Articolo di Micol Benini

La paura come potere politico: analisi del conflitto in Nagorno-Karabakh

È ormai risaputo quanto la paura sia da sempre uno strumento politico estremamente efficace e come riesca a diventare lo scenario in cui l’individuo sviluppa la propria prospettiva del mondo, interpreta il passato, plasma la propria identità e quella della società in cui vive. Le emozioni però non sono sempre adatte a guidare controversie verso trattative e soluzioni pragmatiche e spesso le energie di contestazione indicano uno stato di scontento radicale e possono portare alla recisione proprio di quei legami sociali fino a quel momento costruiti. Attraverso questa chiave di lettura, è possibile esplicitare non solo alcune dinamiche di conflitto, ma anche le mancanze di uno Stato, primo ad incanalare i sentimenti del popolo nelle “giuste battaglie” legittimando, spesso, un esercizio ancor più intenso della forza.

In particolar modo la guerra del Nagorno-Karabakh, generalmente considerata come una contesa territoriale frutto di rivendicazioni storiche, etniche e religiose [1], non può essere sintetizzata tramite aspetti meramente ideologico-identitari, ma, per far fronte proprio alla complessità di questo scontro pluridecennale, è necessario esaminarne anche i caratteri economici, sociali, politici ed inevitabilmente sanitari. Quando il 27 settembre 2020 è scoppiato il secondo conflitto del Nagorno-Karabakh infatti, Armenia ed Azerbaigian stavano affrontando un momento estremamente complicato, legato ai disordini sociali ed economici che la pandemia da coronavirus aveva provocato.

Si può tracciare dunque una linea che accomuna da un lato il verificarsi di crisi politiche interne, collassi economici e l’inefficacia dei programmi sociali a sostegno della popolazione più povera e dall’altro invece gli scontri tra i due Stati, mossi prevalentemente dall’Azerbaigian che dal 2014 stava vivendo una crisi economica non indifferente. Tali problematiche interne non hanno fatto altro che aumentare il senso di incertezza nella popolazione, recentemente acuito dalla pandemia, facendo sì che la paura diventasse un valido mezzo per il potere politico con cui oscurare alcune criticità che inevitabilmente rischiano di passare inosservate di fronte alla violenza di una guerra.

Il trattato di Biškek e le radici di un nuovo scontro

Rassegnato alle pressioni di Mosca, il 12 maggio 1994 l’Azerbaigian fu costretto a firmare a Biškek un accordo di cessate il fuoco assieme all’Armenia ed al governo del Nagorno-Karabakh, sotto la supervisione del Ministro della Difesa russo Pavel Gračev. Il pactum de contrahendo, in cui gli attori coinvolti si impegnavano ad agire affinché cessasse il conflitto, si componeva anche di un vincolo legale che ostacolasse una possibile riapertura degli scontri. Tuttavia, nonostante la convenzione fosse priva di una scadenza ed estesa a tutta l’area in cui si era svolta la guerra, non risolse molteplici ambiguità: in primo luogo, secondo il diritto internazionale, la firma stessa del trattato era frutto della negoziazione bilaterale tra Azerbaigian e Armenia, in quanto non si sapeva come identificare giuridicamente il rappresentante del Nagorno-Karabakh [2]. Inoltre, le crisi di potere interno hanno comportato molteplici cambiamenti nella conduzione del conflitto: in Armenia Ter-Petrossian, più aperto al compromesso, venne sostituito da Kocharyan più vicino all’ideologia nazionalista. Invece in Azerbaigian le sconfitte militari di Elchibey vennero punite dalla perdita di consenso e dalla successiva deposizione dell’incarico a favore di Aliyev [3]. In terzo luogo poi, Armenia e Azerbaigian, essendo entità statali “nuove” e per questo carenti di infrastrutture giuridico-istituzionali in grado di garantire sicurezza, valutarono il concordato come una minaccia alla propria statehood, con l’effetto che le tensioni si inasprirono piuttosto che ridursi.

