Migranti: oltre l’emergenza

di 
Piero Fassino

 In tutto il mondo il 18 dicembre si celebra la Giornata Internazionale dei Migranti. La scelta della data rimanda al giorno in cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò, nel 1990, la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie in vigore dal 2003, quando fu raggiunto il numero minimo necessario di 47 ratifiche, ora arrivate a 53. Convenzione che alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, non hanno ancora ad oggi sottoscritto.

In questi 30 anni le migrazioni si sono imposte nell’agenda politica internazionale come uno dei più rilevanti e qualificanti fenomeni di questa fase storica. Così che ancora l’ONU - forse per reagire allo stallo delle ratifiche alla convenzione del ‘90 - nel 2016 ha proposto un nuovo strumento: il “Global Compact for Migration”, un patto politico tra gli Stati per promuovere una responsabilizzazione collettiva nella gestione delle migrazioni, che ormai, seppure con evidenti differenziazioni, è fenomeno che investe tutti i continenti e tutte le Nazioni.

Nel dicembre 2018, il Global Compact è stato sottoscritto in una grande conferenza internazionale a New York da 164 paesi, ma non dall’Italia, unica nazione europea ad allinearsi supinamente al rifiuto del Global Compact da parte del Presidente Trump. 

Eppure il “Global Compact for Migration” - a differenza della Convenzione del ‘90 - non ha veste giuridica vincolante. È un patto politico “per una migrazione sicura, ordinata e regolare”, obiettivo che non può che essere condiviso da chiunque non sia accecato dal pregiudizio. Ed è dunque ragione di tristezza dover costatare che solo per pregiudizio e strumentale interesse elettorale l’Italia non abbia sottoscritto il Global Compact, preferendo il governo italiano del tempo una stolida esibizione di muscoli. Come se un fenomeno complesso come le migrazioni potesse essere governata a colpi di decreti e alimentando nell’opinione pubblica un clima di paura e intolleranza.

Qualsiasi strategia sulle migrazioni deve partire da due incontrovertibili dati di fatto.

Il primo: la storia dell’umanità è storia di migrazioni. Nel corso dei secoli non c’è regione del pianeta che non abbia conosciuto flussi migratori che hanno inciso sulla identità di popoli, nazioni, individui.

Il secondo: il continente europeo è in strutturale diminuzione demografica che a fine secolo vedrà l’Europa con 60/70 milioni di abitanti in meno. Una simulazione di uno dei più autorevoli demografi italiani dice che per mantenere gli attuali livelli di produttività e prosperità sarebbe necessario, a partire dal 2050, spostare l’età pensionabile di tutti i cittadini europei  tra i 75 e gli 80 anni. Il che è evidentemente impossibile. E quand’anche si promuovessero politiche di incremento della natalità nazionale i loro effetti sul mercato del lavoro non si avrebbero prima di venticinque, trenta anni.

In altri termini l’Europa - e l’Italia - necessitano di un contributo demografico aggiuntivo che può venire soltanto da flussi migratori. Peraltro è già oggi così: l’80% delle colf che lavorano nelle nostre case sono peruviane, filippine, ucraine. Nei cantieri la manovalanza edile è costituita da serbi, albanesi, rumeni, tunisini. Gli ortaggi che arrivano sulle nostre tavole sono raccolti da senegalesi, ivoriani, somali.

Insomma, nulla di più inutile che chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Quel che serve invece è liberarsi da un approccio emergenziale, abbandonare l’idea che basta alzare muri e chiudere porti per far sparire i migranti, smettere di considerare esaurito il problema una volta che si è trovato un qualsiasi giaciglio per il migrante.

Una politica per le migrazioni significa una salto di qualità e l’attivazione di una pluralità di strumenti che consentano di gestire l’articolazione dei diversi profili migratori. Ci sono flussi determinati da guerre, pulizie etniche, conflitti tribali che richiedono di essere gestiti con corridoi umanitari e politiche di asilo. Ci sono flussi determinati da ragioni economiche a cui corrispondere con una programmazione dei fabbisogni quantitativi e qualitativi e della capacità di inserimento nel mercato del lavoro. Ci sono flussi di minori non accompagnati che vanno gestiti attivando gli strumenti di accoglienza, integrazione e formazione che prevede la legge Zampa, considerata una delle più avanzate legislazione in materia. Ci sono flussi legati a percorsi formativi e di studio - migliaia sono gli studenti stranieri che frequentano le nostre università - che richiedono strumenti ad hoc.

Per gestire tutto questo servono approcci bilaterali e multilaterali. Approcci bilaterali con accordi tra paesi di origine e nazioni di destinazione che quantifichino i flussi, ne gestiscano la qualità, ne regolino le modalità. E serve un approccio multilaterale, a partire da una strategia europea che vada oltre il Regolamento di Dublino, ridefinendo regole e principi a cui ogni nazione riconduca le sue strategie e i suoi comportamenti. Questa è precisamente anche la finalità del Global Migration Compact e sarebbe tempo che l’Italia lo sottoscrivesse.

Non solo, ma poiché il continente da cui maggiormente provengono i migranti è oggi l’Africa - che a fine secolo raggiungerà i 4 miliardi di abitanti rispetto agli attuali 1.3 ! - perché l’Italia non avanza la proposta che Unione Europea e Unione Africana sottoscrivano un Euro African Migration Compact per una gestione condivisa delle migrazioni che si muovono tra i due continenti ?

Fin qui abbiamo parlato di come regolare i flussi, cioè il “fronte esterno”. Ma vi è da organizzare e gestire anche un “fronte interno”: l’accoglienza, l’inserimento, l’integrazione, i diritti di cittadinanza, partendo dal riconoscimento del migrante come un soggetto titolare di diritti, portatore di una insopprimibile dignità in quanto essere umano.

Oggi quasi il 10% della popolazione italiana è composta da lavoratori stranieri e loro famiglie; analoga percentuale si ritrova tra gli alunni delle scuole italiane. Su questi ragazzi stiamo facendo un investimento formativo poderoso, ma un investimento nullo sui diritti di cittadinanza. Non è sufficiente garantire i diritti dei lavoratori migranti se non si garantiscono i diritti dei loro figli, che sono nati nelle nostre città, hanno studiato nelle nostre scuole, sono cresciuti con i nostri figli, si sentono a tutti gli effetti italiani, ma non lo sono per le nostre leggi. 900.000 bambini, bambine, adolescenti sono condannati a dipendere dai permessi di soggiorno dei genitori, da tempi di attesa sempre più lunghi e da discriminazioni normative e accanimenti che finiscono per lasciare in sospeso le loro vite trasformandoli di fatto in "fantasmi per legge".

Prendere sul serio lo spirito di questa Giornata significa rimettere in moto l’iter della legge per il riconoscimento della cittadinanza, quella che nel gergo parlamentare è stata chiamata Ius culturae, con la consapevolezza che una società multiculturale è una ricchezza di cui possiamo beneficiare tutti. Si rifletta su una delle storie di questi tempi di COVID che ci racconta di ricercatori tedeschi di origine turca che hanno concorso a realizzare il vaccino anti COVID.

Una gestione umana e ordinata dell’immigrazione - e non la sua demonizzazione o peggio criminalizzazione - è oggi l’unica via giusta da seguire. Non solo per ragioni morali e ideali o per un generico sentimento di umanità, quanto invece per costruire una società in cui ogni donna, ogni uomo - ovunque sia nato, quale che sia il colore della sua pelle, la lingua che parla, il dio che prega - possa vivere libero, senza paure o discriminazioni, rispettato nella sua dignità.