Partire da ambiente, energia e salute per rilanciare il processo di integrazione comunitaria

Giuseppe Morabito
Ambasciatore, è stato Direttore Generale Africa del Ministero Affari Esteri, ed é stato Ambasciatore a Beirut e a Lisbona.

Da diversi anni il processo di integrazione europea non solo è in stallo ma presenta seri rischi di involuzione. Ne è la prova l’emergere dei movimenti sovranisti, il rinchiudersi sul piano nazionale per cercare la soluzione dei propri problemi. Una crisi, secondo una delle tesi più accreditate, iniziata dopo l’unificazione tedesca e consolidatasi in seguito all’allargamento ad Est. Ora, due eventi che hanno messo a dura prova la coesione europea potrebbero costituire un’opportunità – a patto che la sapremo cogliere - per un rilancio del processo di integrazione europea: la crisi pandemica  e quella energetica, quest’ultima in parte determinata dalla guerra in Ucraina. In questo quadro il 24 febbraio 2022, data dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, rappresenta una cesura rispetto al passato. La sfida è la seguente: creare un’Europa di pace, non solo all’interno dei propri confini come è avvenuto finora, ma anche all’esterno. Un’Europa impegnata sul piano internazionale che però rifugga dalla tentazione della corsa al riarmo, come pure da logiche antistoriche di egemonia. Non una “grande Svizzera”, ma qualcosa di completamente diverso.

Il Covid - 19, la lotta al cambiamento climatico e la crisi energetica, tutti fattori strettamente legati, compresa la salute che non è disgiunta dall’ambiente, costituiscono un’opportunità a condizione che la UE giochi bene le sue carte e sia in grado di dimostrare ai cittadini il valore aggiunto che rappresenta. Dovremmo ripartire dal basso, evitando per ora quella che è stata definita l’”ossessione delle istituzioni” (anche se è evidente che istituzioni efficienti e democratiche fanno la differenza). Ottenere il consenso dei cittadini europei su politiche condivise è la via maestra per contrastare il sovranismo e rilanciare la costruzione europea.

La lotta alla pandemia ha dimostrato quanto sia indispensabile essere uniti per avere la forza finanziaria adeguata per produrre in poco tempo vaccini efficaci. Il passo successivo potrebbe essere un’Unione Europea della Salute che renda accessibile a tutti, in maniera il più possibile uniforme, un sistema sanitario pubblico di qualità.

Il conflitto in Ucraina, con la riapertura delle centrali a carbone, rischia di farci perdere tempo prezioso per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi nella lotta al cambiamento climatico, nonché credibilità nei confronti dell’opinione pubblica. Certamente siamo di fronte ad una sfida complessa: per avere un’Europa dell’energia bisogna creare reti condivise di interconnessioni energetiche e arrivare ad una sintesi tra interessi contrapposti, come quello della Germania che avendo grosse disponibilità finanziarie ma non disponendo di una rete di gasdotti per importare il gas è più preoccupata della penuria che del prezzo di questa materia prima. All’opposto l’Italia disponendo di una vasta rete di gasdotti è più preoccupata dell’aumento del prezzo. Questo non deve spaventarci: tutta la storia dell’integrazione europea è basata sulla composizione di interessi nazionali divergenti. Difendere il proprio interesse nazionale non è di per sé anti europeo se si è impegnati a raggiungere compromessi accettabili per tutti. Del resto “Unità nella diversità” non è uno slogan ad effetto, ma riflette in maniera efficace la complessa realtà europea, soprattutto quella emersa oltre sessanta anni dopo i Trattati di Roma.

Se guardiamo bene le cose, la diversificazione nell’approvvigionamento energetico, la transizione energetica, la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico, sono opportunità uniche per rilanciare partenariati a livello internazionale e per far capire all’opinione pubblica che solo un’Unione Europea unita può risolvere problemi che ci riguardano tutti. Si potrebbe cominciare rivolgendoci all’Africa ed al Medio Oriente, ridando quella centralità alla sponda Sud del Mediterraneo che è stata messa in ombra dal conflitto russo - ucraino. Un esempio da seguire potrebbe essere quello di una recente iniziativa di Emirati Arabi Uniti, Giordania ed Israele per il risanamento del fiume Giordano e della valle del Giordano. Grazie a fondi emiratini, la Giordania costruirà una centrale ad energia solare che permetterà ad Israele di desalinizzare l’acqua, una parte della quale sarà immessa nel Lago di Tiberiade.

Il gas africano è indispensabile per la nostra transizione energetica. In questo campo, grazie anche all’ENI, l’Italia si è mossa prima di altri Paesi europei stipulando tutta una serie di accordi internazionali. Per produrre energie rinnovabili e per il nostro sviluppo tecnologico abbiamo bisogno delle terre rare delle quali l’Africa è ricca, come pure delle potenzialità che questo continente ha nella produzione di energia pulita (a cominciare dal solare e dall’idrogeno verde). L’Africa con il 17% della popolazione mondiale, secondo la IEA contribuisce solo al 3% delle emissioni di CO2 e ha bisogno di energia per svilupparsi. Il paradosso è che l’Africa sub – sahariana, ed in particolare il Corno d’Africa, è particolarmente colpita dagli effetti del cambiamento climatico, con conseguenze dirette sulla stessa sopravvivenza delle popolazioni e la forte conseguente spinta alla migrazione, parte della quale è diretta in Europa. Inoltre l’Africa ha bisogno di infrastrutture energetiche e di produrre energia (seconda la IEA nel 2030 la domanda di elettricità nel continente africano sarà il 75% più elevata di oggi). Ed ha bisogno del sostegno tecnologico europeo per l’adattamento climatico. Noi a nostra volta abbiamo bisogno di sviluppare tecnologie e di fare ricerca (anche in campo sanitario) se vogliamo evitare di essere battuti dalla Cina (ed in prospettiva dall’India) e dagli Stati Uniti. Come ha notato recentemente Romano Prodi, la decisione di Washington di sussidiare le imprese nazionali dei settori più importanti (Inflation Reduction Act) rischia di penalizzare fortemente l’industria europea.

L’Unione Europea ha quindi carte importanti da giocare, a cominciare dal fatto che il suo impegno finanziario in Africa è di gran lunga superiore a quello di altri Paesi, come gli Stati Uniti.

Non si tratta solo di cooperazione economica o in campo migratorio. La realtà è che la transizione energetica porterà ad un riequilibrio del quadro geopolitico: sta a noi essere soggetti attivi e non passivi di questo processo. Dovremmo evitare però alcuni errori. Il primo è quello di rinchiuderci in noi stessi. Non ha senso pensare ad un’Europa “pulita” e disinteressarsi dell’ambiente intorno a noi. Dobbiamo sì rimediare ai guasti di una globalizzazione non regolata, accorciando ad esempio le catene di valore (“reshoring”  e “friendshoring”), ma non chiuderci in una fortezza.

Il secondo errore è quello di puntare sulla completa autosufficienza energetica, una scelta protezionistica che alla fine ci penalizzerà. Sostituire la Russia ad altri Paesi, non ci darà mercati di sbocco sufficienti per compensare il maggiore esborso per l’acquisto di gas, senza contare che una volta risolto il conflitto ucraino, non ha senso emarginare la Russia dalla comunità internazionale.

Infine un’ultima considerazione. Di fronte alle sfide che attendono la UE una riflessione sull’aggiornamento delle regole relative agli aiuti di Stato andrà fatta.