“Non dovevano partire…”, disse un nostro Ministro dopo il naufragio di Cutro nel febbraio 2023. Mio padre partì. Non fu una scelta. Partì, lasciandosi alle spalle gli incendi dei quartieri armeni e greci di Smirne, e la folla che si accalcava nelle strade verso il Porto per cercare di imbarcarsi. Partì solo, l’intera famiglia dispersa nei massacri. Partì, anzi fuggì. Si gettò in mare nelle fredde acque dello splendido Golfo di Smirne. Era novembre del 1922. Attese annaspando tra le onde, attese per ore. Finché una nave alla fonda gli avvicinò una scialuppa. Una nave con bandiera americana. Raccoglievano i naufraghi, spazzando le onde tumultuose con potenti fari nella notte. Forse un modo per riparare al grande ‘tradimento’ di non aver dato corso al piano wilsoniano di uno Stato per gli armeni previsto dal Trattato di Sèvres (1920) e azzerato nel Trattato di Losanna (1923) dopo l’avanzata di Kemal Ataturk in Anatolia.
Anche allora ci furono i ‘giusti’. Il marinaio americano che lo sorresse nella scaletta di corda per salire dalla scialuppa alla nave prima del tonfo fatale per esaurimento delle forze, e prima di lui il ‘nonno’ turco che lo nascose in casa affidandogli il piccolo gregge da pascolare rischiando lui stesso la persecuzione, e poi in Italia il compagno di banco che gli passò il compito di latino prima della consegna del foglio in bianco, e soprattutto Padre Narsette dei Mechitaristi di Venezia che lo accompagnò di casa in casa per trovargli una famiglia disposta ad accoglierlo e di strada in strada per cercare un lavoro, anche il più umile.
Si rimboccò le maniche e la sua vita in Italia fu tutta in ascesa. La sua gioia quando, dopo decenni, ricevette la lettera che gli conferiva la cittadinanza italiana. Tanta era la sua riconoscenza per il Paese che gli aveva offerto una nuova opportunità di vita, che si impegnò a fondo negli studi per imparare la lingua italiana – l’ultima dopo l’armeno, il turco, il greco, qualche nozione di francese e inglese – e conseguire la licenza liceale e poi, negli anni, la laurea in medicina. Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, si presentò al Comando delle Forze Armate italiane per essere accettato a difendere la nuova Patria, durò un tempo breve ma sufficiente per la foto che tengo sulla scrivania che lo ritrae molto fiero in divisa da ufficiale medico. Durante la vita, lavorando giorno e notte, fece fortuna, riuscendo a cogliere tutte le opportunità di un’Italia in piena ripresa postbellica. Educò le figlie allo studio, insistendo sull’apprendimento delle lingue straniere e sull’interesse per la cultura italiana e il rispetto per la cultura di altri popoli. Non perse occasione per prodigarsi a favore dei più diseredati. Era talmente popolare in Città che il suo funerale fu un grande successo, la chiesa ricolma di gente che lo aveva conosciuto come medico e come persona. Un buon esempio di integrazione.
Benvenuta, allora, la regolamentazione dei flussi migratori nel rispetto della normativa internazionale umanitaria, benvenuti i contingenti annuali d’ingresso da Paesi in travaglio, benvenuta l’insistenza su una riforma del Regolamento di Dublino che spartisca gli oneri dell’accoglimento, benvenuta l’intesa per la mobilità legale per motivi di lavoro, benvenuto il rafforzamento dei rapporti bilaterali con Paesi di provenienza e di transito anche come incentivo alle riforme invocate da Europa e FMI, e qualsiasi altra misura legale che risparmi ai migranti la morte per naufragio. E ancor più benvenuta una riflessione collettiva sul potenziale contributo che miserabili stranieri possono conferire alle società di accoglimento, sul piano economico, culturale, e umano. Non sono tutti terroristi. Una riflessione collettiva, non solo sulla base di un calcolo sul calo demografico dell’odierna Europa, ma semplicemente ripensando alla politica di integrazione che contribuì a fare grande un Impero come fu quello di Roma.
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*Laura Mirachian, diplomatica italiana, già ambasciatrice a Damasco e rappresentante permanente presso l’Onu a Ginevra. Membro del Consiglio Direttivo del CeSPI.
