Il Futuro dell’Europa passa per la chiarezza politica sui suoi obiettivi ?

Stefano Manservisi
Special Advisor del Commissario europeo Paolo Gentiloni

La riflessione lanciata dal CeSPI è importante e pone le questioni giuste.

Il momento è estremamente delicato. C'è generalmente consenso nel considerarlo il più difficile e dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla nascita delle Comunità Europee, oggi Unione Europea.

La guerra, in Europa e non solo in posti lontani a volte considerati importanti ma tutto sommato marginali.

La realtà dell'indebolimento del multilateralismo, delle sue regole (scritte e non scritte) e del dialogo come metodo a fronte dell'affermazione e del consolidamento di soggetti definiti competitori e rivali sistemici come la Cina (ma in realtà non solo).

Le trasformazioni economiche e sociali generate dalla rivoluzione industriale in corso.

La realtà dell'impatto del cambiamento climatico e delle drastiche misure necessarie a combatterlo.

La vulnerabilità a fronte del riapparire di pandemie come il Covid.

Si tratta solo degli aspetti più evidenti di un contesto definito da molti di policrisi, in cui le interconnessioni, finora largamente virtuose, sono diventate rischiose (M.Leonard, The age of un peace).

Un sistema di relazioni politiche ed economiche internazionali in cui gli interessi e i profitti prodotti dalla globalizzazione dei mercati sembravano poter risolvere contraddizioni sempre più evidenti, si è visibilmente inceppato.

L'Agenda 2030 delle Nazioni Unite, l'aveva peraltro previsto. Gli SDG sono stati troppo a lungo trascurati e sbrigativamente relegati a obiettivi per i poveri del mondo. Sono invece una base comune da rilanciare.

Si tratta ora di ricostruire un sistema sufficientemente solido e soprattutto sostenibile (non solo in termini ambientali) senza che ci sia più un centro di gravità riconoscibile e riconosciuto. I rapporti di forza sono cambiati e tutto porta a pensare che questo non sia un fenomeno passeggero.

In questo quadro, a volte si presenta L'Europa come un'entità che deve affrontare tutti questi eventi da una posizione debole, come se dovesse all'improvviso risvegliarsi da un sogno interrotto bruscamente.

In realtà l'Europa ha avuto un ruolo importante nel forgiare il mondo così come lo abbiamo conosciuto finora e lo ha ora nel realizzare le trasformazioni radicali per il suo cambiamento. In altri termini, è stata ed è soggetto attivo di realtà e di processi che derivano anche da scelte fatte dall'Europa stessa.

Contrariamente a quanto sostengono alcune correnti di pensiero, l'Unione non ha agito fuori dalla geopolitica, ma lo ha fatto con gli strumenti, certo limitati, di cui disponeva.

Quello che impersonalmente e con un po’ di astoricità viene chiamato il processo di integrazione europea ha avuto un impatto che va ben al di là dell'Unione stessa, configurandosi progressivamente come un modello di riferimento su scala globale.

Modello incompleto, fragile e contraddittorio finché si vuole ma con una sua identità specifica.

Debole, in quanto governato da complessi processi di mediazioni interne che assorbono gran parte dell'energia politica e non permettono decisioni rapide (ulteriormente appesantito dall'unanimità in settori chiave); privo di credibili strumenti per farne una potenza (sicurezza, difesa in particolare) in grado di promuovere e difendere i propri interessi geopolitici.

Debole anche perché al di là del collante del mercato unico, non si sarebbe mai formata una vera unità di intenti sui fini politici dell'Unione. È questo un punto fondamentale, particolarmente importante ora.

Però, forte e anche un po’ aggressivo, perché impone valori, diritti e regole democratiche a pezzi importanti di società europee che visibilmente non sono sulla stessa linea. E lo stesso verso l'esterno dove, in aggiunta a questo, il suo mercato unico e le regole che proietta impongono unilateralmente standard al resto del mondo. Molti, nel cosiddetto Global South, ce lo dicono esplicitamente in questi giorni.

Indipendentemente da dove si vuole collocare il cursore, resta il fatto che in ognuno dei punti sommariamente indicati sopra, si ritrova anche l'impronta dell'Europa. Che impronta vuole dare ora l'Europa alla costruzione del nuovo mondo e come?

