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Politica

Una repubblica da mantenere

13 Settembre 2023
Francesco Olivieri

Negli Stati Uniti siamo alla vigilia di un nuovo “anno elettorale”, in cui si inizia e si porta a compimento il macchinoso processo che indicherà, nel novembre del 2024, il prossimo governante della nazione. Storicamente, la macchina elettorale americana favorisce la discesa in campo di candidati vigorosi sprizzanti energia, che vengono proiettati al più alto livello di potere, sia pure con alterni risultati. Tra questi, uomini nuovi che hanno lasciato una traccia, come JF Kennedy, o magari Obama, oppure che hanno ravvivato la fiamma di dinastie politiche già avviate, come i Bush o i Roosevelt. Il loro biglietto da visita è sempre stato quello del vigore, dello spirito del “can do”, che proietta una immagine intonata all’autoritratto dell’America. Le ansietà e le aspirazioni del momento in cui si trovano a competere, confluendo con l’esibizione della personalità che esprimono, vengono esaltate dalla prepotente retorica che non è mai mancata sulla scena politica statunitense.

Sarà così anche nel 2024, un anno in cui i maggiori contendenti sono veterani ottantenni e il paese oscilla tra diverse contrarie visioni del futuro?

Tra cinque mesi si va infatti al primo voto, le primarie dei partiti per la scelta finale dei candidati. Da parte Democratica, se Biden stesso non decide diversamente, come a volte è accaduto (Johnson) – la “nomination” del suo partito gli appartiene praticamente di diritto. Tuttavia i sondaggi dell’elettorato più vasto – anche se non proibitivi – non sono entusiastici. Anche in America aleggia il dubbio che Biden al termine di una lunga carriera possa essere oggi troppo anziano e affaticato per esprimere in modo convincente l’incessante energia che i votanti cercano nel candidato da mandare a Washington. Trump non è tanto più giovane, ma è molto più rumoroso e lo fa dimenticare. Donde il quesito: avrà Biden ancora abbastanza consenso personale da portare il suo partito oltre l’ostacolo?

Una parte degli elettori del suo partito si dichiara soddisfatta del suo operato; globalmente, il suo indice di popolarità nel paese gira intorno al 40%.  A un anno dal voto, è un valore mediocre ma non preclusivo, sostanzialmente pari a quello di cui gode Trump. Il solo rivale nel partito è per ora l’ultimo, dirazzato, dei Kennedy, che ha raccolto circa il 20% dei Democratici contro il suo 60%. Il bersaglio dei Repubblicani resta perciò Biden; ma mentre è difficile immaginarlo nei panni del tiranno cripto-comunista che dipingono i suoi avversari, Biden può invece essere vulnerabile in quelli di un uomo logorato dalle responsabilità di un intenso impegno politico durato cinquant’anni, con dodici anni di Casa Bianca, e ora sensibile alle ricadute negative di un figlio discutibile. Forse troppo per attirare -oltre al voto convinto del suo partito- anche il voto degli indipendenti, necessario per un solido nuovo mandato nei tempi conflittuali che viviamo.

Sulla riva opposta, c’è ora solo Trump. Poco dopo l’inizio delle primarie, inizierà anche il suo processo per il tentativo di interferire con le elezioni del 2020 nello Stato della Georgia: ed è questa solo una in un nugolo di imputazioni, federali e statali. L’America sta finalmente per affrontare il lascito del suo quadriennio, conclusosi con il molteplice attacco alle istituzioni nel fallito tentativo di perpetuarlo. La partita non è decisa a priori: Trump ha un ascendente quasi mussoliniano sui suoi seguaci, e per lui è ormai troppo tardi per accettare la sconfitta del 2020 senza deluderli; può quindi solo rincarare la dose. D’altra parte, il tentativo dei nuovi aspiranti in seno al partito di presentarsi come una alternativa aggiornata ha prodotto imitatori che non possono sostituirsi a lui se non superandolo, futilmente cercando cioè di essere più trumpisti di Trump (esempio De Santis, il Governatore dalla Florida). La risposta popolare indica invece che gli americani che vogliono un Trump, vogliono l’originale, non una versione domestica. Quindi in mancanza di una implosione spontanea di Donald Trump, gli altri conservatori in lista per il 2024 hanno poco spazio, anche quando sono dei politici sperimentati (come per esempio Nikky Haley, già Governatore della Carolina del Sud, o lo stesso De Santis).

