durham University

Negli ultimi dieci anni la Cina ha progressivamente aumentato la propria presenza nel Golfo Persico, emergendo come uno dei principali attori esterni nella regione. In particolare, il lancio della Belt and Road Initiative (BRI) nel 2013 ha rappresentato il volano politico ed economico che ha dato nuova trazione a una rete di relazioni – quella tra la Repubblica Popolare Cinese, le Monarchie arabe e l’Iran – che, storicamente, ha nelle risorse energetiche il proprio fondamento ma che oggi va acquisendo crescente complessità e sfaccettature inedite. Sono almeno tre, dunque, i temi essenziali per orientarsi in questo dedalo. Per prima cosa, è importante delineare quali sono gli interessi cinesi nella regione, da qui il punto di partenza per osservare le modalità con cui Pechino ha scelto di muoversi diplomaticamente nel Golfo Persico. In ultimo, adottando uno sguardo di medio termine, è fondamentale considerare le possibili ricadute regionali della competizione globale tra Cina e Stati Uniti.

Gli interessi cinesi nel Golfo Persico

Prima di addentrarsi nella definizione di quelli che sono i principali interessi cinesi nel Golfo Persico è importante fare una considerazione preliminare. Per Pechino, l’area – e più in generale il Medio Oriente – non rappresenta una priorità assoluta, soprattutto se confrontata con le immediate periferie che certamente generano maggior preoccupazione (e.g. il Mar Cinese Meridionale). Stabilito ciò, ci sono almeno tre macroaree nelle quali il Golfo Persico attira l’interesse cinese: la sicurezza energetica, le opportunità economiche e le considerazioni di sicurezza domestica. Nel primo caso, basti pensare che il Golfo Persico è l’origine di oltre il 40% delle importazioni totali cinesi di petrolio; allargando la lente sulle relazioni economiche, invece, per Pechino l’area non rappresenta solo un importante hub per la connettività globale via mare, ma anche un mercato attraente per i propri investimenti esteri e la costruzione di infrastrutture. Se da anni Pechino è il principale partner commerciale dell’Iran, è importante notare che dal 2020 la Cina ha ottenuto la stessa posizione dei confronti dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) superando l’Unione Europea. In ultimo, gli interessi di sicurezza cinesi non fanno solo riferimento alla garanzia dei flussi energetici e alla protezione degli investimenti nel Golfo Persico, ma si riflettono anche e soprattutto la preoccupazione che l’instabilità regionale possa generare una nova ondata di estremismo islamico che potrebbe riverberarsi tra le comunità musulmane dello Xinjiang, viste da Pechino come una forza separatista che minaccia l’integrità territoriale cinese e oggetto negli ultimi anni di repressione sistematica (si veda Lindsay Maizland, China’s repression of the Uyghurs in Xinjiang, Council of Foreign Relations, 2021).

La via cinese per navigare le rivalità regionali

L’aspetto più peculiare – e da un certo punto di vista più interessante – dell’approccio cinese al Golfo Persico è la capacità di aver coltivato relazioni positive con le Monarchie arabe e l’Iran, navigando con successo le rivalità regionali. Al cuore della strategia cinese vi è la cosiddetta diplomazia delle partnership. Sebbene non destinata esclusivamente al Golfo Persico, tale strategia rappresenta uno dei tratti più distintivi dell’approccio di Pechino, classicamente fondato sulla richiesta-promessa di reciproca non-ingerenza nella politica domestica. Come spiega benissimo Degang Sun, professore alla Fudan University di Shanghai e uno dei massimi esperti cinesi di politica mediorientale, dal punto di vista di Pechino, le partnership permettono di superare l’elemento antagonistico irrimediabilmente presente nelle alleanze militari e nelle divisioni settarie. Al contrario, una diplomazia basata sulle partnership – in cui tutti gli attori regionali possono essere non solo coinvolti ma anche trarne vantaggi reciproci – sposta, almeno teoricamente, il gioco dalla dimensione a somma zero a quella win-win (Degang Sun, China’s partnership diplomacy in the Middle East, University of Nottingham, 2020).