In primo luogo, se la pace in Europa, è considerato il risultato più importante del processo d'integrazione così come l'abbiamo conosciuto finora, oggi questa linearità si è rotta dal momento in cui l'attrazione del modello europeo per l'Ucraina e la sua volontà di farne parte è stato visto come tanto pericoloso dalla Russia di Putin che, oggettivamente, ha rappresentato uno dei motivi che ha scatenato la guerra.

È una forza del modello europeo, che però rivela anche la debolezza degli strumenti non solo per affrontare questa guerra, ma anche per difendere e promuovere i nostri interessi geopolitici in un mondo che è cambiato. Esiste consapevolezza politica del fatto che difendere e affermare il proprio modello possa implicare scontri durissimi e che quindi occorre attrezzarsi in conseguenza? Le regole che finora hanno inquadrato la politica di sicurezza e di difesa comuni di fatto sono servite più a frenarla che a realizzarla. Tanti sono i motivi, riuniti sotto il concetto generico di sovranità e di sicurezza nazionali. Ora la spinta è forte ad andare oltre questa situazione. Per aiutare efficacemente l'Ucraina, certo. Ma poi, al di là di questo? I teatri non mancano, dal Sahel al Corno d'Africa, alla Libia; dal Caucaso all'Asia Centrale, per esempio.

In secondo luogo, il multilateralismo e la globalizzazione non solo hanno beneficiato l'Europa, ma questa ha contribuito in modo decisivo alla loro realizzazione per così come sono stati finora, nel bene e nel male. La costruzione del mercato unico, la forma più riuscita di globalizzazione a livello regionale (per citare Mario Monti), che ha promosso e imposto mercati mondiali aperti, liberalizzazioni, production e supply chains lunghe e orientate dal profitto. Ma anche un sistema di regole, un sistema di governance originale, istituzioni del multilateralismo inclusive e credibili (WTO, in primis, ma anche il G20, tentativo di aggregare-cooptare? - i nuovi potenti).

Ora la frattura nel sistema multilaterale è evidente e tanto la competizione politica, quanto la necessità di rivedere l'organizzazione degli interessi spinge verso approcci che sottolineano la necessità di forme di autosufficienza o di controllo delle catene dell'attività economica (con formulazioni variegate come il near-shoring ed altre simili) nonché di un forte ruolo dello stato nell'economia, ruolo destinato a durare.

Questo è ancor più vero nelle iniziative europee volte a governare le trasformazioni economiche e sociali, in particolare legate al Green Deal e alla rivoluzione digitale.

 Non molti anni fa, parlare a Bruxelles di politica industriale era quasi un'eresia. Oggi, il centro della questione non è il se intervenire con regolamentazione, incentivi, aiuti statali, sostegno a settori e hub strategici di imprese (come la produzione di batterie), ma il come farlo e con che mezzi. Il dibattito in corso sulla risposta all'IRA americano ne è una prova. L'intervento pubblico, con strumenti europei come il Sure e il NextGenerationEU rappresentano un breakthrough di portata storica.

E tuttavia, l'Unione deve compiere sforzi ben più grandi se vuole diventare (consolidarsi?) uno dei grandi poli in grado di promuovere i propri interessi specifici, i propri valori e di contribuire a definire gli orientamenti del mondo negli anni a venire. C'è consenso su questo obiettivo? Il dibattito attorno a concetti come autonomia strategica, sovranità europea ed altri simili mostra quanto la risposta sia molto contraddittoria.

Alla luce di tutto ciò, è ovvio che si ponga la questione se l'Unione sia attrezzata (Istituzioni e meccanismi decisionali) ad affrontare queste sfide. Ed è altrettanto abbastanza ovvio che la risposta sia piuttosto negativa.

Tuttavia, prima di aprire il discorso su eventuali riforme istituzionali e sui processi per arrivarci, la questione che mi sembra più importante è quella di capire se ci sia un consenso politico sul ruolo dell'Unione, sulle politiche da perseguire, sulle finalità stesse dell'Unione.

Finora, le contraddizioni interne non hanno impedito all'Unione di profilarsi come soggetto globale portatore di un suo modello di riferimento che si è andato consolidando negli anni. Ora però il contesto è mutato, non esiste più un mainstream comune. Le fratture mondiali sono molteplici e pericolose. La guerra non è più un tabù. La leadership tecnologica "occidentale"(ma soprattutto americana), si sta riducendo vistosamente.