Intanto Trump, che veleggia nella fascia del 40% dei consensi generici ed è sostenuto da una sua specie di culto, gode pur sempre di un suo appoggio popolare; e questo sostegno non è intaccato nemmeno dalla rivalità interna tra gli aspiranti alla candidatura presidenziale. In conclusione, il partito Repubblicano ha oggi ancora bisogno del potere di attrazione di questa improbabile figura per vincere.

Tuttavia, politica e giustizia camminano su binari diversi. La giustizia ha un proprio ritmo, lento e deliberato, ma si muove. Proprio in questi giorni, uno dei primi leader dei gruppi paramilitari impegnati nella rivolta del 6 gennaio 2021 a Washington è stato condannato a una lunga pena di detenzione. Saranno forse allora i tribunali a decidere le elezioni del prossimo anno? Le svariate imputazioni che fioccano contro l’ex-Presidente coprono una litania di reati che partono dalla sua condotta come uomo d’affari – noto per la disinvoltura con cui maneggiava la sua contabilità – per affrontare poi la ancora maggiore disinvoltura con cui da Capo dello Stato ha maneggiato non solo i segreti della nazione, ma la nazione stessa, al momento di contare i voti per accogliere il verdetto dei cittadini. Non essendoci la possibilità di conciliare truffa elettorale e fedeltà alla democrazia, l’esito parrebbe scontato.

Ma non lo è. Si è atteso molto a lungo questo giudizio: la giustizia, notoriamente bendata, non può affrettarsi senza un serio rischio di inciampare. Ne è risultato un macchinario giuridico complesso, che finisce con attivare i tribunali proprio sulla soglia di un anno di elezioni. Anche senza essere una forzatura creata per favorire l’accusa, questa circostanza sarà sfruttata della difesa.

Una condanna sarebbe fatale non per la pena stessa che ne può conseguire, ma per effetto del poco conosciuto 14mo emendamento della Costituzione americana, che esclude esplicitamente l’eleggibilità a qualunque incarico federale di chi abbia complottato contro l’Unione. Un verdetto di quel tenore, che potrebbe essere l’esito del processo con riferimento ai fatti del 6 gennaio, potrebbe sbarrare per sempre la via a Trump. Ma potrà davvero essere conclusivo se milioni di cittadini lo interpreteranno come una mossa politica?  Nella realtà, il futuro verdetto dei dodici giurati del tribunale per il fallito putsch del 2021 diventerà finale solo quando sarà avallato dai prevedibili 160 milioni di americani che voteranno nel novembre del 2024.

Quanto accade in questi tempi negli Stati Uniti cancella l’immagine fantastica di un paese che ha trovato la formula di un governo democratico senza fatica. “Questa sarà una repubblica”, disse Franklin, aggiungendo “……se sapremo conservarla”.  Oggi più che mai, le sue parole sembrano profetiche.  La repubblica è divisa, non solo dai prevedibili particolarismi che esistono in seno ad ogni grande e vasta nazione, ma dalla sempre più difficile convivenza di due contrarie immagini della sua stessa vocazione nazionale. Una parte della cittadinanza crede nel governo delle regole concordate tra i cittadini, solidalmente osservate, e nella forza che deriva dalla loro unione; l’altra preferisce invece riferirsi allo spirito di indomito individualismo che ha caratterizzato la storica sfrenata espansione della nazione. Per quest’ultima, la legge non basta, se il poliziotto è distratto: tutto ciò che è a portata può essere ambito ed appropriato, se non compare ad impedirlo una maggiore forza contraria. Al limite, esiste compassione, un dovere morale, ma non solidarietà, un dovere civile.

