Riformare le istituzioni (UE): la priorità di un accordo sugli obiettivi

Roberto Menotti e Riccardo Pennisi
Roberto Menotti è Editor-in-Chief of Aspenia online e vice Direttore di Aspenia; Riccardo Pennisi è un Analista politico e Editor di Aspeniaonline

È utile partire da due brevi considerazioni sui temi della democrazia/valori (in ottica interna, dunque) e del rafforzamento economico/giustizia sociale (ancora una dimensione interna, declinata in chiave economica), per poi trattare più diffusamente i temi con una forte connotazione esterna/internazionale.

Avvicinare le istituzioni europee ai cittadini è un compito complesso, che richiede sia mutamenti istituzionali sia una vera opera educativa per abituare l’elettorato a vedere negli organi comunitari il livello principale della vita politica – e non semplicemente una sorta di lontano luogo di negoziati tra rappresentanti nazionali. Non va dimenticato che le pratiche democratiche necessitano di essere costantemente coltivate, adattate a circostanze (sociali, tecnologiche) in evoluzione, discusse, e mai date per scontate. Sono un modus vivendi, oltre che una cassetta degli attrezzi.

Un passaggio fondamentale in tal senso è certamente quello di rafforzare il Parlamento (PE), ma andrebbe effettivamente accompagnato da una maggiore integrazione dei Parlamenti nazionali nella “fase ascendente” del processo legislativo. Il motivo è semplice (e ben chiaro a vari progetti di riforma che sono stati discussi da tempo): va salvaguardato il ruolo di quella che attualmente (e storicamente) è la principale fonte di legittimità democratica degli Stati membri, cioè appunto la rappresentanza parlamentare nazionale. Cercare di superarla, o addirittura imporre una sorta di taglio netto con il passato, sarebbe un’operazione ad altissimo rischio in termini, appunto, di legittimità delle istituzioni europee. Un’eventuale riforma dei Trattati che spostasse il processo legislativo in capo al PE dovrebbe dunque combinare il criterio di rappresentanza basato sulla popolazione e quello basato sugli Stati membri in quanto tali (in analogia, rispettivamente, con Camera e Senato degli Stati Uniti d’America).

Quanto all’adozione più ampia possibile del voto a maggioranza, in sede di Consiglio, per superare il potere di veto connesso all’unanimità, questa è certamente una linea di sviluppo da esplorare, ma l’esperienza recente suggerisce che forse la questione è solo in parte legata al meccanismo decisionale in sé, essendovi un ruolo cruciale svolto dai Paesi più grandi nella costruzione del consenso intergovernativo sulle maggiori scelte di policy. Si pensi a cosa accade effettivamente quando un solo Paese membro minaccia un veto: la realtà è che quasi tutto dipende da quale sia il Paese in questione. Se un governo di “grossa taglia” manifesta anche soltanto l’intenzione di valutare un possibile veto, di fatto è assai probabile che si creino subito le condizioni per una coalizione, dunque per un “fronte” di Paesi che renderebbe difficile anche un voto a maggioranza qualificata. In altre parole, il criterio della maggioranza (soprattutto se qualificata, come inevitabilmente sarebbe sulle materie più strategiche) non è di per sé garanzia di un consenso tanto ampio da evitare del tutto il rischio di un “blocco” contrario e dunque di una paralisi decisionale. In ultima analisi, sembra opportuno qui ragionare in termini politici prima ancora che istituzionali; poi naturalmente i meccanismi istituzionali incanalano i processi decisionali, ma non sono in grado di predeterminarli in modo affidabile (come dimostrano, ad esempio, i sistemi elettorali quando si pensa di poter predefinire l’esito del voto popolare e si resta quasi immancabilmente delusi o sorpresi).