Infine, è di estrema importanza sottolineare lo stato dell’economia dei due paesi al termine dello scontro. Entrambi gli Stati avevano dovuto sostenere ingenti spese a causa degli investimenti principalmente destinati all’industria militare; a questo poi si aggiungeva il disordine sociale prodotto dagli sfollati e dai migranti che continuavano a spostarsi da una regione all’altra. Nel primo anno di indipendenza, secondo i dati del World Bank Database, in Azerbaigian si registrava un’iperinflazione del 1.662,216%, mentre in Armenia del 3.373, 759%. In quest’ultima il reddito nazionale e la produzione calarono drasticamente facendo schizzare il debito pubblico, indotto anche dall’isolamento economico voluto da Turchia ed Azerbaigian che rendeva insufficienti non solo le risorse energetiche nazionali, ma anche inefficaci gli investimenti stranieri per risollevare l’economia. In Armenia, nel 1994, tali investimenti ammontavano a 8 milioni di dollari, in Azerbaigian invece ad una cifra molto più elevata, 22 milioni, che crebbero esponenzialmente negli anni seguenti [4]. Complici le risorse di petrolio di cui l’Azerbaigian disponeva, per l’Europa in particolare era indispensabile sostenere la pace raggiunta con il cessate il fuoco per proseguire i progetti della TAP (Trans Adriatic Pipeline) che avrebbe portato il gas azero attraverso il Mediterraneo [5]. Nel processo di risoluzione del conflitto internazionale è importante notare quindi come le questioni di tipo giuridico stavano perdendo gradualmente importanza a favore invece di interessi di tipo politico [6].

La crisi sociale, politica ed economica di Stati sul lastrico

Al termine della prima guerra del Nagorno-Karabakh i due Stati risultavano fortemente impoveriti anche a livello socio-politico. Secondo il Freedom House’s Database infatti, raggiunta l’indipendenza, entrambi gli Stati abbandonarono gradualmente i processi di democratizzazione. In una scala da 0 a 7 lo Stato che possiede un punteggio tra 5.5 e 7 viene considerato come «non libero», tra il 3.0 e il 5.5 «parzialmente libero» e sotto il 3 invece come «libero». Dopo il cessate il fuoco del 1994 l’Armenia passò da un punteggio di 3.0 ad uno di 4.5 nel 2018 mentre l’Azerbaigian, nello stesso periodo di tempo, da 6.0 ad oltre 6.5. Tali dati ci permettono di inquadrare il primo paese come un «regime autoritario semi-consolidato» ed il secondo come un «regime autoritario consolidato». Il valore della democratizzazione si rivela significativo per un ulteriore aspetto: la qualità delle elezioni. Molti studi, come quelli condotti dall’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (ODIHR) e dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), hanno dimostrato la mancanza di equità e libertà nella scelta dei candidati politici da parte dei cittadini oppure il ricorso frequente alla compravendita di voti. La competizione intensa, senza la moderazione e la partecipazione allargata che la democratizzazione può fornire, rese e rende tutt’oggi estremamente complessa la situazione del Karabakh: i leader sono dotati di un’elevata autorità politica, che però non è sufficiente per agire in completa autonomia, almeno su una questione di così alto interesse pubblico.

