Articolo di Laura Mirachian

Medio Oriente. Una lunga storia

All’origine dell’attuale scenario conflittuale tra Israele e Palestinesi, vi è un capolavoro degli Europei, o meglio dei Britannici. Che durante la Prima Guerra Mondiale, per sconfiggere l’Impero Ottomano che da 400 anni dominava il Medio Oriente, danno assicurazioni agli Arabi che li avrebbero ricompensati con l’indipendenza sotto un governo hashemita se avessero combattuto al loro fianco, e al contempo statuiscono nella Dichiarazione Balfour del 1917 l’appoggio all’agognata “national home for Jewish people” in Palestina, “senza pregiudizio” dei diritti “civili e religiosi” delle comunità non-ebree esistenti nel territorio. Alla fine, i britannici hanno la meglio sugli Ottomani, ma pagano un prezzo in termini di continue rivolte arabe lungo tutto il loro mandato. Tanto che già nel 1922 W. Churchill si preoccupa di precisare che la creazione di uno Stato Ebraico non è nelle intenzioni della Dichiarazione Balfour, posizione poi ribadita nel Libro Bianco britannico del 1939. Nondimeno, negli anni ’30 si sviluppa un movimento arabo anti-sionista e anti-britannico. E sul lato israeliano, il movimento estremista Hergun. Tutto il resto va messo a carico della Germania Nazista, che con la terribile vicenda dell’olocausto determina un esodo massiccio di ebrei tedeschi/europei in fuga, destinato ad accrescere conflittualità e rivolte arabe.

La successiva sequenza, al termine della Seconda Guerra Mondiale, in particolare dopo la creazione dello Stato di Israele nel maggio 1948, riguarda invece preminentemente gli Arabi (ancorché su una trama conflittuale di fondo tra USA e URSS). Mentre con sollievo Londra mette termine al mandato, mentre l’incertezza cala sul piano di spartizione previsto nella Risoluzione ONU 181/47 che gli Arabi rifiutano, e David Ben Gurion dichiara uno Stato ebraico in un non-delimitato “Eretz Israel”, una coalizione araba composta da Egitto, Siria, Libano, Giordania, Iraq, scatena la guerra arabo-israeliana del 1948. E la perde: è la ‘nabka’ (catastrofe), con l’esodo di oltre 700.000 palestinesi (e di 300.000 ebrei dai paesi arabi), mai dimenticata. Seguono il blocco da parte dell’Egitto del Golfo di Aqaba e Stretti di Tiran ai navigli israeliani nel 1956, la fulminante Guerra dei Sei Giorni nel 1967 che mette a terra l’aviazione di Egitto, Siria, Iraq ed allarga i territori controllati da Israele ivi inclusa l’intera Gerusalemme, il vano attacco di Siria ed Egitto nel 1973 per il recupero del Golan e del Sinai, oltre che di Cisgiordania e Gaza, corredato dall’inedito uso dell’arma del petrolio che costringe a piedi buona parte dell’Europa.

La terza sequenza si apre sotto gli auspici degli USA: dagli Accordi di Camp David nel 1978 basati sul principio di un’Autorità autonoma palestinese e sull’attuazione delle Ris 242/67 e 338/73 su cessate-il-fuoco e ritiro israeliano (pur con la nota ambiguità di linguaggio: ritiro “da” territori o “dai” territori”?), alla pace tra Egitto e Israele con la restituzione e smilitarizzazione del Sinai nel 1979, e tra Giordania e Israele con la definizione delle frontiere nel 1994, fino agli Accordi di Oslo nel 1993-1995 con la creazione di un’Autorità Nazionale Palestinese su Cisgiordania e Gaza e una graduazione del controllo militare e amministrativo israeliano a misura delle esigenze di sicurezza di Israele. Itzhak Rabin vi sacrificherà la vita. Arafat subirà la contestazione violenta di gruppi dissenzienti e l’indebolimento della sua leadership. Che più tardi, nel 2006, dopo il ritiro unilaterale israeliano dalla Striscia di Gaza nel 2005, verrà nettamente decurtata con la vittoria elettorale degli islamici di Hamas. Sarà Hamas, e la concorrente formazione Jihad Islamica, a rimanere la vera spina nel fianco di Israele.

