Il Libano verso un ideale di unificazione: quello che le elezioni del 2022 possono (o non possono) cambiare

Giulia Salvatore
Junior Consultant, Capgemini France

Il Libano è attraversato da una delle più aspre crisi economiche che il Paese abbia mai conosciuto. Vittima di una classe politica corrotta ed estremamente divisa, lo Stato non detiene più un ruolo primario nelle regole del gioco libanese. La società civile, invece, cerca sempre più di combattere per un ideale di unità, nonostante la grande frammentazione interna al movimento della thawra (“rivoluzione”) nato dalle proteste dell’Ottobre del 2019.

I risultati delle elezioni di maggio 2022 fungono d’auspicio che la speranza del popolo si trasformi in realtà e che costituisca le basi per un futuro più stabile e di rinascita, in un quadro politico ancora dominato da una classe politica tradizionalista.

Le ultime elezioni hanno portato infatti grandi cambiamenti, ma anche molte conferme. L’affluenza alle urne da parte dei libanesi della diaspora e l’arrivo in Parlamento di figure indipendenti e riformiste hanno prodotto i loro risultati: Hezbollah e i suoi alleati hanno, di fatto, perso la maggioranza parlamentare rispetto alle elezioni del 2018, nonostante rappresentino ancora oggi il più grande gruppo in aula con 61 seggi su 128. La perdita della maggioranza non deve tuttavia trarre in inganno: il partito sciita dispone infatti di milizie armate potenti e numerose che non esitano ad usare la forza quando ritenuto necessario. Tuttavia, le elezioni hanno portato all’indebolimento di alcuni alleati del Partito di Dio – primo fra tutti il partito della Corrente Patriottica Libera, guidato dal maronita Gebran Bassil – ma, soprattutto, all’emergere di figure indipendenti, frutto delle proteste del 2019 volte alla secolarizzazione dell’apparato politico-statale. A causa dei fattori appena citati, le divisioni parlamentari, specchio di un ordinamento ancora molto frammentato, renderanno impossibile la formazione celere di un governo stabile e, successivamente, la nomina del Presidente della Repubblica.

Le elezioni del 2022 creano di fatto una discontinuità rispetto alle precedenti per la perdita del primato del partito Corrente Patriottica Libera, all’interno del mondo cristiano-maronita libanese, spianando invece la strada all’ascesa del partito di Samir Geagea, le Forze Libanesi. Vero risultato rivoluzionario di questa tornata elettorale è stato quello delle figure indipendenti con l’aggiudicazione di 13 seggi in Parlamento, i quali potrebbero giocare un ruolo inedito a scapito dei partiti tradizionali, che erano stati il motivo scatenante delle proteste di massa nel 2019.

In questo quadro di disordine politico, sono proprio le figure indipendenti a rappresentare il barlume di speranza verso l’unione e la sana coabitazione delle varie comunità religiose libanesi. Tuttavia, se da una parte la thawra è stata descritta come una rivoluzione senza precedenti, poiché le comunità di un Libano tradizionalmente diviso si sono riunite contro una classe politica in cui vige la corruzione e il clientelismo, d’altra parte, dopo quasi tre anni, il movimento manca di una leadership comune, nonché di un linguaggio politico chiaro e comunitario. Se nell’ottobre del 2019 il superamento del confessionalismo in Libano poteva esser visto come una possibilità concreta, nata dai sollevamenti di massa, nel 2022, e a seguito delle elezioni legislative di maggio, non si può certo affermare che la via verso la secolarizzazione della struttura politica – e soprattutto sociale – del Paese sia spianata, nonostante il successo crescente delle candidature indipendenti. Tuttavia, se si osserva attentamente il contesto di un Libano diviso ma desideroso di unità, si potrebbe intravedere una strada verso un futuro differente, anche se ancora molto lontano.

Le diciotto diverse comunità religiose presenti in Libano sono gravemente frammentate e questo aspetto ha portato il Paese ad essere identificato come uno dei casi più particolari di confessionalismo a livello mondiale. Questa peculiarità libanese ha radici profonde che si possono collegare al fattore onnipresente delle religioni, ma anche alla divisione storica del territorio. Il discorso attorno alla tayfiyya (“confessionalismo”) e in che misura la divisione di carattere politico-confessionale possa essere superata, è legato all’idea d’identità nazionale e di cittadinanza. La cittadinanza nello Stato libanese non è una cittadinanza unitaria e basata sull’uguaglianza tra i cittadini. Si tratta piuttosto di una cittadinanza condizionata, con un misto di differenziazioni che rendono l’appartenenza legale dipendente dai criteri di appartenenza alla comunità religiosa. La doppia identità di ogni libanese, insieme all’obbligo di far parte di una comunità religiosa, fa si che il cittadino non sia considerato socialmente, politicamente e giuridicamente nella sua natura umana e civile, bensì come membro di una comunità religiosa all'interno di uno Stato.