Non deve stupire quindi che i periodi di instabilità della politica interna abbiano avuto delle ripercussioni sul conflitto stesso, laddove è possibile collegare le elezioni politiche nazionali agli scontri tra Armenia ed Azerbaigian per la disputa sul Karabakh. Ecco allora che tra i fatti più gravi della guerra compaiono quelli del giugno 1999 nei pressi del villaggio di Martakert, dove vennero registrati combattimenti intensi e solo qualche mese dopo, in ottobre, vennero assassinati otto funzionari, tra cui il primo ministro Vazgen Sargsyan nella sede del parlamento armeno, a causa di un attacco terroristico da parte di rivoluzionari armeni. Oppure ancora gli scontri di Fizuli avvenuti il 17 giugno del 2003, seguiti dalle elezioni in ottobre che portarono Ilham Aliyev al potere, sostituendo il padre come Presidente dell’Azerbaigian. Nel febbraio 2008, poi, una rinnovata fase di confusione politica provocò in Armenia la morte di dieci persone durante le proteste post-elettorali contro la vittoria di Serž Sargsyan, mentre in Azerbaigian le elezioni presidenziali riconfermarono l’incarico a Ilham Alyev. Solo un mese dopo, nel marzo 2008, ci fu una nuova aggressione a Martakert in cui, così come negli scontri precedenti, non venne chiarito chi tra i due Stati avesse mosso il primo attacco: le fonti di entrambi gli attori tuttavia concordano nel considerare la vicenda come un “diversivo” per distrarre l’opinione pubblica dalla situazione politica interna, aggravata certamente dalla forte crisi economica che aveva colpito tutto il mondo. In questo periodo infatti l’Armenia passò da una crescita annua del PIL pro capite del 14,69% nel 2007 al -13,52% nel 2009. Anche l’Azerbaigian decrebbe fortemente: nel 2006 il PIL pro capite era del 33% mentre nel 2016 raggiunse il valore di - 4,14%.

Negli anni seguenti le aggressioni si fecero più frequenti e, soprattutto, generalmente provocate (e subito smentite) dalle forze armate azere i cui tentativi di penetrazione sembrano essere stati il motivo principale degli scontri nella regione fino alla seconda guerra scoppiata nel 2020. Dopo la crisi del 2014 che causò il deprezzamento globale del petrolio, la crescita del PIL dell’Azerbaigian, che fino a quel momento aveva goduto di una crescita economica esponenziale grazie all’esportazione di petrolio facilitata dagli oleodotti, si stabilizzò al 2,2% annuo. Ad alimentare questo rallentamento della crescita economica si è aggiunto anche il crollo della richiesta globale di petrolio del 2020, oltre che l’azzeramento dei flussi finanziari legati al turismo.

Nonostante i numerosi interventi che lo Stato azero ha attuato per affrontare la pandemia, questi non sono stati sufficienti a mitigare gli effetti avversi dell’emergenza sanitaria. A partire dal giugno 2020, ad esempio, sono state approvate modifiche al regime fiscale che offrono vantaggi alle imprese colpite dal COVID-19, concedendo un anno di esenzione dall'imposta fondiaria e immobiliare a settori selezionati oppure esentando dall'imposta sul valore aggiunto (IVA) i beni e servizi di sicurezza alimentare e medica. Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato però che viste le dimensioni dell’economia sommersa dell’Azerbaigian, che raggiungeva il 52,2% del PIL nel 2018, gran parte della popolazione sia stata esclusa da questi programmi sociali ed economici, rendendo comunque vulnerabile la stabilità economica delle famiglie. I lavoratori più giovani, i quali hanno maggiori probabilità di essere disoccupati, i lavoratori ospedalieri (principalmente donne) e i lavoratori a contratto, nonché quelli informali, sono stati tra coloro che hanno maggiormente sofferto le conseguenze della pandemia. Non sono state solo le famiglie a basso reddito ad esser state private del sostegno ufficiale del governo, ma anche la classe media che costituisce all’incirca il 29% della popolazione. Complessivamente, circa cinquecentomila cittadini hanno beneficiato del sostegno statale alla disoccupazione durante la pandemia, un numero molto basso se si considera che essa è aumentata dal 4,84% nel 2019 al 6,7% nel 2020.

Le lacune e la scarsa focalizzazione delle risposte economiche per combattere la crisi originata dall’epidemia da coronavirus trovano risposte nella disponibilità di rilevazioni demografiche e sociali imprecise e molto spesso alterate. Il regime azero riduce la possibilità di avere dati trasparenti ed imparziali, consultabili sia a livello nazionale che internazionale: ad esempio riguardo al reddito delle famiglie negli insediamenti urbani e rurali oppure ai lavoratori informali, il paese utilizza dati imprecisi vista la mancanza di infrastrutture informative adeguate e gli ostacoli all’accesso ai registri ufficiali. Sia gli errori programmati che quelli non intenzionali generano la progettazione di politiche ed implementazioni basate su una realtà fittizia, quindi non idonee, specialmente in casi estremi come nella pandemia da coronavirus.