I due livelli di azione istituzionale appena ricordati – quello parlamentare e quello intergovernativo – sono peraltro connessi, visto che una maggiore legittimità/rappresentatività del PE nella percezione dell’opinione pubblica sarebbe un passo significativo nel conferire peso crescente anche all’altro organo sovranazionale – la Commissione – e dunque nel ridurre le resistenze al voto a maggioranza nella dimensione intergovernativa. Non si può insomma sottovalutare il dato storico che le democrazie dei Paesi membri sono comunque fondate sulla rappresentanza parlamentare (pur con le ben note differenze tra sistemi di governo), e non sulla diretta investitura degli organi esecutivi come unico canale di espressione del consenso e della volontà popolare. Si potrebbe anche dire che una più piena “politicizzazione” del PE, e in qualche modo anche della Commissione, è un passaggio obbligato perché i cittadini europei si sentano compiutamente partecipi dei processi decisionali (attraverso la selezione dei rappresentanti). Se ciò dovrà avvenire a costo di una maggiore litigiosità e forse ideologizzazione del dibattito politico europeo, dovremo tutti farcene una ragione: la democrazia liberale vive di pluralismo e di scontro (regolato) tra idee e programmi, e la sua incarnazione comunitaria non farà eccezione.

Venendo al tema del rafforzamento economico-sociale della struttura comunitaria, la priorità è completare il mercato unico, che ad oggi rimane una costruzione largamente incompleta. È tale soprattutto in settori cruciali per il futuro dell’Unione, dall’energia alla finanza, dal fisco alla sanità: settori di cui appunto la scrittura di regole comuni dovrà essere accompagnata da una forte legittimazione democratica, pena una loro sostanziale inapplicabilità oltre che l’apertura di innumerevoli conflitti dettati dalle diverse tradizioni nazionali al riguardo. Tutte le crisi recenti hanno messo in drammatica evidenza le gravissime inefficienze che derivano da queste carenze: la guerra russo-ucraina ma oltre un decennio prima la crisi finanziaria globale; la gestione del debito pubblico e delle diseguaglianze crescenti ma anche la pandemia. Grandi programmi come la digitalizzazione diffusa – che coinvolge ovviamente i settori più disparati, dai servizi alla manifattura all’istruzione – richiedono strumenti di intervento che attualmente gli organi comuni non hanno. Se i cittadini vedono la UE come una sovrastruttura distante e neppure particolarmente efficiente anche rispetto alle agenzie governative nazionali, è in buona parte perché gli strumenti a disposizione di Bruxelles sono davvero limitati.

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Il peso e la proiezione internazionali della UE dipendono in larga misura proprio dalla solidità e dal continuo rinnovamento delle istituzioni e degli assetti interni; eppure, non basta rappresentare per il resto del mondo un modello da emulare per esercitare appieno un’influenza sulle dinamiche esterne, regionali e globali. In questo momento, d’altronde, l’Unione Europea rappresenta un polo di attrattività soprattutto come spazio in cui essere al riparo da pericolose controversie internazionali – come dimostrano le spinte all’adesione manifestate ad esempio nei Balcani, nel Caucaso o nella stessa Ucraina – più che come centro di produzione legislativa e normativa o fortezza economica.

Per quanto riguarda un ambito di influenza più globale, le politiche ambientali per contrastare (e gestire) il cambiamento climatico sono diventate cruciali per il ruolo internazionale dell’Unione, sia in termini di modello organizzativo sia in termini di interdipendenza con partner esterni. Ma, come fin troppo noto, la questione energetica ha assunto un carattere emergenziale che non si poteva preventivare 12 mesi fa.

È evidente l’intreccio strettissimo fra questi due dossier, che però andrebbero in parte tenuti distinti, nel senso che una politica energetica è comunque necessaria e soprattutto già esiste, con una sua “legacy” di scelte infrastrutturali e industriali che non possono essere semplicemente ignorate o superate per fiat governativo.

La circostanza che manchi, ad oggi, una vera politica energetica comune, non toglie che il “combinato disposto” delle scelte nazionali impone dei vincoli ben precisi e orienta le opzioni disponibili, a fronte di sfide enormi come la rapidissima diversificazione in atto rispetto alla forte dipendenza (in particolare per Germania e Italia) dall’import di gas russo. Il problema che è emerso riguarda il sommarsi delle scelte di breve/medio periodo (approvvigionamenti di gas da altri fornitori) con quelle di medio/lungo periodo (disinvestimento dal gas verso diverse fonti, non fossili). Nel breve/medio periodo il gas è comunque insostituibile per Paesi come Italia e Germania (perfino a fronte di una riduzione sensibile dei consumi, già in atto), mentre la transizione verde che si sta intanto perseguendo per il medio/lungo periodo comporta costi significativi fin da ora (seppure nella prospettiva di benefici futuri). Le diverse scelte nazionali, in effetti, sono state la sintesi di una complessa taratura delle esigenze dei singoli sistemi produttivi – si pensi alle necessità della potenza industriale tedesca, o anche alla garanzia d’indipendenza offerta dalla produzione nucleare al sistema francese – con quelle dei consumatori. Per dirigere ogni processo di transizione, inoltre, non va dimenticata la necessità di assicurare una massima equità nei sacrifici che saranno richiesti ai cittadini e alle imprese europee, che spesso si trovano invece in condizioni “ambientali” di partenza molto diverse.

