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Politica

Maggioranza vs. Democrazia

13 Giugno 2022
Francesco Olivieri

Che rapporto deve esistere davvero tra queste due colonne della società moderna e illuminata?

È facile cadere nella trappola di ritenerle sinonimi. La relazione tra questi due concetti è invece meno lineare di quanto appare, e nei tempi che stiamo vivendo negli Stati Uniti le conseguenze di questa complessità si rivelano con vigore.

La premessa è che la democrazia misura la volontà della nazione cercando di identificare una maggioranza, su cui fondare la legittimità delle proprie decisioni. Si comincia con quelle che organizzano lo Stato attorno alle persone cui si rivolge presumibilmente la fiducia dei più. Nel decidere, queste persone a loro volta avranno anch’esse riguardo ai numeri, così che ogni decisione sia sostenuta da un consenso.

Si dirà che era così che si svolgevano le cose dal tempo di Pericle; ma Atene adesso appare lontana. La certezza che le decisioni riflettano il volere del popolo è erosa. I nostri numeri non sono più contenibili nell’agorà; nel tempo, abbiamo perciò stabilito di eleggere con uno scrutinio rigoroso coloro che parleranno per noi, per poi rimettere a loro di fare per il meglio o essere rispediti a casa. Oppure, invece di eleggere i nostri rappresentanti scegliamo un numero più piccolo di altri elettori, come nelle elezioni presidenziali americane, la cui funzione non è più quella di parlare a nostro nome, ma di essere contati. Ogni rimando da un livello al successivo, come in questo procedimento, per quanto sia inevitabile rende il risultato sempre meno affidabile, e il consenso popolare si può rapidamente discostare da quello degli organi che li rappresentano.

È quanto si sta manifestando oggi sempre più vistosamente negli Stati Uniti. Sappiamo già che il Capo dello Stato è designato così, e sappiamo che una volta eletto la sua capacità legislativa è subordinata ad un Congresso, i cui membri non rappresentano sempre un numero uguale di cittadini; il Senato riflette un sistema volutamente modulato, inteso a garantire una voce significativa anche agli Stati più piccoli, che sarebbero altrimenti zittiti da un parlamento strettamente proporzionale. La maggioranza che elegge un Presidente non è la stessa del Congresso.

Non si può fare a meno di preoccuparsi per la solidità del sistema, quando lo si vede oscillare tra l’impotenza e la tentazione dell’autoritarismo. Ci si può anche chiedere perché ce ne accorgiamo adesso, quando l’ingegneria del sistema politico americano è stata forgiata sostanzialmente da oltre due secoli. È un sistema la cui apparente semplicità nasconde ostacoli e aggiramenti, introdotti per risolvere - democraticamente - i quesiti a volte inaspettati che il sistema propone. Per esempio, fuori degli Stati Uniti, pochi sanno che la Costituzione americana non prevede affatto che il Presidente sia eletto a seguito di elezioni nazionali. Bisogna ad ogni passo ricordare che siamo dinanzi agli Stati Uniti d’America, un gruppo di Stati che ha scelto di convivere l’avventura della democrazia, ma che sono tutt’ora fieramente distinti. La scelta del Presidente dell’Unione è interamente collocata nelle mani di questi Stati, cui si chiede di designare, in qualunque modo scelga il parlamento dello Stato in questione, tanti elettori quanta è la somma dei Congressmen e dei Senatori cui lo Stato ha diritto. Riuniti, questi diventano il Collegio Elettorale che riconosce il Presidente in colui che ottiene la maggioranza dei loro voti. Questa maggioranza non ha nessun rapporto con la maggioranza del popolo, e nemmeno con la maggioranza dei votanti; è solo la maggioranza del Collegio, che ha vita a sé stante. Una vita breve, del resto, perché una volta contati i voti degli Stati, il Collegio ha finito la sua missione. Si noti che i Grandi Elettori non sono a loro volta eletti, e in special modo non sono le stesse persone che vengono contemporaneamente elette alla Camera o al Senato; la Costituzione lo proibisce espressamente. Sono i partiti che generalmente presentano una lista di persone, dalla quale le autorità del loro Stato attingono per formare la delegazione che poi andrà a deporre il voto, o i voti, di ciascuno Stato al momento di tirare le somme.

Ogni quattro anni, il cittadino che vota crede di votare per il candidato di un partito: invece il suo voto è solo la base per assegnare gli Elettori al Collegio. A valle di ciò, ogni Stato è libero di fare quello che vuole secondo il dettato della propria legge: può spartire proporzionalmente i voti tra i candidati, oppure può consacrare un solo vincitore, attribuendogli tutti i voti di cui lo Stato dispone.

Questo sistema di livelli successivi, anche se anni luce più agibile di quello, ad esempio, di altre nazioni nella storia (per esempio lo stato Veneziano) non è una elezione diretta. Quindi il risultato può essere conforme o meno al concetto che il Capo della Nazione debba essere colui che riceve il massimo dei voti. Specialmente in tempi recenti, si è già più volte verificato che il Presidente fosse eletto da una fortunata minoranza, con grande dispetto della infelice maggioranza. Pensiamo a Gore v. Bush nel 2000, anche se in quel caso l’entità del margine è rimasta irrisolta; più di recente, Hillary Clinton perse contro Trump nel 2016, pur raccogliendo quasi tre milioni di voti in più. Naturalmente, nel 2020 Trump ha poi invocato una immaginaria frode elettorale, che lo avrebbe privato della maggioranza; se avesse prevalso, avrebbe annullato i circa otto milioni di voti che Biden aveva comunque raccolto più di lui.