E peraltro, la mappa territoriale di Oslo, di per sé alquanto frammentata (165 aree non contigue) viene devastata nei successivi decenni dal moltiplicarsi di insediamenti israeliani entro i Territori, ad oggi circa 200 con oltre 600.00 coloni, e delle reazioni armate palestinesi. Lo scenario, da un lato vanifica i tentativi americani di negoziato nella prospettiva di due Stati (Taba 2001, Annapolis 2007, Washington 2007) e dall’altro accentua i problemi di sicurezza di Israele alimentando rivolte palestinesi spontanee o organizzate (II Intifada, 2000): un circolo vizioso di attacchi palestinesi e di barriere difensive israeliane corroborate da check-points, massiccia vigilanza armata, incursioni, drastiche azioni punitive. E’ sullo scoglio del permanente conflitto in parola che si arena anche il formato multilaterale del Processo di Barcellona inaugurato dall’Europa nel 1995, con la partecipazione di Ehud Barak e Arafat, per consolidare il processo di Oslo promuovendo sviluppo e inter-azione economica con la stessa Europa. Analoghe difficoltà riscontra il lavorìo del Quartetto ONU-USA-Russia-Europa avviato nel 2001 dopo la II Intifada. 

The Deal of the Century

 E’ in un tale contesto fortemente compromesso che Trump entra a gamba tesa il 28 gennaio. Perché proprio ora? Il Piano è funzionale alle circostanze specifiche in cui si trovano i due protagonisti, Trump e Netanyahu, accomunati dalle rispettive scadenze elettorali e contenziosi giudiziari. La terza tornata elettorale in Israele è prevista già il 2 marzo. 

Il testo ribalta i parametri sui quali la Comunità Internazionale si è misurata in questi decenni, codificati in una miriade di Risoluzioni, in particolare quelle seguite ad ognuna delle guerre arabo-israeliane, 181/1947, 242/1967, 338/1973, fino alla più recente 2334/2016 del Consiglio di Sicurezza (votata con astensione USA) che ribadisce la fine degli insediamenti ivi incluso a Gerusalemme Est e l’organizzazione di due Stati sui confini pre-1967. Il testo ignora l’ipotesi dei ‘due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza’, privilegiando la sicurezza di Israele, intesa in senso letterale come sicurezza dei confini garantita da una piena sovranità, non come reciproco riconoscimento tra due popoli, due identità, due storie. Conferma e annette gli insediamenti, e prevede lo smantellamento dei campi-profughi, con la possibilità di espulsione dei palestinesi alla bisogna. I rifugiati non potranno rientrare in Israele e anche il rientro in Palestina sarà soggetto al vaglio israeliano: potranno semmai insediarsi in paesi OCI (Organizzazione Conferenza Islamica) nella misura di 5.000 all’anno per dieci anni o integrarsi in paesi terzi. Il Piano pretende di ‘compensare’ la dismissione delle istanze palestinesi – confini pre-1967, controllo su Gerusalemme Est e Spianata delle Moschee, rientro dei rifugiati - con una cinquantina di miliardi di dollari da distribuire in dieci anni a Cisgiordania e Gaza (27,4) ma anche a Giordania (7,3), Egitto (9,1), Libano (6,3).

In larga sintesi, oltre ai muri difensivi e alle guarnigioni in stato d’allerta lungo le tortuose linee di demarcazione di oggi, avremmo d’ora in poi – il condizionale è d’obbligo – una parte di Cisgiordania annessa a Israele, ivi inclusa la Valle del Giordano, un territorio palestinese racchiuso entro il territorio israeliano, smilitarizzato, con una capitale in un sobborgo periferico di Gerusalemme (Abu Dis?), un lungo tunnel di collegamento tra Cisgiordania e Gaza controllato da Israele, e non ultimo una Spianata delle Moschee/Monte del Tempio a sovranità israeliana. Se ne riparla tra quattro anni, durante i quali sarà Israele a valutare gli adempimenti di parte palestinese, la giurisdizione israeliana si estenderà ai diritti di proprietà privata (ad es. abitazioni), e le autorità israeliane avranno diritto di incursione e di postazioni fisse in terra palestinese. Lo scambio di territori potrà avvenire a condizioni non necessariamente ‘equal’, aprendo la strada ad ulteriori annessioni israeliane o a scambi tra territori fertili e terre desertiche.