Non si tratta tanto di liberare forze eliminando barriere sul mercato, come si è fatto per tanti anni. Ora si tratta piuttosto di organizzare forze per trasformare il mercato. Il ruolo dello stato nell'economia sta crescendo, ma l'Unione non è uno stato. Fino a che punto c'è consenso che, pur a suo modo, lo diventi?

Alcuni spunti li possiamo trarre da come l'Unione ha affrontato e sta affrontando le crisi e con che risultati.

Se ritorniamo allo shock creato dalla pandemia del Covid-19, dopo inevitabili sbandamenti iniziali, dovuti essenzialmente a decisioni unilaterali di molti Stati Membri nonché al fatto, non marginale, che la salute non è competenza dell'Unione, le Istituzioni hanno, in tempi abbastanza rapidi, disegnato, deciso e implementato misure senza precedenti che hanno permesso di affrontare insieme la pandemia e i suoi effetti.

Il finanziamento della ricerca sul vaccino, l'acquisto in comune gestito dalla Commissione, il green pass per salvaguardare Schengen, il programma Sure e l'emissione di eurobond garantiti dall'Unione per finanziare il Recovery Plan, la revisione radicale del quadro finanziario multiannuale (che languiva da due anni) con un aumento del bilancio comune senza precedenti, la sospensione del Patto di Stabilità sono gli esempi più importanti dell'azione dell'Unione.

Decisioni prese nell'arco di pochissimi mesi, in un contesto internazionale in rapido deterioramento e in regime di lockdown. Decisioni, ed è questo il punto, prese dalle Istituzioni dell'Unione, in cui i cittadini europei hanno chiesto e hanno visto l'Europa in azione.

Europa riconoscibile in particolare nella figura della Presidente della Commissione, centrale per formulare proposte, facilitare il consenso tra stati membri, comunicare con le opinioni pubbliche.

Tutto il sistema si è riparametrato, in gran parte superando la storica tensione comunitario-intergovernativo. La dialettica Consiglio Europeo-Commissione ha identificato l'interesse comune, il Parlamento Europeo ha contribuito a creare consenso politico, la Commissione ha implementato. Il triangolo istituzionale e il circuito decisionale, malgrado i loro limiti, hanno funzionato e hanno anche mostrato capacità di pragmatismo.

Ora però si tratta di costruire per il lungo termine, non di rispondere all'emergenza.

E qui si ritorna alla domanda sollevata in precedenza, cioè se ci sia chiarezza e consenso politico sulle finalità. Riformare il Trattato in queste condizioni è rischioso e sarebbe piuttosto consigliabile esplorare tutte le soluzioni possibili con i testi attuali.

In questo quadro, sul piano istituzionale obiettivo prioritario potrebbe essere non tanto quello di comunitarizzare politiche e meccanismi a scapito di competenze nazionali (certamente da affrontare nel medio termine, come nella salute) ma di consolidare l'equilibrio trovato finora rafforzando la fiducia tra le istituzioni e riducendo la competizione interpersonale e la frammentazione. L'idea di un Presidente unico, con doppio cappello (Commissione e Consiglio europeo) ritorna d'attualità.

Sul piano economico, attraverso il NextGenerationEu e le politiche industriali ricordate sopra (più i fondi di coesione), il "governo dell'economia" a livello europeo non si svolgerà più soltanto attraverso l'inquadramento macroeconomico del Patto di Stabilità e quello del Semestre Europeo. È un salto di qualità notevole, in cui il consenso politico sul merito (quali obiettivi) e sui mezzi (debito pubblico comune) è lungi dall'essere presente, al di là delle misure di emergenza. Anche qui, più che forzare gli equilibri istituzionali, si tratta di costruire strumenti di garanzia. L'idea che il Commissario agli affari economici abbia anch'esso una specie di doppio cappello, presiedendo l'Eurogruppo e l'Ecofin, andrebbe considerata.

Se invece guardiamo alla guerra in Ucraina e al suo impatto, il discorso si fa più complesso.

L'invasione russa ha creato un ulteriore shock, la cui portata è ancora aperta.

Se la pandemia aveva portato a livello dell'Europa la lotta per la vita contro un virus sconosciuto, la guerra in Ucraina ha portato sotto gli occhi di tutti gli orrori di una guerra nel cortile di casa, nonché il serio rischio di una guerra nucleare.