Se non c’è garanzia che conquistare la maggioranza dei voti porti un candidato alla Casa Bianca, meno ancora consacra i membri delle camere congressuali. Ogni Stato, qualunque sia la sua popolazione, nomina due Senatori al Congresso (mentre il numero dei Rappresentanti alla Camera è proporzionale alla popolazione di ciascuno), e i numeri variano cospicuamente: in alcuni piccoli Stati, 300,000 voti mandano a Washington un nuovo Senatore, in altri ce ne vogliono milioni. Dal punto di vista di una campagna elettorale per il Senato, conviene perciò probabilmente concentrarsi sul Wyoming piuttosto che sulla California.

Tutto ciò appare irrimediabilmente astruso, e con ragione; ma il vero problema è che questo sistema permette un divario tra la volontà che viene di volta in volta espressa della maggioranza degli Americani, se si ritiene che il voto di ciascuno debba pesare come il voto di qualsiasi altro, e la volontà di volta in volta manifestata del Congresso che li rappresenta a Washington. E questo senza parlare di quando lo stesso Presidente è eletto da una minoranza di cittadini. Perciò quando si va a vedere come effettivamente si comporta il governo eletto rispetto alla volontà degli stessi elettori che l’anno nominato, si trova che spesso la preferenza espressa nei sondaggi d’opinione è massicciamente contraria a quanto i rappresentanti eletti affermano essere la volontà del popolo. Questo spiega come mai divampino questioni politiche risolte da tempo nella maggioranza (ancora questa parola) delle nazioni democratiche, quando i sondaggi mostrano anche in America una forte preferenza a favore di una riforma.

Ecco alcuni esempi: aborto, armi da guerra.

Per quanto concerne l’interruzione di gravidanza, come pudicamente si chiama da noi, i dati della rispettata Pew Research parlano chiaro: oltre il 60% della popolazione ritiene debba essere consentito, sempre o almeno nella maggioranza dei casi. Tra i cittadini di origine asiatica, il 74%; tra la popolazione di colore, il 68%. Tra coloro che votano Democratico, l’80%; tra i Repubblicani decisi, il 38%, ma il 60% tra Repubblicani di tendenza meno sicuri.

Guardiamo allora ad un’altra questione, che ci esplode davanti a intervalli regolari: la questione delle armi in mano ai privati. Il 40% degli americani vive in una famiglia che possiede un’arma. Il 94% della popolazione ritiene che la violenza sia effettivamente un problema, e il 48% pensa che sia molto grave. Tra questi, il 58% degli Afroamericani, che hanno dei buoni motivi per pensarlo. Non c’è male, ma il 97% dice che il costo del sistema sanitario è un problema ancor più serio; anche qui, ci sono dei motivi. Per avere una prospettiva, solo il 26% pensa che il terrorismo internazionale sia un problema grave, mentre l’immigrazione dall’America latina è vista con allarme dal 48%. Non ci sarebbero verdure né frutta nei loro piatti senza il lavoro nascosto di questa nazione di nomadi involontari, in fuga dai loro Stati insanguinati; ma è vero che stanno cambiando la fisionomia dell’America.  

Si aggiunga, ciliegina sulla torta, che se la ripartizione dei parlamentari tra i partiti riflette naturalmente l’esito delle elezioni nei rispettivi Stati e distretti, non ne deriva per questo una fedeltà alla disciplina del partito: specialmente per i Senatori, che sono eletti nell’intero Stato e non in una circoscrizione, chi è eletto per un partito minoritario sa di essere destinato ad una vita pubblica molto breve se non viene a patti con il partito di maggioranza nello Stato. Neanche in America i parlamentari si adattano a carriere brevi, troncate bruscamente dopo un solo soggiorno a Washington. Anche il Presidente può pensare quello che vuole, ma alla fine della festa sono i good folks back home che lo prorogano o invece lo mandano a casa. Elezioni vuol dire fondi, e il partito ha i cordoni della borsa; l’alternativa sono i soldi dei grandi donatori. Questo dovrebbe assicurare la disciplina; assicura invece la potenza del big business.

È per questo motivo che tristemente leggiamo sui giornali le notizie che leggiamo. Per rimanere su un terreno purtroppo anche troppo familiare, possibile che se l’80% dei cittadini vede con favore una legge più rigorosa sul possesso delle armi, come leggiamo sui giornali, i parlamentari si stringano le spalle, dichiarino che la cosa è al di fuori delle loro possibilità, perché gli americani non lo permetteranno mai. È difficile credere che i sondaggi sbaglino sempre, e che la maggioranza degli Americani si ribellerebbero se si intervenisse. Si diceva lo stesso in Australia, che oggi - dopo aver introdotto delle norme energiche ed aver confiscato centinai di migliaia di fucili militari - ha dimezzato le perdite in vite umane. Anche il Canada, che è il bambino buono della classe quando si guarda all’anglosistema mondiale, ha appena deciso norme che vanno nella stessa direzione.

Sono i sondaggi a mentire, o è l’apparato politico americano che non è costruito per porre in atto la preferenza popolare? La risposta è insieme lapalissiana e irrisolvibile. Si possono delegare altri a parlare per noi, ma non a formare la maggioranza su cui sostenersi. La ragione per cui l’America è tuttora una democrazia è che esiste un forte impulso nella popolazione per affermare le proprie opinioni, e non si limita al giorno del voto, quindi spetta a questi milioni di americani di esprimersi trasferendo i numeri dei sondaggi nelle schede del voto; se lo faranno, peraltro, occorrerà riflettere allora sulle conseguenze di un momento dilaniante in cui si affronteranno due visioni contrapposte della nazione, così come avvenne nel 1860; e in parte i protagonisti saranno gli stessi.