Contesto regionale e internazionale. Quali gli schieramenti?  

Le reazioni palestinesi rivelano anzitutto il senso di umiliazione e di impotenza per una piattaforma che, nelle parole di Saeb Ekerat, Capo del Direttivo PLO e negoziatore degli Accordi di Oslo, è semplicemente frutto di “arroganza e ignoranza”. Lo stesso Abu Mazen rigetta l’iniziativa, ma esitando ad interrompere la collaborazione di sicurezza instaurata con Israele ai sensi degli accordi di Oslo e annunciando una resistenza “con mezzi pacifici e popolari”. Più decise le reazioni di Hamas da Gaza. Segue il netto rifiuto di riconoscere gli USA come unici mediatori di un qualsiasi negoziato futuro e il forte appello all’Europa ad entrare in campo, e alle Nazioni Unite ad attivare una forza di interposizione ‘come in Libano’.

In campo arabo, al di là delle scontate pronunce formali della Lega Araba già il 1° febbraio e dell’OCI (Organizzazione Cooperazione Islamica) il giorno successivo che sanciscono il rifiuto del Piano, si distingue la prontezza con cui Arabia Saudita e Emirati, così come l’Egitto, segnalano invece un ‘apprezzamento’, evidentemente in omaggio alla priorità di coltivare il rapporto con USA e Israele in funzione della grande partita in corso contro l’Iran. Mentre solo la Giordania (composta per il 40% da palestinesi) si dichiara contraria, nella paventata prospettiva di divenire il luogo in cui si ammassano i futuri rifugiati (ricordiamo il ‘settembre nero’, 1970) e magari organizzare un domani una Confederazione giordano-palestinese includendovi una Cisgiordania ridimensionata. Anche la Turchia, rimasta sostanzialmente l’ultimo paese con il Qatar a coltivare, in nome di ambizioni neo-ottomane o di influenza regionale, l’appoggio ai palestinesi (anche di Hamas) dopo la fine dell’Egitto di Morsi e la defezione saudita, esprime profonda indignazione e assoluto rifiuto del Piano (‘nato già morto’). Scontata infine la bocciatura senza appello dell’Iran che ridicolizza il Piano definendolo “il tradimento del secolo”, e quella degli affiliati Hezbollah libanesi. 

Sul piano internazionale, forti perplessità sulla fattibilità concreta del Piano e riserva di attesa sull’eventuale evoluzione degli orientamenti arabi si registrano nelle dichiarazioni della Russia che, già pesantemente coinvolta sui fronti siriano e libico, non intende né confrontare frontalmente gli Stati Uniti su questo versante né optare per una scelta di campo tra Israele e palestinesi con cui intrattiene relazioni ugualmente positive. Cautela anche da parte dell’Europa, che tuttavia, in coerenza con posizioni consolidate, si appella esplicitamente alla legalità internazionale richiamando le pertinenti Risoluzioni dell’ONU e l’impegno per una soluzione negoziata che tenga conto delle ‘legittime aspirazioni’ dei due popoli: in altri termini, nessuna condanna del Piano, ma senza venir meno ai principi. Sulle stesse linee l’Italia, più incisiva la Francia. Pressoché impercettibile, infine, la posizione della Cina, notoriamente impegnata nel mega-progetto Road and Sea Belt che attraversa tutta l’area fino a lambire la costa mediterranea: la strategia cinese di penetrazione nella regione non prevede un partito preso per l’uno o l’altro dei protagonisti in conflitto.

Quali seguiti?