Le cuspidi di tale diplomazia delle partnership nel Golfo Persico sono tre: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Iran. Con i tre pesi massimi regionali Pechino ha siglato delle Comprehensive Strategic Partnership (CSP), che rappresentano il livello più alto nella gerarchia di partnership cinesi nel Medio Oriente. Lo status di CSP indica una dimensione di cooperazione multisettoriale e di lungo periodo che riflette il ruolo pivotale di Riyad, Abu Dhabi e Teheran per gli interessi di Pechino nella regione.

Come si è detto, l’aspetto più affascinante della diplomazia della partnership è l’aver permesso alla Cina di destreggiarsi con successo tra le storiche rivalità regionali. Questa apparente immunità dalle turbolenze politiche e di sicurezza nel Golfo Persico è la diretta conseguenza di un approccio che è prima di tutto economico e che ha nel continuo bilanciamento tra le Monarchie arabe e l’Iran il principale strumento di realizzazione. (si veda Julia Gurol e Jacopo Scita, China’s Persian Gulf strategy: Keep Tehran and Riyadh content, Atlantic Council, 2020). Cionondimeno, la possibilità per la Cina di focalizzare la propria relazione con i paesi del Golfo Persico sul mutuo sviluppo economico è il riflesso dell’esistenza di un’architettura di sicurezza regionale a matrice statunitense. In altre parole, il fatto che Washington rimanga il principale security provider consente a Pechino di non doversi fare carico di questo ruolo – ruolo che, per riprendere quanto scritto a Degang Sun, è naturalmente antagonistico.

La dimensione regionale della competizione tra Cina e Stati Uniti

Ecco che, anche alla luce di quanto menzionato pocanzi, il grande tema che oggi si pone di fronte agli osservatori di cose cinesi nel Golfo Persico – ma più in generale a chi guarda con attenzione alle dinamiche della regione – è la prospettiva di una sempre più evidente dimensione regionale della competizione tra grandi potenze che coinvolge Washington e Pechino.

Come brillantemente descritto da Jonathan Fulton, nonresident fellow dell’Atlantic Council, la Cina sembra sempre più attiva nel cercare di amplificare le frizioni esistenti tra gli Stati Uniti e le Monarchie del Golfo Persico (Jonathan Fulton, China is trying to create a wedge between the US and Gulf allies. Washington should take note, Atlantic Council, 2022), accrescendo la propria collaborazione con Arabia Saudita ed Emirati Arabi in settori strategici (e.g. quello della difesa e della produzione congiunta di armamenti sofisticati). Allo stesso modo, messaggi come quello lanciato dal ministro degli esteri Wang Yi a gennaio di quest’anno, secondo il quale la regione non ha bisogno di “patriarchi stranieri”, sono il riflesso di una Cina che pare prepararsi un terreno favorevole in vista di una crescente competizione regionale con gli Stati Uniti.

È importante notare, tuttavia, che al momento il dualismo tra Stati Uniti e Cina presenta manifestazioni cooperative non secondarie. Per esempio, l’amministrazione Biden sembra aver cercato in più occasioni di spingere Pechino ad avere un ruolo più attivo nelle negoziazioni per il ritorno al JCPOA, segnalando pubblicamente la compatibilità degli interessi statunitensi e cinesi riguardo la questione del programma nucleare iraniano (si veda Readout from the Biden-Xi virtual meeting, Brookings Institution, 2021).

Nel breve e medio termine, dunque, possiamo quantomeno aspettarci che la competizione tra grandi potenze generi un rinnovato dinamismo nel Golfo Persico. Da un lato i paesi della regione tenteranno quanto più possibile di capitalizzare questo confronto, utilizzando, nel caso di Arabia Saudi ed Emirati, la relazione con la Cina come una leva per ottenere maggiori concessioni dagli Stati Uniti. L’Iran, invece, continuerà a giocare la carta cinese per mostrarsi politicamente più forte e meno isolato ai tavoli negoziali internazionali. Dall’altro, la sensazione che il Golfo Persico stia diventando sempre più “affollato” – con la Cina sempre più protagonista e gli Stati Uniti che, a dispetto di un’idea molto diffusa, non sembrano intenzionati a cedere il passo nella regione – potrebbe essere causa di tensioni finora inedite.