Oltre i conflitti: costruire un mondo fondato sulla pace, sui diritti e sulla parità di genere

Marcella Mallen
Presidente Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

La Carta delle Nazioni Unite, il documento fondativo dell’Onu, si apre con un impegno importante: “salvare le future generazioni dal fardello della guerra”. Anche la Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale nel 1948, riconosce il rispetto dei diritti umani come una precondizione per la pace nel mondo. I leader mondiali hanno riaffermato questo impegno anche nel 2015, con l’approvazione dell’Agenda 2030: nel testo della risoluzione è espresso chiaramente che “non c’è sviluppo sostenibile senza pace e non c’è pace senza sviluppo sostenibile”.

Il Rapporto ASviS, che analizza lo stato di attuazione dell’Agenda 2030 in Italia, in Europa e nel mondo, quest’anno è dedicato proprio alla pace, ai diritti e alla giustizia. Tre parole cariche di significato e di valore, ma anche, in questo momento storico, di dolore. Il mondo è lacerato dalle sofferenze in Palestina e in Ucraina, dai conflitti nel Sudan, nello Yemen, in Myanmar, dalla difficoltà dei potenti del mondo di sedersi a un tavolo comune per garantire all’umanità le condizioni minime per prosperare, proteggendo l’ambiente naturale dalla cui salute noi tutti dipendiamo.

La situazione attuale è allarmante: secondo il Global peace index, attualmente sono 59 i conflitti attivi, il dato più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2024 quasi 50mila persone, in larga parte civili, hanno perso la vita in tali conflitti: una ogni 12 minuti. In dieci anni è raddoppiato il numero delle persone sfollate forzosamente a causa di guerre, violenze, degrado degli ecosistemi, crisi climatica e povertà: a fine 2024 ha raggiunto il record storico di 123,2 milioni di persone (una ogni 67 abitanti). I governi dei Paesi più sviluppati, al di là delle affermazioni di principio, non appaiono in grado di definire strategie efficaci per la gestione del problema, se non quella di erigere barriere che in prospettiva si ritorcono contro loro stessi, visto il crescente invecchiamento della popolazione. Peraltro, la scelta compiuta da alcuni di essi di puntare su misure di deportazione e rimpatrio di massa mette in crisi i rapporti tra Paesi di origine e quelli di destinazione, a detrimento del rispetto dei diritti umani. Particolarmente grave è la situazione per le donne: dal 2017 il numero di donne e ragazze che vivono in aree colpite da conflitti è raddoppiato e oggi oltre 614 milioni di donne e ragazze abitano in zone di guerra, con una probabilità 7,7 volte superiore rispetto agli uomini di trovarsi in povertà estrema. La guerra colpisce di più chi ha meno voce, meno potere, meno tutele.

La cooperazione con le comunità più fragili non è migliorata, anzi. La brusca chiusura di Usaid, l’Agenzia statunitense per l’assistenza ai Paesi in via di sviluppo, e la significativa riduzione degli Aiuti pubblici allo sviluppo (Aps) da parte di alcuni Paesi europei, minaccia la sopravvivenza di milioni di persone che da questi fondi dipendevano: a livello mondiale, nel 2024 l’Aps è diminuito del 7,1%, con ulteriori tagli stimati tra il 9% e il 17% per il 2025 (rispetto all’anno precedente) e un futuro prossimo di alta incertezza. Anche in Italia la quota di Prodotto interno lordo (Pil) destinata all’Aps è scesa dallo 0,33% allo 0,27%.

Allo stesso tempo la spesa militare globale ha raggiunto il livello record di oltre 2.700 miliardi di dollari. Con appena il 10% di questi 2.700 miliardi di euro sarebbe possibile eliminare la povertà estrema sul pianeta, e con solo il 4% si riuscirebbe a sfamare le 700mila persone attualmente in stato di deprivazione. L’aumento della spesa militare non garantisce la sicurezza e non rappresenta un deterrente ai conflitti; al contrario, spesso alimenta la corsa agli armamenti, rafforza la sfiducia tra i Paesi e destabilizza ulteriormente il panorama politico internazionale, minando le possibilità di dialogo diplomatico per la risoluzione pacifica dei conflitti.

Nonostante le evidenti difficoltà, la diplomazia internazionale ha continuato a lavorare, conseguendo alcuni risultati che mantengono ancora viva la speranza in un nuovo multilateralismo. Ad esempio, dando seguito agli impegni assunti con il Patto sul Futuro, a fine giugno 2025 è stato adottato il cosiddetto “Impegno di Siviglia per la finanza allo sviluppo”, al quale hanno aderito tutti i Paesi eccetto gli Stati Uniti, successivamente seguiti da Israele e Argentina. Il documento riconosce il ruolo della finanza per lo sviluppo quale strumento per la costruzione della pace e indica vari strumenti per convogliare le risorse finanziarie in strategie nazionali di sviluppo sostenibile che possano rappresentare anche piani di prevenzione dei conflitti e di costruzione e mantenimento della pace in scenari post-conflitto.