In altre parole, già nell’immediato è necessario un aggiustamento delle priorità di politica estera e di sicurezza (per accompagnare i rapporti di interdipendenza con nuovi fornitori, o vecchi fornitori con un peso crescente, come l’Algeria nel caso dell’Italia), e anche una serie di misure interne di compensazione per assicurarsi il sostegno dell’opinione pubblica (o almeno la sua acquiescenza). Va sottolineato che una delle drammatiche lezioni del 2022 è relativa proprio all’esigenza di soppesare il “rischio politico” insito nei rapporti di interdipendenza in settori strategici, e predisporre strumenti di sicurezza comuni. Altrettanto importante è la dimensione interna, perché evidentemente un picco inflazionistico e addirittura un pericolo concreto di blackout elettrici in alcuni Paesi sono fenomeni di diretta rilevanza per il consenso politico in tutta la UE.

Come si vede, non è sostanzialmente possibile disegnare una politica sull’ambiente a prescindere dalle scelte energetiche, e queste ultime a loro volta richiedono – simultaneamente – misure di politica estera, che saranno realmente efficaci soltanto al livello europeo.

Per chiudere concettualmente il cerchio, serve dunque una politica energetica comune (che arrivi, se possibile, fino a consentire acquisti/contratti comuni per le forniture) ma serve anche una vera diplomazia globale per la UE. I Paesi europei, del resto, si troveranno con poche eccezioni ad affrontare il cuore del XXI secolo in una profonda crisi demografica – mentre la guerra in Ucraina ha sottolineato ancora una volta il rischio insito nella mancanza di una politica industriale comune: l’Unione rischia di trovarsi nella posizione di non poter provvedere alle proprie esigenze di sicurezza se si verificasse una grave crisi o un blocco degli scambi internazionali. Questa doppia minaccia dalle radici interne dovrebbe spingere i membri della UE a elaborare almeno delle basi comuni di iniziativa internazionale, per rafforzare un peso specifico sempre più declinante dei singoli stati, come crudamente dimostra ad esempio l’arretramento francese nella regione sub-sahariana. Non è un caso che proprio da Parigi provengano le spinte più decise in questa direzione, mentre altre capitali, guidate dal traino dei flussi finanziari e dalle esportazioni commerciali, continuano a privilegiare una visione favorevole a un’Europa hub del libero scambio come volano di politica estera e garanzia di protezione internazionale.

Tra i nodi che queste condizioni impongono di sciogliere, senz’altro appare rilevante quello della difesa (da rendere “autonoma” o da consolidare sotto l’ombrello della NATO?), questione a cui è legata indissolubilmente quella della ricostruzione di un sistema produttivo indipendente dalle tensioni globali, non ultime le possibili evoluzioni negative nello scenario Indo-Pacifico. Da queste risposte alle domande della geopolitica attuale dipende dunque, in ultima analisi, la capacità dell’Unione di condurre una transizione energetica ed ecologica efficace, credibile ed efficiente.

Se infatti l’Unione diventasse l’esempio più fulgido e virtuoso di rapida transizione verde, ma perdesse competitività in modo grave o perfino irreversibile, andrebbe posto un quesito netto: dopo quanti cicli elettorali (nazionali ed europei) si registrerebbe una perdita di consenso per la stessa transizione verde? E, del resto, in presenza di tassi di crescita molto bassi o anemici, come sarebbe finanziata l’innovazione tecnologica chiaramente indispensabile a perseguire una profonda trasformazione industriale e degli stili di vita?

