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Brief e Analisi

Bosnia Erzegovina: riforma elettorale preludio alla divisione del paese?

A cura di: 

Joseph Marko

4 Maggio 2021

Venticinque anni dopo la firma degli Accordi di pace di Dayton-Parigi, del dicembre 1995, che confermarono la sovranità internazionale della Bosnia Erzegovina dopo anni di guerra, quest’ultima sembra essere tornata dov'era prima che scoppiasse il conflitto nell'aprile del 1992.

Nelle scorse settimane un cosiddetto “non-paper” inviato al presidente del Consiglio europeo Charles Michel - un documento che rappresenta una sorta di sasso di prova gettato nello stagno per verificare le reazioni suscitate - ha di fatto auspicato la spartizione della Bosnia  . Vi si propone una “Grande Albania” attraverso l’unione del Kosovo all’Albania, e una “Grande Serbia” attraverso l’unione della Republika Srpska, entità della Bosnia Erzegovina, alla Serbia in modo da compensare quest’ultima della perdita del Kosovo. E per completare con logica consequenziale questi castelli di sabbia etno-nazionali, i cantoni dell'Erzegovina della seconda entità bosniaca, la "Federazione della Bosnia Erzegovina" (FB-H) - che hanno una popolazione a maggioranza croata - si suggerisce vengano uniti alla Croazia. Ne rimarrebbe una Bosnia monca, con una popolazione quindi a maggioranza musulmano-bosniaca.

Se questo "non-paper" sia stato scritto e inviato a Bruxelles dal primo ministro sloveno Janez Janša - come si vocifera - è oggetto di accesi dibattiti, ma certo non manca di rilevanza politica dal momento che la Slovenia assumerà la presidenza del Consiglio dell'UE alla fine di giugno di quest'anno.

In questo contesto gli attuali negoziati a porte chiuse su una riforma della legge elettorale tra i partiti politici in Bosnia Erzegovina e rappresentanti di Stati Uniti, Commissione europea e OSCE assumono un significato completamente nuovo. È lecito porsi la domanda - non più solo retorica - se la proposta di modifica della legge elettorale per cui spinge in particolare il partito croato HDZ-BiH sotto la guida del suo presidente Dragan Čović aprirebbe ulteriormente - proprio con il sostegno di Stati Uniti ed Unione europea - quel vaso di Pandora che potrebbe portare allo smembramento dello stato sovrano della Bosnia Erzegovina riconosciuto internazionalmente nel 1991.

Il punto di partenza per la richiesta politica di una riforma della legge elettorale è stato il cosiddetto “caso Ljubić”, giudicato dalla Corte costituzionale bosniaca nel 2016. Božo Ljubić, allora presidente della seconda camera del parlamento dell’entità della Federazione di Bosnia Erzegovina, la cosiddetta "Casa dei Popoli", aveva presentato ricorso contro diverse disposizioni della legge elettorale perché a suo avviso violavano i principi democratici della Costituzione di Dayton. Va detto che sia la Costituzione statale nata con gli Accordi di Dayton che la Costituzione della Federazione BiH sono il risultato di un compromesso politico fondamentale per porre fine alla guerra, e si basano sul modello di una "democrazia consociativa multietnica", così come la definisce la Corte costituzionale nella sua rinomata sentenza del 2000 sui "Popoli costitutivi".

In questo caso, per poter risolvere numerose contraddizioni tra i testi della Costituzione di Dayton e le Costituzioni delle due entità statali, si trattava in primo luogo di definire che cosa si dovesse intendere con il concetto di "popoli costitutivi". In assenza di una definizione giuridica, la Corte costituzionale è giunta alla conclusione che i popoli che vi vengono citati e cioè bosgnacchi, croati e serbi hanno un cosiddetto diritto "collettivo" all'uguaglianza nella rappresentanza politica e nella partecipazione al processo decisionale legislativo e negli organi esecutivi, come descritto nelle singole disposizioni costituzionali per la composizione tripartita della presidenza del paese - con un rappresentante bosgnacco, uno croato e uno serbo - o la seconda camera del parlamento, la "Casa dei popoli", che deve essere composta da cinque delegati bosgnacchi, cinque croati e cinque serbi.

Al fine di rendere chiara la differenza tra una forma di governo multietnica - ma almeno democratica - e una etnocrazia, la Corte costituzionale ha affermato chiaramente in questa sentenza che "... nel contesto di uno stato multietnico come la BiH, la considerazione particolare di culture e gruppi etnici vieta non solo la loro assimilazione ma anche la loro segregazione. Pertanto, la segregazione non è - in linea di principio - un obiettivo legittimo in una società democratica. ... La delimitazione territoriale, quindi, non deve servire come strumento di segregazione etnica, ma - al contrario - deve fornire una soluzione per le garanzie etniche preservando il pluralismo linguistico e la pace al fine di contribuire all'integrazione dello stato e della società in quanto tali". Allo stesso tempo, la Corte ha anche affermato che questo diritto all'uguaglianza "collettiva" non è affatto assoluto, ma deve essere conciliato con il diritto individuale di ogni cittadino all'uguaglianza davanti alla legge, indipendentemente dalla lingua, religione, cultura, ecc., unico modo di proteggere i cittadini dalla discriminazione etnica.

