100 giorni di protesta: la Serbia tra rivolta e silenzi
Ugo Poli
Erano 100 giorni domenica 9 febbraio, che la nuova pensilina di cemento della stazione ferroviaria di Novi Sad, la seconda città della Serbia, è rovinata a terra: 15 morti, per lo più studenti.
Ogni giorno da allora alle 11.52 del mattino la gioventù prima, ma ormai anche migliaia di cittadini delle più diverse estrazioni sociali, in centinaia di città e municipi di tutto il paese, si fermano per quindici minuti per chiedere verità e giustizia. Le università sono occupate. Insegnanti e giudici hanno preso posizione insieme agli studenti. Anche i contadini sono scesi in piazza con i trattori per difendere i manifestanti.
Perché il governo l’uso della forza lo ha tentato: episodi di intimidazione squadrista, una campagna calunniosa per screditare i leader della protesta, automobili lanciate contro la folla, arresti pretestuosi di decine di manifestanti.
Eppure, di fronte al movimento più vasto dai tempi della cacciata di Milošević e nonostante il regime sempre più oppressivo, media e giustizia in testa, costruito dal Presidente Vučić per imporre le scelte dei suoi governi contro l’opposizione della società civile, dalla cementificazione urbanistica del Danubio a Belgrado alle concessioni minerarie per l’estrazione del litio, il potere questa volta vacilla. Le dimissioni del Ministro delle Costruzioni e del Sindaco di Novi Sad già subito dopo la tragedia non hanno frenato la crescita del movimento studentesco; né hanno avuto un impatto migliore quelle del Primo Ministro Vucevic due settimane fa.
Un sondaggio indipendente di questi giorni rileva il sostegno del 61% degli interpellati alle rivendicazioni degli studenti, mentre ancor più numerosi sono coloro che considerano la corruzione la piaga più grave.
Non per caso dopo l’assedio all’emittente radio-televisiva più complice nella disinformazione sulle proteste in atto, nell’ultima settimana anche il fronte dell’informazione filogovernativa non è più compatto.
Ma questa situazione che molti cominciano a definire prerivoluzionaria, mentre rivendica trasparenza delle istituzioni e ripristino dello stato di diritto sventola soltanto le bandiere bianche, rosse e blu della Serbia. Non una bandiera europea si è vista nei cortei …
Il silenzio di Bruxelles in questi mesi è stato assordante. Decine di intellettuali e artisti serbi hanno rivolto alla Commissione un accorato appello ad uscire dalla sua ambiguità, pena la perdita di una intera generazione di giovani per il progetto europeo. Solo la settimana scorsa la Commissaria all’Allargamento Kos ha inviato una lettera al governo serbo chiedendo chiarimenti e raccomandando di evitare il ricorso all’uso della forza nel confronto con i manifestanti.
Se ne riparla martedì 11 febbraio al Parlamento Europeo dove la situazione serba è all’ordine del giorno.
Prevarranno le opinioni di chi ritiene che la Serbia ha fatto grandi progressi nelle riforme dovute sulla via dell’adesione o di chi invece ritiene che le ambiguità del sistema di potere che domina il paese da ormai quattordici anni non vadano premiate, come ha deciso per altro solo a dicembre scorso il Consiglio Europeo? La scelta del Presidente Vučić fra la formazione di un nuovo governo e le elezioni anticipate dipenderà anche da questo.
E l’Italia? Gli Italiani non sanno nulla di quel che succede nel giardino di casa balcanico! Il provincialismo dei nostri media, non giustificato dagli avvenimenti interni, non si è accorto di niente (con rarissime, occasionali eccezioni). Eppure, lo stesso Ministro degli Esteri Tajani è stato in missione a Belgrado non più tardi della settimana scorsa a riprova di una attenzione che almeno alla Farnesina c’è!