I costi della non-Europa, la necessità dell’unione politica e gli ostacoli da superare

Roberto Castaldi
Direttore del CesUE e di EURACTIV Italia

I costi della non-Europa e la necessità dell’unione politica

La Conferenza sul futuro dell’Europa ha mostrato la consapevolezza di cittadini e società civile sul fatto che l’invasione russa dell’Ucraina e il suo impatto sull’Europa richiede uno scatto nell’integrazione per procedere verso un’unione dell’energia e della politica estera e di difesa, oltre a rendere più urgente il tema dell’allargamento. L’attuale crisi sta mettendo in evidenza gli enormi costi della non-Europa, sia in termini economici, che di sicurezza. Il nodo è l’unione politica, il completamento della federalizzazione dell’Unione.

Uno studio dell’University College of Dublin mostra che una rete energetica integrata europea potrebbe ridurre il costo dell’energia del 32%

Intanto gli Stati membri si dividono sul tetto al prezzo del gas e del petrolio e si fanno concorrenza tra loro per assicurarsi e diversificare gli approvvigionamenti. L’UE è il primo importatore di energia al mondo. Con un meccanismo di acquisto congiunto dell’energia dai Paesi terzi potremmo ottenere contratti di lungo periodo a prezzi molto più bassi. E per far fronte a situazioni specifiche di alcuni Paesi, andrebbe creata una riserva strategica europea, sul modello dello Strategic Petroleum Reserve degli USA, che potrebbe iniziare dalla messa in comune di una quota delle riserve energetiche nazionali, ad esempio il 20%, come per l’Unione monetaria. E rafforzati gli investimenti comuni sulle filiere produttive legate alle fonti rinnovabili e sulla transizione ecologica in tutti i suoi aspetti, rendendo strutturali gli strumenti fiscali e di debito comune adottati inizialmente una tantum come risposta alla pandemia per finanziare il Next Generation EU.

I Paesi UE spendono per la difesa circa l’1,3% del PIL, e insieme hanno la terza spesa militare mondiale, dopo USA e Cina, e quasi tre volte quella russa. Ma, l’invasione russa dell’Ucraina mostra che non abbiamo alcuna capacità di deterrenza. La nostra spesa militare è straordinariamente inefficiente, a causa della moltiplicazione delle spese nazionali e dei sistemi d’arma. A che servono 27 stati maggiori, accademie militari, ecc. quando ormai tutte le missioni militari sono multi-laterali? Una difesa europea sarebbe più efficace in termini di sicurezza e più efficiente economicamente.

Tutti gli Stati membri puntano ora all’obiettivo NATO del 2% della spesa militare. Ma se rimarrà nazionale aumenterà solo lo spreco. Per creare una difesa europea serve un accordo sullo strumento militare europeo, sul suo finanziamento e sul sistema di governance. Come ai tempi della CED, non può esistere se non nel quadro di un’unione politica, con un governo federale europeo responsabile anche della politica estera, di cui la difesa europea (militare e civile) sarebbe uno strumento.

Dopo l’invasione in Parlamento il Presidente Draghi ha detto: “è necessario procedere spediti sul cammino della difesa comune, per acquisire una vera autonomia strategica, che sia complementare all’Alleanza Atlantica. La minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo fatto finora. Possiamo scegliere se farlo a livello nazionale, oppure europeo. Il mio auspicio è che tutti i Paesi scelgano di adottare sempre più un approccio comune. Un investimento nella difesa europea è anche un impegno a essere alleati”. Cioè, bisognerebbe decidere che la spesa militare aggiuntiva rispetto al 2021 venga centralizzata a livello europeo per finanziare una autonoma capacità di difesa dell’UE, con forme di perequazione per tenere in conto il diverso livello delle spese di partenza. Questo non toglierebbe nulla alle attuali capacità nazionali, ma sarebbe sufficiente per creare una effettiva capacità militare, e quindi una deterrenza europea – che per l’aspetto nucleare potrebbe contare sulla force de frappe francese.

In alternativa, si potrebbe prevedere di mettere in comune una quota della spesa nazionale per la difesa (ad esempio il 20%, come per l’Unione monetaria). In prospettiva la difesa europea andrà finanziata da risorse proprie del bilancio europeo, ma intanto – anche al fine di incentivare gli Stati a puntare sulla difesa europea - si potrebbe prevedere che i contributi nazionali al Fondo Europeo per la Difesa ed alla European Peace Facility vengano scorporati dal calcolo del deficit nazionale, come accade per i contributi al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici. Eventualmente, lo stesso potrebbe valere per la quota di spesa militare nazionale finalizzata a progetti europei, come quelli nell’ambito della Cooperazione Strutturata Permanente o di missioni europee.

Sul piano della governance, oltre all’abolizione dell’unanimità bisognerebbe rafforzare le competenze e i poteri della Commissione in materia di politica estera, di sicurezza e difesa – analogamente a quanto accade per il commercio; istituzionalizzare la configurazione Difesa del Consiglio dell’UE, che deliberi a maggioranza qualificata; e creare una commissione Difesa nel Parlamento europeo.