Non si tratta qui di mettere in dubbio la priorità del modello di sviluppo sostenibile, ma piuttosto di ricordare che esso può soltanto poggiare su una notevole capacità di crescita almeno in alcuni settori-chiave. La stagnazione economica non è amica dell’ambiente, se non altro perché è insostenibile socialmente e finisce per causare un cortocircuito democratico. Il futuro della UE dipende dalla piena comprensione di queste dinamiche.

Riguardo alla politica estera e di sicurezza in senso proprio, è opportuno anzitutto evitare una possibile confusione semantica: il concetto di “sicurezza” (e il processo di “sicuritizzazione” di varie tematiche) ha subito un grande ampliamento negli ultimi decenni, con l’effetto indesiderato di sfocare alcune distinzioni importanti. È certamente vero che sia la sicurezza sanitaria, sia quella energetica, sia quella militare convergono in un senso di protezione da minacce esterne che viene percepito dal cittadino in modo complessivo; ma è anche vero che ogni settore di azione europea richiede strumenti specifici, alcuni dei quali sono quasi interamente di tipo interno alla UE (ad esempio il sistema sanitario, al netto degli approvvigionamenti di medicinali o macchinari). La proiezione esterna deve invece essere inquadrata nella politica estera comune, ed è questo l’elemento unificante necessario a dare coerenza ai vari settori di azione. In altre parole, il collante non è la “sicurezza” in sé (che presuppone la valutazione comune dei rischi e delle minacce), ma un meccanismo di azione esterna che aggreghi effettivamente le risorse dei Paesi membri.

Questo equivoco concettuale viene chiaramente alla luce se si analizza il dibattito, in corso da circa un decennio, sulla cosiddetta “autonomia strategica”. Purtroppo, è un dibattito distorto da due fattori: primo, è stato declinato (soprattutto in campo militare e tecnologico) come un tentativo di liberarsi dalla dipendenza rispetto agli Stati Uniti (che restano un alleato e partner insostituibile, per ragioni di valori oltre che di interessi); secondo, è stato collegato al concetto di “sovranità” europea, cioè a un obiettivo che non serve rivendicare a gran voce ma serve semmai perseguire concretamente, dotandosi di capacità (“capabilities”) e della volontà di impiegarle.

In ogni caso, il quesito da porre in modo preliminare è “autonomia per fare cosa?”. La definizione dei valori, degli interessi, delle risorse da mobilitare, delle modalità di azione comune, precede logicamente l’aspirazione ad essere “autonomi”. Altrimenti, il carro viene collocato davanti ai buoi. È una delle ragioni per cui l’ulteriore costruzione comunitaria non può prescindere da un’”escalation democratica” delle proprie istituzioni: gli Stati membri, al cui consenso spesso estemporaneo sono demandati e dovuti oggi i labili compromessi che compongono la politica estera dell’Unione Europea, hanno interessi, tradizioni culturali, visioni del mondo, dimensioni e anche proiezioni geografiche diverse e perfino divergenti. È chiaro che le priorità internazionali della Polonia e del Portogallo come della Grecia o della Svezia avranno carattere molto distinto, cosa che influenzerà la loro visione di “autonomia” e “interesse europeo”. Soltanto in un’arena politica continentale tali differenze potrebbero essere composte o sintetizzate in maniera credibile e legittima, mentre nelle singole arene nazionali non sarebbero altro, e naturalmente, che ostaggio dell’agenda politica dei rispettivi Paesi.

Il pericolo è dunque che la discussione sulla “autonomia strategica” finisca per essere una distrazione rispetto allo sviluppo di capacità comuni, e nel caso della politica di difesa comandi integrati e meccanismi decisionali adatti a situazioni di emergenza; nel sottovalutare la capacità di agire rispetto alle dichiarazioni sull’intenzione di farlo, si adotta per di più il linguaggio vagamente ottocentesco della “sovranità”, il quale sembra a volte un mantra più che un concetto operativo. Dato che comunque la costruzione di un’unione politica più compiuta e coerente non appare dietro l’angolo, semmai sia possibile, nel frattempo sembra ben più utile concentrare gli sforzi su un migliore impiego delle capacità esistenti, a partire naturalmente dalla diplomazia, e sullo sviluppo di capacità al momento assai limitate (ciò che la crisi ucraina sta mettendo in tutta evidenza, una volta di più).