Il dilemma palestinese

di 
Piero Fassino

È ancora possibile una soluzione di pace che dia esito al conflitto israelo-palestinese? Soprattutto è ancora praticabile la nascita di uno Stato palestinese indipendente accanto allo Stato di Israele? Non appaiano domande retoriche.

Tra qualche settimana si compiranno 72 anni dalla Risoluzione ONU che sanciva la partizione della Palestina britannica in due Stati indipendenti, soluzione - come si sa - accolta dal mondo ebraico con la fondazione dello Stato di Israele, ma rigettata dai palestinesi e dal mondo arabo che contestarono in radice la esistenza stessa di una nazione ebraica. Una frattura scandita da ben cinque guerre - ‘48, ‘56, ‘67, ‘73, ‘82 - che in meno di quarant’anni contrapposero Israele al mondo arabo.

Poi all’inizio degli anni ‘90 - prima con la Conferenza di Madrid, poi con i colloqui di Oslo e gli accordi di Washington - l’avvio di un processo di pace che, per tappe graduali, avrebbe dovuto concludersi con “Due Stati per due popoli”. Un esito a cui non si è mai giunti. Al contrario il decorrere del tempo e la lentezza della gradualità hanno via via rallentato il cammino fino a bloccarlo. E i tentativi di rimetterlo in moto - da Camp David 2000 ad Annapolis 2007 - sono abortiti uno dopo l’altro.

Anche perché intanto sono maturati processi che hanno mutato profondamente lo scenario mediorientale. Con i grandi flussi migratori delle comunità ebraiche dal Nordafrica e dalla Russia sono mutati i caratteri della società israeliana, che - dopo l’assassinio di Rabin - sempre di più si è affidata alla destra di Netanyahu, non solo ostile alla nascita di uno Stato palestinese, ma mossa da pulsioni espansionistiche di cui sono manifestazione evidente i continui insediamenti di nuove colonie nei Territori palestinesi.

In campo palestinese la presa di possesso di Gaza da parte di Hamas e delle milizie della Jihad ha indebolito autorità e capacità negoziale di Abu Mazen e di Al Fatah.

Il contesto regionale caratterizzato da forte instabilità - le guerre civili in Siria e Yemen, il califfato dell’Isis, l’egemonia iraniana sul mondo scita, l’instabilità libanese, il protagonismo della Turchia - hanno indotto Israele in un atteggiamento di crescente chiusura. E peraltro lo scontro tra sciiti e sunniti e le divisioni tra Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Iran - su cui si è inserita un’abile azione israeliana di relazioni con Ryad e Emirati - hanno fortemente indebolito il sostegno del mondo arabo alla causa palestinese.

L’esito di tutto ciò è che il processo di pace israelo-palestinese si è via via arenato uscendo dalle priorità dell’agenda mediorientale.

È in questo scenario che si colloca la proposta di Trump, immediatamente accolta con entusiasmo da Nethanyahu, determinato a trarne vantaggio nelle elezioni anticipate - le terze in meno di un anno! - del prossimo marzo. Le ragioni di questa adesione israeliana sono evidenti: si riafferma che Gerusalemme è capitale una e indivisibile di Israele, si annette a Israele la Valle del Giordano e vengono integrati nello Stato di Israele tutti gli insediamenti di coloni sorti nei Territori palestinesi. E soprattutto il territorio assegnato al futuribile Stato palestinese non solo non coincide con la Cisgiordania e la linea di demarcazione del 1967, ma è assai meno di tutte le successive proposte evocate dagli accordi di Oslo ad oggi. Ne risulta una sorta di bantustan polverizzato che peraltro dovrebbe vedere riconosciuta la propria statualità indipendente non prima di altri quattro anni. Da qui il rifiuto di Abu Mazen e dell’Autorità palestinese, che tuttavia sono di fronte a un dilemma: rifiutare la proposta, ma con la certezza che domani non si otterrà di più di quel che viene offerto oggi; oppure accettarla, con la consapevolezza che, anche ottenendo qualche miglioramento, sorgerebbe uno Stato molto lontano dalle aspettative del popolo palestinese e non tale da spegnere l’irredentismo dei gruppi radicali. Un dilemma difficile da sciogliere, dietro cui viene crescendo - soprattutto tra i giovani palestinesi - la tentazione di rinunciare ad uno Stato palestinese “minimo” accettando di vivere in un grande Israele e battendosi lì per i propri diritti. Soluzione altrettanto problematica e potenziale incubatrice di nuovi futuri conflitti.