Come già sottolineato, tuttavia, una pace duratura non può essere costruita senza rispetto dei diritti umani, e senza il raggiungimento della parità di genere e della piena partecipazione delle donne in tutti gli ambiti. Lo ha ribadito con forza il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che, il 31 ottobre del 2000, ha adottato la risoluzione 1325, ponendo le donne al centro della pace e della sicurezza internazionale.

Negli ultimi anni si sono registrati passi avanti importanti a livello globale: tra il 2019 e il 2024 sono state introdotte 99 riforme legislative volte a eliminare leggi discriminatorie e rafforzare quadri giuridici per la parità di genere. Tuttavia, nel 2024 nessuno dei 131 Paesi misurati raggiunge un punteggio adeguato nelle quattro aree analizzate: quadri giuridici e vita pubblica, violenza contro le donne, occupazione e benefici economici, matrimonio e famiglia. Ben 61 Paesi (47%) mantengono almeno una restrizione che limita l’accesso delle donne a specifiche professioni. Solo 38 Paesi (29%) stabiliscono i 18 anni come età minima per il matrimonio senza eccezioni, e appena 63 Paesi (48%) hanno leggi sullo stupro basate sulla mancanza del consenso. Secondo il Global gender gap report realizzato dal World economic forum, al ritmo attuale saranno necessari ancora 123 anni per raggiungere la parità di genere.

Il 2024, anno con il massimo numero di elezioni nella storia recente, non ha portato avanzamenti sostanziali nella rappresentanza femminile. A gennaio 2025 le donne occupavano il 27,2% dei seggi nei parlamenti nazionali, con un aumento di soli 4,9 punti percentuali rispetto al 2015 e appena 0,3 punti rispetto al 2024. Analogamente, nel mercato del lavoro globale la presenza femminile copre solo un terzo dei ruoli dirigenziali: dal 2015 al 2023 è cresciuta soltanto di 2,4 punti fino a raggiungere il 30%. A questo ritmo, la parità nei ruoli apicali richiederà quasi un secolo, con divari marcati tra le diverse regioni del mondo.

In Italia, l’indice di parità di genere è migliorato tra il 2010 e il 2024, soprattutto grazie all’aumento della quota di donne nei consigli regionali e dalla riduzione del divario tra i tassi di occupazione femminile e maschile. Pur con caratteristiche, percorsi e bisogni diversi, bambine e ragazze, giovani, donne e anziane condividono una condizione trasversale: la necessità di avanzare nonostante ostacoli ricorrenti. Nonostante una valorizzazione ancora insufficiente delle loro attitudini e competenze. Nonostante difficoltà persistenti nel realizzare le proprie aspirazioni personali e professionali, compresa quella di diventare madri. Nonostante un’aspettativa di vita più lunga, che si traduce troppo spesso in condizioni di fragilità economica e solitudine, in assenza di servizi adeguati.

Tra i provvedimenti più significativi il Rapporto ASviS 2025 segnala il disegno di legge n. 1192 sulla semplificazione normativa, che introduce elementi positivi come l’obbligo di includere l’impatto di genere nelle analisi ex-ante ed ex-post della regolamentazione (Air e Vir), la produzione e diffusione di dati statistici disaggregati per sesso e l’inserimento, nelle relazioni biennali della consigliera/consigliere nazionale di parità, di un focus sugli effetti degli investimenti pubblici sull’occupazione femminile. Di segno opposto il giudizio sull’AC 2278, che affronta il tema dell’identità di genere nelle scuole e introduce un meccanismo di consenso familiare sulle attività didattiche relative ad affettività e sessualità. Il provvedimento è valutato come regressivo in termini di diritti e inclusione, anche alla luce della rimozione della disforia di genere dalle patologie riconosciute dall’Oms già nel 2018. Infine, entro il 2026 sarà cruciale l’attuazione del Piano per l’ampliamento dei servizi educativi per l’infanzia previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, una misura decisiva per sostenere la partecipazione delle madri al mercato del lavoro.

Il Rapporto ASviS richiama con forza la responsabilità collettiva di rimettere al centro delle politiche globali la pace, la giustizia e i diritti umani che non sono concetti astratti, ma condizioni indispensabili per qualunque progetto di sviluppo sostenibile. Servono politiche lungimiranti, investimenti adeguati, istituzioni solide e un impegno convinto da parte dei governi, del settore privato e della società civile. Serve soprattutto la consapevolezza che nessun Paese può prosperare se altre popolazioni restano intrappolate nella violenza, nella povertà o nella discriminazione. È una strada lunga, certamente, ma non priva di speranza: i progressi ottenuti in questi decenni rappresentano un passo avanti verso quell’impegno solenne che la comunità internazionale ha assunto alla fine della Seconda guerra mondiale e ribadito, con forza, dieci anni fa.