Serve la rappresentanza dell’Unione nelle principali organizzazioni internazionali – dall’ONU, al Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale – che pone il tema di individuare forme di europeizzazione de facto del seggio francese nel Consiglio di Sicurezza, e della force de frappe. Ciò potrebbe avvenire prevedendo che un rappresentante della Commissione sia sempre associato all’ambasciatore francese all’ONU, ad esempio. Mentre nelle organizzazioni economiche internazionali una rappresentanza della Commissione e della BCE dovrebbe prendere il posto di quelle nazionali. Ciò permetterebbe all’UE di essere il primo azionista del FMI e della Banca Mondiale e di rafforzarne enormemente il ruolo internazionale.

Gli ostacoli da superare

Nonostante gli immensi costi della non-Europa per ora non si sono fatti significativi passi avanti a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. La ragione è il disaccordo tra gli Stati membri, ed in particolare tra Francia e Germania.

Dopo l’elezione di Trump negli USA nel 2016, e quella di Macron in Francia, la dinamica franco-tedesca è stata caratterizzata da contrapposte richieste di una maggiore condivisione di sovranità. La Francia sul piano economico e fiscale, con l’idea del bilancio dell’eurozona. La Germania sul piano politico-militare, con la proposta di passare al voto a maggioranza qualificata sulla PESC e la richiesta di un piano di medio periodo per l’europeizzazione del seggio francese all’ONU e della force de frappe.

La pandemia ha permesso a Macron di ottenere in parte quel che chiedeva, con il Next Generation EU. L’invasione russa dell’Ucraina mette al centro la questione della difesa, su cui la Francia finora ha nicchiato. Ed anche l’unione dell’energia, dove le resistenze arrivano dalla Germania, in parte per interessi strutturali o di lungo periodo, in parte per paura delle conseguenze di ogni scelta. Infine, ha fatto salire nell’agenda la questione dell’allargamento. E Francia e Germania sembrano divise sulla necessità che una riforma dei Trattati preceda l’allargamento, e su come coniugare un’Unione allargata e un’Unione più integrata e coesa. La federazione nel quadro di una più ampia confederazione resta la via maestra.

In questo quadro vorrei soffermarmi su due attori che possono giocare un ruolo cruciale per rimettere in moto il processo: il Parlamento europeo e l’Italia.

Sulla base dei risultati della Conferenza sul futuro dell’Europa il Parlamento dovrebbe predisporre una riforma organica dei Trattati, o una nuova Costituzione, volta a realizzare tutte le proposte della CoFoE e a realizzare l’unione dell’energia, della politica estera, di sicurezza e difesa, completando la federalizzazione dell’Unione. Tra le proposte della CoFoE vi è anche l’istituzione di un referendum europeo. La riforma dovrebbe prevederlo, e renderlo il nuovo strumento di ratifica delle riforme Costituzionali, prevedendo in quel caso un Referendum a doppia maggioranza, per riconoscere la natura federale dell’UE come unione di cittadini e di Stati. L’approvazione della riforma richiederebbe dunque una maggioranza complessiva di cittadini europei, ma anche una maggioranza nazionale in una maggioranza di Stati membri. Negli Stati membri in cui invece vi sia stata una maggioranza contraria alla ratifica si rivoterebbe entro 6 mesi per decidere se ratificare o avviare la procedura di recesso dall’Unione. In questo modo, nessun popolo nazionale sarebbe costretto a rimanere nell’Unione nel caso non ne condivida le regole fondamentali, ma nessun popolo nazionale da solo potrebbe impedire al popolo federale europeo di dotarsi di regole fondamentali approvate da una maggioranza di cittadini e di Stati. Inoltre, dovrebbe contenere una norma transitoria e finale sulla propria ratifica, che ne preveda l’immediato utilizzo al posto dell’unanimità prevista attualmente dall’art. 48.

Può sembrare una forzatura del quadro giuridico, ma è quanto accaduto nel passaggio dalla confederazione alla federazione negli USA, in Svizzera e altrove, e previsto dal Progetto Spinelli approvato dal Parlamento europeo, e dal Progetto Penelope proposto dalla Commissione durante la Convenzione. Anche i Trattati del Fiscal Compact e del Meccanismo Europeo di Stabilità non prevedevano l’unanimità della ratifica, che addirittura era possibile a minoranza dei 25 firmatari, purché vi fossero 2/3 dell’Eurozona.

E l’Italia può giocare un ruolo cruciale, prendendo l’iniziativa e favorendo un accordo con Francia e Germania. Riprendendo la proposta di Draghi di destinare l’aumento delle spese militari alla difesa europea. Proponendo di tornare all’obiettivo di una Forza di intervento rapido da 60.000 effettivi, che già nel 1999 gli Stati membri si erano impegnati a realizzare. Potrebbe aderire all’Eurocorpo come Framework Nation (attualmente è soltanto Associata) proponendone contemporaneamente la comunitarizzazione, magari attraverso la Cooperazione Strutturata Permanente sulla Difesa. Ciò doterebbe il Comitato militare dell’UE dell’embrione di una struttura di comando e controllo indispensabile per riuscire a creare e gestire la Forza di intervento rapido (rafforzata come indicato sopra, rispetto ai 5.000 effettivi previsti dall’attuale Strategic Compass) che, come richiesto dal Parlamento europeo, dovrebbe fare capo in permanenza all’UE. Accanto a questo andrebbero proposti la creazione di un Centro di formazione europeo dei quadri militari, e di un Comando integrato dell’UE per favorire lo sviluppo di una cultura strategica europea. Ed un forte segnale della volontà di procedere verso una difesa europea sarebbe infine la proposta di fusione dei due progetti concorrenti del Tempest e dello SCAF franco-tedesco-spagnolo.