Un caso esemplare di manomissione dei dati è l’indice di Gini fornito dall'Azerbaigian Household Income and Expenditure Survey (HIES) nel periodo tra il 2002 ed il 2004. Per l'Azerbaigian, infatti, il coefficiente di Gini registrava un valore di disuguaglianza sociale nel paese esageratamente basso.Come dimostra lo studio di Lire Ersado, capo del Programma della Banca Mondiale per il Caucaso Meridionale, Europa e Asia Centrale, tale misurazione evidenzia infatti risultati molto diversi da quelli di altri paesi in transizione e con risorse naturali maggiormente significative (come la Federazione Russa). L’indice di Gini misurato sul reddito delle famiglie dell'Azerbaigian e i dati della HIES, che sono la fonte primaria di informazioni economico-sociali per l'analisi della povertà nel paese, mostra disuguaglianze di consumo estremamente basse. Tali risultati sono i più bassi mai osservati in qualsiasi paese, addirittura ampiamente inferiori rispetto a Stati generalmente considerati tra i più egualitari nel mondo, come la Danimarca dove il coefficiente di Gini era di circa il 25% nel 2004 a differenza del 18% registrato in Azerbaigian nello stesso anno [7].

Come rappresenta il World Inequality Database, infatti, la forbice sociale non si è ristretta (nonostante le dichiarazioni dell’Azerbaigian), ma continua ad ampliarsi sempre più. I dati dichiarano che il divario tra il reddito medio nazionale condiviso dal 10% più ricco e quello del 50% più povero nel periodo tra il 1980 e il 2019 è in costante crescita in Azerbaigian. La discrepanza di reddito relativa a queste due fasce di popolazione infatti, viene registrata minima nel 1990, ma poi aumenta notevolmente a partire dal 1991, confutando i dati presentati dall'Azerbaigian Household Income and Expenditure Survey e dimostrando invece come la disuguaglianza non si stia affatto riducendo. L’indice di Gini, proposto dalle autorità azere, ma anche dalla World Bank, non rispecchia quindi l’andamento reale della curva della disuguaglianza. Tale disuguaglianza economica di fatto segue mediamente lo stesso andamento in tutti gli Stati del globo, ma se ci limitiamo solamente al caso di Azerbaigian ed Armenia, ciò che è rilevante considerare è ancora una volta l’evoluzione dell’economia di entrambi i paesi: l’analisi compiuta finora sull’economia dell’Azerbaigian, se messa a confronto con quella dell’Armenia, mostra per il primo Stato una decrescita progressiva del PIL a partire dal 2014 e per il secondo invece un aumento dal 2009 [8]. Questo ha comportato per l’Armenia la possibilità di investire nella spesa pubblica un capitale maggiore: se si guardano ad esempio i valori sulla spesa pubblica nei servizi sanitari nazionali si può notare che nel 2019 in Armenia essa ammontava al 5,49% del PIL nel 2007 salendo fino al 10,02%, mentre in Azerbaigian nello stesso periodo oscillava tra l’1,9% ed il 4,1% [9] .

Il quadro che si può delineare dallo studio dei dati politici prima, economici e sociali poi, permette di comprendere ancor più chiaramente quanto l’aggravarsi di ognuno di questi aspetti in Azerbaigian abbia progressivamente alimentato la necessità di riaprire un conflitto irrisolto. Come è stato descritto fin qui, gli scontri provocati dalle incursioni oltre i propri confini delle forze armate azere sono aumentati successivamente al 2014. Il rallentamento della crescita economica, unito alla grave crisi provocata dal coronavirus, ha reso la situazione interna ancor più complicata ed incerta. Le possibilità, e soprattutto l’esigenza, di sublimare il malcontento pubblico in uno scontro causato da un fattore esterno e nemico erano particolarmente convenienti per l’Azerbaigian. Non solo: mentre il primo ministro armeno Nikol Pashinyan godeva di un’opinione pubblica a lui favorevole, il Presidente “eletto” azero, Ilham Aliyev, aveva un grande bisogno politico di una guerra per prolungare il regime dinastico della sua famiglia, avviando una terza generazione di dominio.