Il Piano del Secolo non poteva intervenire in uno scenario peggiore per l’ANP di Abu Mazen, stretto tra le accuse di corruzione, malversazioni, collaborazionismo nonché persistente dissidenza dagli Accordi di Oslo e opposizione degli attivisti di matrice islamica, e l’abbandono degli Arabi che contano nella regione. Le divisioni in campo arabo, soprattutto la disinvoltura con cui il principe ereditario saudita Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd dimentica l’Iniziativa del 2002 di Re Abdullah e avvia l’inedita alleanza con Netanyahu poggiando sulla sponda-Trump nell’ardita contesa con l’Iran, e per contro le spregiudicate ambizioni della Turchia alla ricerca di spazi di influenza regionale mediante l’appoggio alle istanze islamiche ovunque possibile (Siria, Libia), riducono sostanzialmente il terreno di manovra delle istanze palestinesi.

Per Trump, affidare la sicurezza dell’intera area ad Israele sacrificando i palestinesi significa scaricare gli oneri di una presa in carico diretta del conflitto e potersi sfilare da un  Medio Oriente che non interessa più se non a fini elettorali di breve durata. Se non fosse per la volatilità che gli conosciamo, potremmo in questo registrare una coerenza strategica assoluta. Probabilmente egli immagina che ad Israele, ben più affidabile dei referenti nel Golfo, possa poi essere delegato anche il problema del contrasto/contenimento dell’Iran.

Per Netanyahu, la ‘pax americana’ significa forse allungare i tempi del suo potere, sventare i problemi giudiziari, ma anche gestire uno scenario denso di conflittualità, contrastare il prevedibile intensificarsi di attacchi da parte di Hamas, e la ribellione delle migliaia di palestinesi destinati all’esodo: la ‘resistenza’ palestinese si sta già traducendo in manifestazioni di piazza, roghi di bandiere israeliane e americane, primi scontri. Ancorché non sia scontato che il 2 marzo il Likud di Netanyahu riesca a conquistare il quinto mandato, perché ipoteticamente potrebbe manifestarsi un inedito avvicinamento del partito concorrente ‘Blu and White’ di Benny Gantz, che necessita anche dei voti della componente araba, all’opposizione della sinistra Labour e dei liberali di Meretz nonché ai laici del Partito arabo Hadash di Ayman Odeh, molto popolare tra la classe media arabo-palestinese.  In ogni caso, le sorti dell’ANP potrebbero essere a rischio.

Il problema è come disinnescare la miccia accesa da Trump. Esiste ancora in questo frangente un ruolo per l’Europa? Come sappiamo, l’Europa è alle prese con problemi interni, economici, sociali, di bilancio. Tuttavia, con la nuova Commissione guidata da Ursula van der Leyen sta anche emergendo la consapevolezza e l’ambizione di una migliore proiezione esterna a partire dal vicinato. Né l’Europa può chiamarsi fuori da uno scacchiere che fin dalla mirabile Dichiarazione di Venezia del 1980 l’ha vista tra i protagonisti, rischiando di subire un sicuro impatto negativo in caso di deragliamento. Non ultimo, l’invadenza di altri protagonisti, Turchia e Russia in primis. Negli anni, l’Europa si è sempre impegnata per un percorso di pacificazione tra Israele e palestinesi, elargendo generosi aiuti all’UNWRA, coltivando rapporti economici e politici con i palestinesi e cercando di intessere con Israele relazioni di fiducia, senza mai venir meno ai principi della legalità internazionale. Il Piano Trump mette in discussione questi principi. E apre la strada a un’ennesima fase di acuta conflittualità, con uno scontato allargamento dello scontro sul piano regionale che aggiungerebbe ulteriori complicanze alle crisi in atto nel Grande Medio Oriente e nel Mediterraneo.  Come sventare il rischio di deriva? Realisticamente, l’Europa non può né vuole porsi in rotta di collisione con gli USA né tantomeno può ricomporre da sola un contrasto che ha radici pluridecennali. Ma può avviare un’iniziativa diplomatica di raccordo con i grandi attori regionali e internazionali, a partire dagli stessi Stati Uniti. Tale iniziativa potrebbe svilupparsi mediante una rivitalizzazione del Quartetto oppure un formato più ampio inclusivo dei principali attori regionali. Senza escludere, via facendo, la disponibilità a mettere in campo quella Forza di Interposizione a guida ONU perorata da Abu Mazen.