25 anni di percorso dell’Agenda "Donne, pace e sicurezza" tra luci e ombre. Le difficoltà di implementazione in Africa

Luca Attanasio
Giornalista e scrittore

Come è stato ampiamente dimostrato, quando le donne siedono al tavolo dei negoziati, la pace ha maggiore probabilità di successo, prevede percorsi di maggiore inclusività e risulta più salda e duratura. Tuttavia, a 25 anni dal lancio dell'Agenda "Donne, pace e sicurezza" (Risoluzione 1325/2000) - lo storico documento attraverso cui i leader mondiali riconoscevano da una parte gli effetti devastanti della guerra sulle donne e sulle ragazze e, dall’altra, sancivano il diritto delle donne a partecipare in modo paritario ai processi di pace – governi, organizzazioni transnazionali, organismi preposti all’implementazione della risoluzione, non stanno adempiendo ai propri obblighi, né si registra ancora quel cambio di passo culturale necessario.

Il percorso innescato dalla Risoluzione ha avuto l’indubbio merito di porre la questione di genere al centro del dibattito su sicurezza, conflitti e diritti globali, e ha fatto emergere, dati statistici e scientifici alla mano, quanto il contributo delle donne in questi campi sia fondamentale. Ha condotto a cambiamenti sui piani legislativi nazionali e internazionali e sviluppato altre nove risoluzioni in questo quarto di secolo. Ma se si pensa all’entusiasmo che scatenò la sua emanazione e alle aspettative che suscitò, si può con certezza affermare che l’Agenda "Donne, pace e sicurezza” (WPS), nonostante i suoi 25 anni sulle spalle, non abbia inciso profondamente nei processi di risoluzione dei conflitti, di garanzia di sicurezza e di riconoscimento del ruolo femminile.

Sono tanti i dati che mettono in crisi la validità di un percorso. Innanzitutto il fatto che, come denuncia il rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza pubblicato nel 2024, il numero di donne uccise in conflitti armati è raddoppiato nel 2023 rispetto al 2022, rappresentando il 40% di tutti i decessi in guerra, mentre i casi verificati dall'ONU di violenza sessuale legata ai conflitti sono aumentati del 50%.  «Le donne – ha ben riassunto Musalia Mudavadi, Primo Segretario di Gabinetto del Governo del Kenya, intervenendo al Simposio regionale sulla promozione della pace e dell'inclusività tenutosi a Nairobi dal 2 al 3 ottobre 2024- continuano a subire le conseguenze più gravi dei conflitti, essendo spesso oggetto di violenza ed emarginazione».

C’è poi un fallimento evidente rappresentato da come continuano a essere condotti i processi di pace, di demilitarizzazione, di gestione del post-conflitto. I peace-talks (o i processi di demilitarizzazione, di riconciliazione, di tregua etc) – come dimostra ampiamente l’ultimo in ordine di tempo, quello a Sharm el Sheik, convocato per siglare l’accordo tra Israele ed Hamas – sono ancora pressoché esclusivamente affari per uomini in barba a qualsiasi evidenza scientifica. Eppure di donne che da decenni lottano per la pace, la riconciliazione e la convivenza ce ne sono in grandi quantità in ogni angolo di mondo. A partire da Palestina e Israele: «Noi donne siamo coinvolte nella guerra senza che nessuno ci chieda se lo vogliamo – dichiara a Waging Nonviolence Fatima (nome di fantasia per motivi di sicurezza), una donna palestinese, madre di quattro figli e membro di Women of the Sun - Poiché siamo noi a pagare il prezzo di questa guerra, meritiamo di sedere al tavolo dei negoziati». Ashkenazi, 67 anni, madre e nonna, membro attivo di Women Wage Peace sin dalla sua fondazione, concorda: «se le donne israeliane soggette alla coscrizione possono combattere in guerra, noi possiamo combattere per la pace».  Women Wage Peace è il più grande movimento pacifista israeliano. I suoi circa 44.000 membri provengono da tutto Israele e comprendono israeliane, palestinesi, ebree, musulmane, druse e beduine. Women of the Sun, invece, è stata fondata nel 2022 per rafforzare la componente palestinese del movimento pacifista, che è cresciuta rapidamente fino a contare 3.000 membri attivi in Cisgiordania e Gaza. Oggi entrambi i movimenti collaborano tra loro, lavorano con le comunità locali e contribuiscono a implementare programmi che mirano a sviluppare convivenza pacifica, educano e responsabilizzano le donne affinché diventino testimoni di pace. 