Il valore mediatico della guerra

Un altro aspetto che rende evidente la volontà di nascondere le criticità interne incanalando i sentimenti della società verso una causa esterna è sicuramente il modo in cui sono stati strumentalizzati dalle autorità i social network.

Il 21 maggio 2021 è circolato in Armenia un video ambientato a Yerevan che mostrava alcune persone, presumibilmente azere, camminare liberamente nel centro della città in piena pandemia da coronavirus. Lo scopo del video, prontamente contestato dal governo armeno, sarebbe stato quello di dimostrare l’inefficacia del sistema di controllo nazionale. Poco tempo dopo, a giugno, sono circolati su Facebook elenchi di cittadini armeni morti e malati di COVID-19, probabilmente diffusi grazie ad un attacco di hackers azeri che erano riusciti a trovare una falla nel sistema di sicurezza del database nazionale [10]. Infine, secondo organi di sicurezza armeni, falsi account su Facebook appartenenti ad ex soldati armeni residenti all’estero si sarebbero messi in contatto, a pochi giorni dall’inizio dello scontro, con alcuni soldati armeni per conoscere dettagli sul dispiegamento militare.

Tali episodi rendono evidente quanto la realtà sociale sia in verità parte attiva del conflitto. Da un lato infatti si può notare come in Armenia, ancor prima della guerra effettiva, si sia alimentata in maniera sicuramente efficace ed incisiva (grazie alla pervasività dei social network) la retorica di un nemico non solo storico, dunque legato alla memoria collettiva e a sentimenti latenti, ma sempre pronto ad attaccare. Dall’altro, invece, è indispensabile sottolineare fino a che punto una sensazione di incertezza possa ledere uno Stato, non solo dal punto di vista collettivo, ma anche individuale. Nel primo caso infatti si parla di attacchi alla sicurezza nazionale, come dimostra la vulnerabilità del sistema informatico nazionale; nel secondo invece si tratta di colpire la sicurezza personale, specificatamente sanitaria, specialmente quando sia l’Armenia che l’Azerbaigian stavano affrontando la prima ondata della pandemia.

Il senso di incertezza e la retorica nazionale

Emerge dunque un dilagante senso di precarietà, di paura, che spinge sia la popolazione che la retorica nazionale a rinchiudersi in un “Io/Noi” in grado di respingere l’invasione del nemico, cioè l’Altro, enfatizzando e spingendo a rifugiarsi in determinati stili e modelli etico-religiosi. Ecco allora che il concetto di “identità” non è altro che l’appiglio per sfuggire a questo forte senso di disorientamento, fornendo ai cittadini ed allo Stato stesso gli strumenti per definire ancor più radicalmente il proprio ruolo, la propria essenza. È proprio nella cultura quindi che possono prendere forma le fantasie di purezza, autenticità, confini e sicurezza, specialmente se la situazione economica, sociale e politica, come abbiamo visto, esprime incertezza [11].

Secondo il Committee in the Framework Convention for the Protection of National Minorities (FCNM), nonostante i notevoli passi avanti da parte del governo azero verso il multiculturalismo, l’Azerbaigian sembra tollerare limitatamente le minoranze nazionali. L’assenza di una legislazione idonea e di meccanismi di consultazione, aggiunta alle restrizioni alla libertà di espressione e di assemblea, crea una condizione per cui le minoranze non possono esercitare appieno i propri diritti. Sono infatti queste fasce della popolazione che ci permettono di valutare i doveri di uno Stato: esso si presenta come garante degli interessi del popolo all’interno di un determinato territorio. Così facendo può trasferire i suoi timori (veri o presunti) sulle minoranze attraverso la metafora del tradimento del progetto nazionale classico. Questo tradimento, però, non è altro che l’incapacità da parte dello Stato di mantenere la sua promessa di assicurare la sovranità nazionale. All’origine di queste polemiche, di cui ancora i dati economico-sociali studiati in precedenza sono chiare testimonianze, vi è la crescita graduale del costo dei “bisogni strumentali” [12](cioè concreti ed essenziali per il benessere del cittadino) e la progressiva erosione dello stato sociale. I mesi antecedenti e successivi alla guerra del settembre 2020 hanno sicuramente risentito di questo aspetto: nello stesso tempo l’emergenza sanitaria riduceva progressivamente la disponibilità materiale di assistenza dei malati, quindi l’accesso alle cure anche per gli stessi abitanti, e la guerra produceva un numero importante di profughi causando la migrazione di oltre 100 mila persone bisognose di aiuto.