Politicamente, l'Unione ha preso posizione in tempo reale e senza ambiguità. Sul piano pratico, i meccanismi finanziari e di sicurezza esistenti sono stati messi in moto per fornire armi e aiuti all'Ucraina. La direttiva sulla protezione temporanea è stata finalmente attivata per la prima volta e ha permesso il movimento dei profughi. Lo Strategic Compass (che languiva in estenuanti consultazioni) è stato rapidamente approvato. I pacchetti di sanzioni, pur con difficoltà, sono stati approvati. La drastica riduzione della dipendenza dal gas russo è una realtà, anche se non lo è ancora l'Unione dell'Energia (prossima tappa necessaria). La relazione con la Nato è stata consolidata e rafforzata.

Anche in questo caso, l'Unione (e i sui stati membri) sta facendo la sua parte, tra volontarismo politico e strumenti disponibili.

Se è chiaro a tutti che gli strumenti comuni sono del tutto insufficienti e che siamo solo all'inizio di un percorso estremamente complesso è altrettanto chiaro, tuttavia, che non c'è affatto consenso politico su una visione comune del ruolo dell'Unione e su quali obiettivi l'Unione debba perseguire nel darsi finalmente i mezzi per una politica di difesa e di sicurezza comune, nelle relazioni transatlantiche, nelle relazioni future con la Russia, nell'assetto futuro del continente.

Anzi, numerose linee di frattura tra stati membri sono visibili e potrebbero mettere in pericolo la stessa unità europea esistente.

Riforme sono necessarie per eliminare ostacoli e ridurre la frammentazione verso la costruzione di un mercato unico della difesa e di uno spazio comune di sicurezza. L'European Peace Facility dovrà essere ulteriormente consolidata e la gestione velocizzata. Occorrerà costruire o rivedere meccanismi per gestire efficacemente tutto un sistema che, in parte, esiste sulla carta, ma che produce più rapporti che operazioni.

La passerella prevista dal Trattato per decidere a maggioranza qualificata in politica estera, l'astensione costruttiva in materia di sicurezza e la geometria variabile dei progetti Pesco suggeriscono strumenti da potenziare e su cui costruire.

Un nuovo mix di comunitario sovranazionale e di intergovernativo sarà necessario.

Tutto ciò potrà accompagnare, ma non sostituire la formazione del consenso politico sul futuro ruolo dell'Europa. Oggi sulla guerra in Ucraina, questo consenso più o meno ancora esiste. Ma domani quando si dovrà ridisegnare il post-Helsinki? Per non parlare poi di Taiwan.

La Conferenza sul Futuro dell'Europa è stata lanciata in uno scenario che oggi non esiste più.

Molti sorridono, anche amaramente, a leggere i resoconti, le proposte e le ambizioni. E tuttavia, restano preziose ed importanti. Vanno utilizzate perché il futuro dell'Unione non può essere determinato essenzialmente dalle sue capacità militari.

Lo stesso dibattito sull'allargamento all'Ucraina (e contemporaneamente alla Moldova, se non anche alla Georgia) deve portare a risultati concreti e rapidi, senza smantellare i fondamenti dell'Unione, Unione di popoli e stati fondata sul diritto e non alleanza intergovernativa.

È possibile, la pista aperta dall'idea di creare una Comunità Politica Europea può aiutare a trovare le soluzioni. Non si tratta ora di precipitarsi a riproporre il modello dei centri concentrici, ma di investire seriamente nel processo aperto a Praga e che continuerà a Chisinau. La CPE non esiste ancora, va costruita. Non si tratta di passare da un Summit a un altro, va strutturata attorno ad un progetto politico comune. Turchia e Regno Unito (un eterno candidato e un ex-membro) sono presenze forti, ma entrambe fondamentali per disegnare in concreto il futuro di questa Europa. Entrambe sanno che fuori da un rapporto strettissimo con l'Europa, saranno più vulnerabili.

Sia come sia, la CPE (o la Confederazione Europea, come l'ha chiamata Enrico Letta) come opzione di una casa comune per accelerare l'allargamento, gettare le basi per un'alleanza sulle grandi sfide attraverso iniziative comuni, rilanciare la riflessione politica sul futuro dell'Europa a partire da quanto costruito finora, appare attualmente come la sola visibile iniziativa potenzialmente in grado di rispondere a molti degli interrogativi attuali.

Impossibile scommettere sulle sue probabilità di successo perché sono direttamente proporzionali all'investimento politico che i paesi vorranno dedicarci. Siamo solo all'inizio di questo percorso, vale la pena di proseguirlo.