Se c’è però un’area del mondo dove l’implementazione della Risoluzione 1325 sembra fare ancora più fatica delle altre, è l’Africa. Come scrive l’Institute for Justice and Reconciliation (IJR), la società civile e le organizzazioni femminili africane sono state in prima linea nella promozione, nell'attuazione e nel contributo all'agenda WPS, mentre l'Unione Africana (UA) ne ha sostenuto la traduzione in politiche e programmi continentali. L’Africa, dove tuttora si consumano gravissimi conflitti, dove la violenza di genere è considerata diffusamente una pratica di guerra e la sicurezza delle donne è in media molto a rischio, ha fatto sentire la sua voce femminile e ha dato un contributo notevole a tracciare un percorso proprio a partire dalle proprie sofferenze da una parte ma anche dalle grandi capacità di conflict-resolution dall’altra. Tuttavia, al peso storico e morale offerto dalle donne africane, continua a non corrispondere un peso politico e decisionale nei processi negoziali e nei percorsi di pace.

In una dichiarazione delle Nazioni Unite alla 1242ª riunione del Consiglio di Pace e Scurezza dell'Unione Africana del 31 ottobre 2024, si sottolineava come il quadro del continente presentasse segnali preoccupanti. «Conflitti armati e violenze – si legge - stanno erodendo i progressi compiuti nel corso di decenni, riducendo così i dividendi che abbiamo faticosamente conquistato. I progressi generazionali in materia di diritti delle donne sono in bilico, il potenziale trasformativo della leadership femminile nella ricerca della pace e dello sviluppo è a rischio». Accanto a tale affermazione, si riconosce quanto il ruolo delle donne sia e sia stato di fondamentale importanza e come, però, nonostante gli Stati membri dell'Unione Africana si siano ripetutamente impegnati a garantire la partecipazione delle donne alla prevenzione, alla risoluzione e al superamento dei conflitti, nonché a difendere i loro diritti, anche in tempo di guerra, la loro rappresentazione sia ancora largamente insufficiente. «Il ruolo delle donne nelle operazioni di sostegno alla pace – continua la dichiarazione - non può essere sottovalutato. Le donne apportano prospettive, esperienze e competenze uniche, essenziali per una risoluzione efficace dei conflitti e per la costruzione della pace. Nelle nostre operazioni di pace in Africa, abbiamo la prova che le donne impegnate nel mantenimento della pace e nei negoziati costruiscono ponti dove prima prevalevano le divisioni. …Tuttavia, nonostante queste ragioni convincenti, le donne rimangono sottorappresentate nelle operazioni di sostegno alla pace. Questa mancanza di inclusione non è solo una perdita per le donne, ma una perdita collettiva, poiché limita il nostro pieno potenziale per ottenere risultati più positivi. Quando non riusciamo a includere metà della nostra popolazione in questi processi critici, neghiamo a noi stessi il pieno potenziale della nostra saggezza e creatività collettiva».

Secondo vari filoni di pensiero, la mancata applicazione o lo scarso successo nell’implementazione della Risoluzione 1325 in Africa, risiedono nel retaggio coloniale che in qualche modo essa fa emergere. Come sostiene sempre l’Institute for Justice and Reconci­liation (IJR), l'Agenda WPS «è stata criticata per la sua impostazione coloniale e imperialista nei confronti del Sud del mondo. La sostanza della critica è che descrivere le donne del Sud del mondo come "altre" bisognose di protezione, salvataggio e rifugio, riduce la diversità dei ruoli e delle esperienze delle donne e sottovaluta le loro conoscenze, rendendo al contempo invisibile il loro ruolo sostanziale nella costruzione della pace».