La disuguaglianza, l’aumento del divario tra ricchi e poveri, accrescono infinitamente questa sensazione [13]. La retorica politico-ideologica appare spesso uno strumento attraverso cui i vincitori dell’attuale sistema economico giustificano qualsiasi livello di disuguaglianza. Senza dover analizzare tale disuguaglianza e stigmatizzando i perdenti per la loro mancanza di merito, virtù o diligenza, spesso tale retorica verte su elementi etnico-religiosi, come nel caso qui presentato [14]. Inoltre, la distinzione tra “pochi” e “molti” può essere devastante per la democrazia, perché tende a produrre due entità coagulate non generate da una lotta politica bensì da caratteri socio-economici e culturali distinti. A seguito di queste contraddizioni e in assenza di un nuovo orizzonte universalista ed egualitario credibile che consenta di affrontare le sfide della disuguaglianza, non è sbagliato considerare il ruolo di grande narrazione alternativa che offrono le tematiche nazionaliste ed identitarie [15].

La percezione di incertezza permette di cavalcare queste dinamiche sociali, economiche e politiche, sublimando qualsiasi tensione generata dalle grandi problematiche interne verso un pericolo esterno, non trovando dunque responsabilità nei programmi e nei sistemi statali e dunque senza necessariamente rivoluzionarli.

«Una cultura che si sente alla fine, senza più vita, cerca di governare come può la sua rovina attraverso uno stato di eccezione permanente [16]», scagionando anche la violenza più brutale come una guerra tra vicini di casa, separati solamente da una linea politica chiamata “frontiera”, dove l’incertezza pretende come compensazione la forma peggiore di certezza, quella certezza che ci fa sentire «sicuri da morire» [17].

 

[1] Da un lato quest’area è considerata dall’Armenia luogo originario della popolazione e sito ancora oggi ricco di moltissime chiese e monumenti storici armeni, dall’altro invece è storicamente correlato ai khanati turchi e alla genesi della nazione e del nazionalismo azero del XIX secolo.

[2] Questo ente infatti ancora oggi non viene riconosciuto dalla comunità internazionale ed è isolato da tutti gli altri Stati, oltre a non essere ammesso in alcuna organizzazione internazionale.

[3] Ismailzade F, 2011, p. 5.

[4] Nel corso di tre anni l’Azerbaigian ha ricevuto poco più di un milione di dollari in finanziamenti esteri, per arrivare nel 2004 a 4,719 miliardi di dollari. Differentemente, l’Armenia ha ricevuto invece stanziamenti molto meno importanti 

[5] Ronzitti N., 2014, p. 59.

[6] Krüger H., 2010, p. 118.

[7] Ersado L., 2006, p. 5.

[8] Per ulteriori approfondimenti si può consultare il sito del World Inequality Database

[9] I dati sono stati ricavati dal sito della World Bank.

[10] Ipotesi sorretta da un autorevole esperto di sicurezza informatica nonché membro dell’Internet Governance Council of Armenia

[11] Esu A., 2006, p. 112.

[ 12] Bauman Z., 1999, p. 46.

[13] In particolare si consulti Alvaredo F., Chancel L., Piketty T., Saez E. e Zucman G., 2018, p. 70.

[14] Piketty T., 2020, p. 124.

[15] Urbinati N, 2020, p. 41.

[16] Agamben G., 2020, p. 11.

[17] Appadurai A., 2017, p. 51.