Tutto ciò ha quasi il sapore di una guerra di religione. Quando questa dicotomia diventa contrapposizione ideologica si favorisce una frattura nello spirito della nazione, che sovverte l’idea di unione al suo centro. È già accaduto una volta, e la ferita non è ancora completamente cicatrizzata. Non per nulla i padri fondatori degli Stati Uniti avevano adottato nella loro iconografia nazionale l’immagine romana del fascio littorio, che si trova ovunque: anche sulla parete che fa da sfondo alla Camera, nel Congresso, se ne trovano due, muti ed eloquenti, a ricordare agli americani che senza l’unione non c’è la forza.

Con queste premesse, il prossimo anno sarà carico di tensione, e sarà più oneroso il fardello dei suoi governanti.

In Europa, più che in America, ci si è molto concentrati sull’età del Presidente. Secondo chi scrive, che ha ragioni anagrafiche per simpatizzare con Biden, può ritenersi un problema minore: non inesistente, ma neanche da esagerare, ed ha anche le sue compensazioni. Un antico proverbio spagnolo dice che “il diavolo la sa lunga perché è vecchio, mica perché è diavolo”. Le schermaglie congressuali di questo biennio tendono a confermarlo. La più recente crisi parlamentare è stata quella del “plafond del deficit”, risolta abilmente da un Biden dai capelli bianchi.

Ma Trump non è un parlamentare, e la massa dei suoi seguaci lo segue proprio perché invidia la sua disponibilità a perseguire obiettivi personali senza riguardo alle regole. Questa filosofia egocentrica, che Trump non ha inventato ma che ha elevato a un palese principio di vita, a sua volta conduce a una nazione transazionale. In cambio di un potere quasi autocratico, Trump offre “panem et circenses” (soprattutto circenses) ai suoi elettori, che invidiano la sua impenitente noncuranza per la legge.

Non era certo questa la lezione dei padri della patria, né dei loro successori per oltre due secoli, nemmeno nei peggiori momenti di crisi nazionale. La generazione che ha perpetuato fin qui la visione dei fondatori sta infatti scomparendo. La vecchiaia di Biden non è solo il problema di Biden, è un problema del paese, non perché il Presidente non sia in grado di fare il suo mestiere, ma perché un suo fallimento potrebbe segnalare una transizione politica più estesa e più profonda, e un passaggio di consegne più radicale.

Occorrerebbe ritrovare un consenso nazionale, che non sembra più implicito e a portata di mano dei politici attuali. Inoltre, la vecchiaia è crudelmente imparziale, e colpisce entrambi i campi: i telegiornali stanno ora dibattendo la reale portata di alcune presunte manifestazioni di senilità del Presidente del Senato McConnell, il più autorevole parlamentare Repubblicano della “vecchia scuola”, a lungo un collega di Biden nel suo periodo al Senato. Questo dovrebbe ricordarci che gli equilibri parlamentari non sono garantiti nei termini elevati che abbiamo conosciuto nel passato, e che hanno consentito anche a maggioranze ristrette di condurre il paese con sicurezza attraverso percorsi difficili e non lineari, come all’epoca di McCarthy, Nixon e per altri versi anche quella dei Bush, con maggioranze ad hoc basate sul buon senso e su una condivisione dei valori. Questo richiederebbe continuità col passato, e comunanza di ideali.

Trump ha già vinto una volta, e può vincere ancora; e non ha lasciato dubbi su quale campo sia il suo. Resta da ricordare che un suo secondo mandato sarebbe comunque l’ultimo consentito, e bisogna anche chiedersi allora come userebbe il suo nuovo quadriennio per costruirsi una protezione a prova di legge.