Il modello della “democrazia consociativa” era anche ancorato nella costituzione contenuta nell'Accordo di Washington del 1994 che istituiva la "Federazione della Bosnia Erzegovina". In origine solo bosgnacchi e croati, nonché la categoria giuridica dei cosiddetti "altri", avevano un certo numero di seggi nella seconda camera del Parlamento, denominata "Casa dei Popoli". Solo dopo l'attuazione della sentenza appena citata sui “Popoli costitutivi” della Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina, attraverso una riforma costituzionale nel 2002, anche ai serbi sono stati riconosciuti uguali diritti come popolo costitutivo della Federazione della Bosnia Erzegovina, una delle due entità costitutive del paese: con 17 seggi ciascuno per i tre popoli e 7 seggi per gli altri".

Ora, una delle disposizioni contestate della legge elettorale, dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale nel caso Ljubić, prevedeva che almeno un delegato bosgnacco, croato e serbo per ciascuno dei dieci Cantoni della Federazione fosse rappresentato nella “Casa delle Popoli” della Federazione, anche se non ci fosse nessun rappresentante di uno dei tre popoli costitutivi nell'assemblea cantonale per motivi del sistema elettorale proporzionale. Per evitare la possibilità che non tutti i seggi nella Casa dei Popoli fossero occupati, la legge elettorale prevedeva che la Commissione elettorale centrale selezionasse per occupare i posti non riempiti il primo candidato nella lista del partito con il numero relativo più alto di voti negli altri Cantoni. Ciò che è sempre accaduto in realtà è che, dopo le elezioni delle assemblee cantonali, nella distribuzione dei seggi per la Casa dei Popoli, i delegati croati dei cantoni in cui i croati sono in minoranza abbiano ottenuto dei seggi nella Casa dei Popoli per completare la quota assegnata ai croati. Ma secondo il Dr Ljubić allora, e più di recente, fino ad oggi, secondo il presidente del partito HDZ, Comunità democratica croata della BH, Dragan Čović, si tratterebbe di una violazione di quel principio proporzionale etnico, secondo il suo parere garantito dalla Costituzione.

Il ragionamento che ha portato al ricorso presso la Corte costituzionale si riduce essenzialmente a due argomenti. In primo luogo, secondo i ricorrenti, verrebbe violato il principio dell'uguaglianza nel peso elettorale di ogni seggio croato. In secondo luogo - e questo è in realtà l'argomento centrale della motivazione del ricorso - i delegati croati non vengono eletti - in alcuni Cantoni (che sono allo stesso tempo collegi elettorali) dalle strutture particolari sotto il profilo etnico - solo da elettori che si professano membri del popolo costituente dei croati, ma anche da bosgnacchi, serbi e "altri" elettori. Con lo slogan della "rappresentanza legittima" Ljubić, e oggi anche Dragan Čović, afferma ripetutamente alla stampa che tali elettori discriminano il diritto collettivo dei popoli costitutivi alla rappresentanza etnica.

Da settimane, se non mesi, si sta discutendo quindi della riforma della legge elettorale sulla base del fatto che la sentenza della Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina sul caso "Ljubić" non sarebbe ancora stata adeguatamente attuata.

Come vanno valutate queste richieste e proposte politico-legali nel contesto della loro motivazione giuridica e delle conseguenze politiche della proposta di dividere la Bosnia Erzegovina, stato sovrano e membro delle Nazioni Unite?

Innanzitutto va sottolineato che la Corte costituzionale, tenendo conto del principio di rappresentanza etnica per la composizione della “Casa dei popoli” della Federazione nella sua sentenza del 2016 ha dichiarato incostituzionale la prescrizione della "rappresentanza minima" di almeno un bosgnacco, un croato e un serbo per ogni cantone, contenuta nella legge elettorale. Il parlamento della FBiH non ha rispettato i termini di legge concessi dalla Corte costituzionale per “riparare” questa incostituzionalità. Scaduti i termini temporali la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente abrogando con una propria sentenza la parte dell'articolo della legge elettorale dichiarata incostituzionale che pertanto non può essere più applicata.

Quindi, la “sentenza Ljubić” è già stata attuata, contrariamente a quanto affermato dal presidente dell’HDZ-BiH Čović. Questa conclusione è suffragata anche dal fatto che la Corte costituzionale, in effetti, non ha dichiarato incostituzionale quella disposizione della legge elettorale che prevede l'assegnazione di un seggio con un eletto di un altro Cantone, contrariamente a quanto lamentato dal ricorso). E quindi nella disciplina del processo elettorale non esiste alcuna "lacuna" che sarebbe necessaria colmare da una modifica della legge elettorale come lo dimostra più che chiaramente peraltro il corretto svolgimento delle elezioni generali del 2018 sulla base dell’attuale situazione giuridica, in seguito al secondo intervento della Corte costituzionale.