La cittadinanza, intesa come l'insieme delle regole che determina le forme di appartenenza alla società e allo Stato, è dunque varia. È possibile, infatti, affermare che non esiste un tipico cittadino libanese, ma diversi tipi di cittadini i cui diritti e doveri si differenziano a partire dall’adesione ad una specifica comunità confessionale. Tutti questi fattori legati alla divisione sociale e comunitaria impediscono la formazione di una piattaforma sociale comune e rendono quasi impossibile far emergere un’ideologia di unificazione del popolo libanese, proprio in relazione all’autonomia storica di cui godono le diverse comunità religiose, ognuna delle quali è libera di controllare e plasmare i rapporti con le altre diciotto comunità e con lo Stato. La volontà di mantenere questa differenziazione comunitaria come limitazione della sovranità dello Stato è strettamente legata all'idea di identità: l’identità libanese è secondaria a quella religiosa. La supremazia di un livello di appartenenza rispetto all’altro è fortemente ancorata alla primazia comunitaria e confessionale. Considerando questo, il rapporto con l’identità politica sfocia in una dicotomia con la controparte religiosa, creando conseguentemente la cosiddetta coabitazione o convivenza politica. Nel caso libanese, essendo la vita politica estremamente polarizzata, la contrapposizione tra autonomia delle comunità e coabitazione è sempre stato un nodo molto difficile da sciogliere e che ha portato ad una convivenza complessa e fondata sulla tendenza alla prevaricazione, in ambito politico e sociale.

Storicamente, sono esistiti momenti – sebbene brevi – di convivenza pacifica nelle due sfere della vita del Paese. Tuttavia, questi periodi sono stati interrotti da lunghi e sanguinosi conflitti che hanno portato il modello della convivenza – inteso come nuovo principio che regola il contenzioso di maggioranza e minoranza tra le comunità – a porsi in una situazione difficile e nuova. Il possibile inserimento della dinamica della convivenza richiedeva, infatti, la trasformazione dello Stato in terreno comune per le comunità. Tuttavia, né la storia né le prospettive presenti o quelle future aiutano a favorire il radicamento del modello della convivenza. Il conflitto tra maggioranza e minoranza, infatti, si è esacerbato ancora di più a livello politico, creando una storia conflittuale fatta di scontri politici aperti, interessi e obiettivi diversi, nonché evoluzioni divergenti e parallele che si sono riversate in divisioni sociali.

Il paradigma dello Stato confessionale basato sulla frammentazione identitaria è stato confermato anche nelle ultime elezioni libanesi. L’onda del cambiamento potrebbe essere cavalcabile solo ed unicamente dal momento in cui si riuscirà a scindere l’appartenenza religiosa viscerale, per poter abbracciare un sentimento di unione verso un’identità comune. Sebbene queste elezioni abbiano portato a dei cambiamenti significativi nella composizione del Parlamento, rimane ancora giovane e immaturo il progetto della thawra libanese basato sullo slogan “Killon yaane Killon” (“tutti significa tutti”), abbandonando così i partiti tradizionalisti corrotti e colpevoli della crisi attuale, ma che rappresentano ancora gran parte della voce del popolo e che continuano a calcare la scena politica del Paese.

Lo scenario post-elettorale con i 13 seggi attribuiti a forze politiche indipendenti, sebbene lasci intravedere un lumicino di ottimismo, non è dunque sufficiente per immaginare la creazione di un consenso parlamentare tale da poter attuare le necessarie riforme politico-istituzionali e, soprattutto, socioeconomiche. È per questo che la nomina del Primo Ministro e, successivamente, quella del Presidente della Repubblica richiederà molto più tempo del previsto, rischiando una lunga e dolorosa paralisi politica che aggraverebbe la tremenda crisi finanziaria ed economica che sta affossando il Paese. D’altro canto, l’incertezza che deriva da un quadro istituzionale così frammentato, potrebbe portare uno dei più grandi attori a livello territoriale a prendere in mano la situazione con tutti i mezzi possibili, come già fatto in precedenza: Hezbollah.

Per quanto, infatti, le istanze sociali datate ottobre 2019 abbiano portato a risultati semi-rivoluzionari nelle recenti elezioni, quest’ultime mostrano anche come gran parte della popolazione libanese abbia ancora una volta girato le spalle a quel “tutti significa tutti” di due anni fa, mantenendo un certo status quo – anche se indebolito– nella struttura politico-istituzionale del Paese. Le forze indipendenti dovrebbero dunque cercare una linea politica comune e chiarire la loro strategia politica nel breve e nel lungo periodo, in modo da delineare con chiarezza le prossime alleanze parlamentari.