25 anni dell’Agenda Donne, Pace e Sicurezza: una risposta alla politica della prepotenza

Lia Quartapelle Procopio
Parlamentare, Vice Presidente Commissione Esteri, Camera dei Deputati

A venticinque anni dall’adozione della Risoluzione 1325, l’Agenda “Donne, Pace e Sicurezza” (WPS) continua a rappresentare uno dei tentativi più ambiziosi del sistema multilaterale di spostare l’attenzione dalla logica della forza alla logica dei diritti. Mai come oggi, in un mondo attraversato da guerre di aggressione, crisi regionali e ridefinizioni dell’ordine internazionale, l’Agenda WPS diventa uno strumento per leggere i rischi del presente e per indicare un’alternativa credibile.

La sicurezza è tornata a essere dominata dai rapporti di forza, lo confermano le dinamiche globali. L’Europa dovrebbe aver capito che l’ombrello di sicurezza americano non è più garantito, ma subordinato a logiche di scambio, pressione economica e interessi di parte. Il continente europeo è strategico per gli Stati Uniti in termini commerciali, ma l’amministrazione non ha intenzione di continuare a sostenere la difesa dei paesi europei. È quanto si trova scritto nella National Security Strategy americana. L’idea di un ordine internazionale fondato su regole cede il passo a un contesto dove prevale chi esercita maggiore pressione.

È un mondo in cui la diplomazia viene compressa tra minacce e ricatti, e in cui persino la pace rischia di trasformarsi in un accordo tra potenti, più che in un processo che coinvolge le società, le comunità, le donne che più subiscono il peso della guerra. La tentazione diffusa è quella di accettare che l’ordine globale sia destinato a essere scritto da chi ha più forza, non da chi ha più legittimità.

Proprio per questo l’Agenda WPS è oggi essenziale. Non perché sia un capitolo di politiche “di genere” altrimenti determinate altrove, ma perché incarna un’idea diversa di sicurezza: una sicurezza radicata nella partecipazione, nella giustizia, nella prevenzione dei conflitti, nell’inclusione delle persone che nelle guerre perdono tutto e per questo hanno più interesse a costruire la pace. In questi 25 anni, le donne hanno dimostrato ovunque, dalle comunità palestinesi e israeliane che lavorano insieme per un futuro possibile, fino alle attiviste ucraine impegnate nella ricostruzione civile, che la pace non si impone dall’alto, ma si costruisce dal basso. In Africa le organizzazioni femminili hanno sviluppato alcune delle forme più innovative di peacebuilding, come le donne nelle Women’s Response Rooms del Sudan o nelle reti comunitarie della RD Congo. Eppure, i processi negoziali continuano a escluderle, come se la diplomazia fosse un affare riservato agli attori armati, agli apparati militari o ai leader che decidono a porte chiuse. La contraddizione è evidente: mentre gli attori globali riscrivono l’ordine internazionale secondo logiche di interesse e potenza, si continua a ignorare la capacità trasformativa di chi vive la guerra e lavora ogni giorno per garantire assistenza, protezione e coesione, elementi essenziali per stabilità e pace.

L’Agenda WPS nasceva proprio per spezzare questo paradosso. Oggi, nel mondo della prepotenza internazionale, la sua funzione è duplice. In primo luogo, è una chiave di lettura. Senza questa cornice, il futuro della sicurezza globale rischia di essere definito da chi ha più mezzi coercitivi, non da chi ha più interesse alla pace. L’Agenda WPS, poi, è uno strumento politico, per chi crede nel multilateralismo. Rappresenta un modo concreto per affermare la pace, non come equilibrio di forze, ma come progetto di giustizia. L’Agenda significa investire in diplomazia, mediazione, prevenzione.

Celebrare questi 25 anni non deve essere un atto rituale. Deve essere un impegno: quello di riportare la politica estera sulla strada della responsabilità, della dignità umana, della partecipazione reale. Non è una formalità e un segnale che conferma la deriva autoritaria e la regressione rispetto a un concetto di sicurezza fondato sul diritto lo offre la decisione dello scorso Aprile di Pete Hegseth di smantellare il programma WPS, definendolo “woke”, “divisivo” e “una distrazione dalle priorità di guerra”.

Se il mondo sta scivolando verso una nuova era di potenze che si contendono territori e influenze, l’Agenda WPS ci ricorda che esiste un’altra strada: quella di una sicurezza costruita sulla voce di chi la guerra la subisce, non di chi la usa per negoziare il proprio vantaggio. In questa direzione si inserisce anche la posizione che l’Italia ha espresso alle Nazioni Unite in occasione del dibattito aperto del Consiglio di Sicurezza dedicato all’Agenda WPS nell’ottobre 2024. In quella sede, il nostro Paese ha sottolineato come la partecipazione piena e significativa delle donne ai processi di pace non sia un elemento accessorio, ma una condizione imprescindibile per costruire sicurezza e stabilità durature. L’Italia ha ribadito il proprio impegno nel sostenere le organizzazioni della società civile, in particolare quelle guidate da donne, che operano nei contesti più fragili, e nel rafforzare la protezione delle donne e delle ragazze dalla violenza di genere, soprattutto in situazioni di conflitto. Allo stesso tempo, ha richiamato la necessità di investire nella formazione, nella leadership e nelle competenze femminili anche attraverso la cooperazione internazionale, convinta che la pace richieda istituzioni inclusive e processi decisionali aperti a tutte le componenti della società. Questo approccio, articolato e coerente con i principi dell’Agenda 1325, conferma una linea chiara: l’Italia considera la prospettiva di genere non come un capitolo a parte della politica estera, ma come una lente indispensabile per comprendere e affrontare le crisi che definiscono il nostro tempo. A testimonianza della continuità dell’impegno italiano, il nostro Paese rimane uno dei rari Stati che finanziano in modo stabile il Piano d’Azione Nazionale sulla 1325, garantendo risorse anche al Network delle Donne Mediatrici, una piattaforma che riunisce esperte di dialogo e risoluzione dei conflitti per rafforzare la presenza femminile nei processi di pace a livello locale e internazionale.

In un tempo in cui la forza vuole imporsi come unico linguaggio, la diplomazia inclusiva e la partecipazione femminile diventano atti profondamente politici: non solo giusti, ma necessari. Per garantire pace dove oggi c’è violenza. Per difendere il multilateralismo dove oggi regna la competizione. Per affermare che il mondo non appartiene ai prepotenti, ma a chi lo costruisce con coraggio, cura e responsabilità.