Inoltre, la richiesta dell'HDZ-BiH di una "rappresentanza legittima" per sancire giuridicamente una rappresentanza esclusivamente etno-nazionale - e con essa tutte le altre forme esclusive di rappresentanza - non può in alcun modo coesistere con la già citata sentenza della Corte costituzionale sui "Popoli costitutivi" nella quale si vieta la discriminazione etnica individuale nei confronti dei cittadini e nemmeno con una serie di sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) non ancora attuate perché la necessaria riforma della Costituzione di Dayton non è considerata dai partiti etno-nazionalisti dei tre i popoli costitutivi che hanno la maggioranza in Parlamento. Tutto questo nonostante la Commissione UE nel 2019 abbia fissato la riforma della costituzione come condizione per la concessione dello status di candidato per l’adesione alla Bosnia Erzegovina.

Dalle sentenze Sejdić e Finci nel 2009, Zornić nel 2014, Pilav nel 2016, Šlaku nel 2016, nuovamente confermate dalla sentenza Pudarić del dicembre 2020, è stato chiaro che la proporzionale etno-nazionale sancita dalla Costituzione di Dayton a favore dei tre popoli costitutivi per la Presidenza e per la “Casa dei Popoli” viola l'articolo 3 del 1° Protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in quanto esclude il diritto di candidarsi alle elezioni per tutti quei cittadini che non vogliono professarsi parte di uno dei tre popoli costitutivi o che non vogliono dichiararsi etnicamente o anche solo che hanno la residenza nella Entità "sbagliata". Quindi, se si volesse attuare la richiesta dell'HDZ-BiH di “legittima rappresentanza”, avverrebbe in ogni caso una discriminazione etnica nei confronti degli elettori.

E il diritto individuale di non dover essere sottoposti a nessun obbligo soggettivo di dichiararsi - come tutela da discriminazioni etniche - viene garantito dalla giurisprudenza costante della Corte di Strasburgo non solo dalla Convenzione europea sui diritti umani ma tra l’altro anche dall’articolo 3 della Convenzione per la tutela delle minoranze nazionali, che in quanto allegato I alla Costituzione di Dayton ha valore costituzionale in Bosnia Erzegovina e, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, vi trova diretta applicazione.

Di conseguenza si può affermare che la richiesta politica dell'HDZ-BiH di una riforma della legge elettorale per garantire una rappresentanza "legittima" non deve in alcun modo essere vista come una necessità giuridica legata all'attuazione della sentenza Ljubić della Corte Costituzionale. Piuttosto una tale attuazione della richiesta violerebbe i pilastri non solo del sistema costituzionale di Dayton, ma anche i principi della CEDU e della pertinente giurisprudenza della Corte di Strasburgo/per i diritti umani.

Se i rappresentanti della "comunità internazionale" dovessero sostenere queste proposte, le conseguenze politiche dell'attuazione di una rappresentanza esclusivamente etno-nazionale anche solo per le seconde camere del parlamento a livello dello Stato e dell'entità favorirebbero la divisione territoriale e la segregazione istituzionale etno-nazionale. In ogni caso, una simile “riforma” elettorale significherebbe molti passi indietro rispetto ai numerosi sforzi di molti attori e alla speranza di molti cittadini che ne hanno avuto abbastanza di una cleptocrazia strutturata etnocraticamente.

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Il dibattito

In Bosnia da mesi si dibatte di un'eventuale riforma della legge elettorale. L'HDZ chiede che venga introdotta una riforma della legge che affermano servirebbe a garantire una rappresentanza "legittima" per bloccare la pratica che rappresentanti croati nelle istituzioni vengano votati da elettori che si dichiarano bosgnacchi o di altre nazionalità. Al partito nazionalista croato si è unito il partito nazionalista serbo SNSD ed ora entrambi minacciano di bloccare le prossime elezioni politiche del 2022 se non sarà introdotta la riforma richiesta. In questo articolo, il costituzionalista Marko mette in discussione le conclusioni avanzate dai nazionalisti nell'acceso dibattito in corso. La riforma del sistema elettorale bosniaco è una delle maggiori sfide del paese dall'accordo di Dayton in quanto apre questioni critiche sulle relazioni tra i suoi tre popoli costitutivi e sulla natura stessa del sistema politico bosniaco.

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L'articolo è stato pubblicato in precendenza sul sito dell'Osservatorio Balcani Caucaso 

Joseph Marko è professore emerito in diritto costituzionale comparato e scienze politiche presso l'Università di Graz ed è stato uno dei giudici internazionali presso la Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina dal 1997 al 2002