Secondo la studiosa e attivista femminista Amina Mama, le istituzioni intergovernative e statali sono radicate nella formazione dello Stato coloniale e continuano a mostrare "gli effetti persistenti delle istituzioni politiche coloniali che si basavano su una separazione di genere tra la sfera privata e quella pubblica». Allo stesso modo, la studiosa Soumita Basu sostiene che, in quanto sede dell'adozione formale dell'Agenda WPS, il sistema delle Nazioni Unite ha dominato la sua impostazione e attuazione, entrambe fortemente influenzate dalle idee liberali occidentali. Molto interessante poi la posizione della nigeriana Helen Kezie-Nwoha, attivista femminista per la pace e i diritti umani. che per decostruire il motivo per cui il continente africano continua ad essere teatro di conflitti nel XXI secolo e per analizzare il ruolo delle donne, utilizza una prospettiva postcoloniale e femminista.  Le guerre di lunga durata, secondo la teorica, hanno avuto effetti devastanti sulle popolazioni, in particolare sulle donne e sulle ragazze e la maggior parte dei conflitti ancora in atto può essere attribuita alla natura delle transizioni dal colonialismo. Nel suo saggio Feminist Peace and Security in Africa sostiene che gli Stati dell'intero continente africano non sono mai riusciti a distaccarsi dall'eredità del colonialismo e collega la natura violenta e militarizzata di questi Stati di recente formazione a tale eredità. Il colonialismo ha rafforzato inoltre le norme di genere e l'emarginazione, ha militarizzato la mascolinità e ha avallato una gerarchia patriarcale della conoscenza.

Si potrebbero citare molti esempi di come l’implementazione dell’Agenda fatichi a trovare una sua road map in Africa. Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), il quadro iniziale di pace, sicurezza e cooperazione per la RDC e la regione dei Grandi Laghi non è riuscito a integrare una prospettiva di genere e nei colloqui di recente svoltosi in Qatar tra governo congolese e ribelli dell’M23, e a Washington tra governi di Congo e Rwanda, non risulta presenza femminile. Come riporta Women In International Security un chiaro esempio di fallimento è rappresentato dai vari negoziati di pace succedutisi in Libia dopo il 2011. La presenza delle donne tra i partecipanti, nonostante il costante attivismo e la leadership organizzativa delle donne libiche, non ha mai superato le due unità.

Ma uno dei casi più eclatanti resta il Sudan, il paese in guerra dall’aprile 2023, l’emergenza umanitaria peggiore del momento secondo l’Onu, con oltre 13 milioni di sfollati e centinaia di migliaia di vittime e un processo di pace accidentato a dir poco condotto a varie riprese a Jeddah, in Arabia Saudita senza il minimo esito. È inutile aggiungere che le donne sono totalmente fuori da ogni coinvolgimento nelle trattative o nelle consultazioni. Eppure, anche qui, sono protagoniste assolute di una tenuta civile nella società.  L’esempio migliore dell’attivismo femminile in Sudan ci viene fornito dalle Emergency Response Rooms (Err), una sorta di cooperative locali auto-organizzatesi. Le Err raggiungono centinaia di migliaia di individui in ogni angolo del paese, anche nelle aree più remote o quelle più colpite dal conflitto, e svolgono un ruolo determinante nell'attenuare i danni e nel fornire un sostegno alla popolazione. Le Err, organizzate e gestite in netta prevalenza da donne, si occupano di fornitura di pasti caldi giornalieri, di animare centri per l'infanzia con sale per le donne, la creazione e il sostegno di cooperative femminili, la riparazione di infrastrutture idriche, la distribuzione di materiali per l'igiene, l'acquisto di forniture mediche e farmaci, il supporto alle strutture sanitarie o l'evacuazione di civili e volontari. Inoltre forniscono lì dove possono counselling psicologico a donne e bambini vittime di violenze e allestiscono presidi educativi per i bambini che non frequentano le scuole da quasi tre anni. Per la loro costante attività le Err hanno ricevuto una nomination per l’assegnazione dell’ultimo Nobel per la Pace nell’ ottobre 2024 e hanno vinto il Right Livelihood Award.