Migrazioni e integrazione: una storia
“Non dovevano partire…”, disse un nostro Ministro dopo il naufragio di Cutro nel febbraio 2023. Mio padre partì. Non fu una scelta. Partì, lasciandosi alle spalle gli incendi dei quartieri armeni e greci di Smirne, e la folla che si accalcava nelle strade verso il Porto per cercare di imbarcarsi. Partì solo, l’intera famiglia dispersa nei massacri. Partì, anzi fuggì. Si gettò in mare nelle fredde acque dello splendido Golfo di Smirne. Era novembre del 1922. Attese annaspando tra le onde, attese per ore. Finché una nave alla fonda gli avvicinò una scialuppa. Una nave con bandiera americana. Raccoglievano i naufraghi, spazzando le onde tumultuose con potenti fari nella notte. Forse un modo per riparare al grande ‘tradimento’ di non aver dato corso al piano wilsoniano di uno Stato per gli armeni previsto dal Trattato di Sèvres (1920) e azzerato nel Trattato di Losanna (1923) dopo l’avanzata di Kemal Ataturk in Anatolia.
Anche allora ci furono i ‘giusti’. Il marinaio americano che lo sorresse nella scaletta di corda per salire dalla scialuppa alla nave prima del tonfo fatale per esaurimento delle forze, e prima di lui il ‘nonno’ turco che lo nascose in casa affidandogli il piccolo gregge da pascolare rischiando lui stesso la persecuzione, e poi in Italia il compagno di banco che gli passò il compito di latino prima della consegna del foglio in bianco, e soprattutto Padre Narsette dei Mechitaristi di Venezia che lo accompagnò di casa in casa per trovargli una famiglia disposta ad accoglierlo e di strada in strada per cercare un lavoro, anche il più umile.
Si rimboccò le maniche e la sua vita in Italia fu tutta in ascesa. La sua gioia quando, dopo decenni, ricevette la lettera che gli conferiva la cittadinanza italiana. Tanta era la sua riconoscenza per il Paese che gli aveva offerto una nuova opportunità di vita, che si impegnò a fondo negli studi per imparare la lingua italiana – l’ultima dopo l’armeno, il turco, il greco, qualche nozione di francese e inglese – e conseguire la licenza liceale e poi, negli anni, la laurea in medicina. Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, si presentò al Comando delle Forze Armate italiane per essere accettato a difendere la nuova Patria, durò un tempo breve ma sufficiente per la foto che tengo sulla scrivania che lo ritrae molto fiero in divisa da ufficiale medico. Durante la vita, lavorando giorno e notte, fece fortuna, riuscendo a cogliere tutte le opportunità di un’Italia in piena ripresa postbellica. Educò le figlie allo studio, insistendo sull’apprendimento delle lingue straniere e sull’interesse per la cultura italiana e il rispetto per la cultura di altri popoli. Non perse occasione per prodigarsi a favore dei più diseredati. Era talmente popolare in Città che il suo funerale fu un grande successo, la chiesa ricolma di gente che lo aveva conosciuto come medico e come persona. Un buon esempio di integrazione.
Benvenuta, allora, la regolamentazione dei flussi migratori nel rispetto della normativa internazionale umanitaria, benvenuti i contingenti annuali d’ingresso da Paesi in travaglio, benvenuta l’insistenza su una riforma del Regolamento di Dublino che spartisca gli oneri dell’accoglimento, benvenuta l’intesa per la mobilità legale per motivi di lavoro, benvenuto il rafforzamento dei rapporti bilaterali con Paesi di provenienza e di transito anche come incentivo alle riforme invocate da Europa e FMI, e qualsiasi altra misura legale che risparmi ai migranti la morte per naufragio. E ancor più benvenuta una riflessione collettiva sul potenziale contributo che miserabili stranieri possono conferire alle società di accoglimento, sul piano economico, culturale, e umano. Non sono tutti terroristi. Una riflessione collettiva, non solo sulla base di un calcolo sul calo demografico dell’odierna Europa, ma semplicemente ripensando alla politica di integrazione che contribuì a fare grande un Impero come fu quello di Roma.
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*Laura Mirachian, diplomatica italiana, già ambasciatrice a Damasco e rappresentante permanente presso l’Onu a Ginevra. Membro del Consiglio Direttivo del CeSPI.