La “collaborazione” con i partner internazionali e l’ottica distorta della sedentarietà

Eleonora Frasca e Marianna Lunardini
Eleonora Frasca, Dottoranda in diritto europeo all’Université catholique de Louvain (Belgio) Marianna Lunardini, CeSPI, Dottoranda in studi politici alla Sapienza Università di Roma 1

“Gli sforzi volti a costruire società stabili e coese, a ridurre la povertà e le disuguaglianze e promuovere lo sviluppo umano, l'occupazione e le opportunità economiche, a favorire la democrazia, la buona governance, la pace e la sicurezza e ad affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici possono contribuire a far sì che tutti i cittadini sentano che il proprio futuro è a casa propria” (p. 20, Commissione Europea, 23 settembre 2020).

Anche se la Commissione europea non lo esplicita, quelli che vorrebbe sedentari sono i cittadini del Sud del mondo, in primis i cittadini dei Paesi africani. Questo estratto del Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo colpisce, innanzitutto, per la naïveté del messaggio che intende comunicare. Come è possibile credere che si possano azzerare gli spostamenti migratori di milioni di individui? Specie se si pensa che proprio l’Unione europea ha fatto della circolazione interna una delle sue quattro libertà fondamentali, corollario della cittadinanza europea. Se il futuro dei cittadini europei è un futuro di circolazione – sia all’interno dell’Unione che al suo esterno, grazie ai potenti passaporti detenuti dai cittadini europei –, il futuro dei cittadini africani e degli altri cittadini dei Paesi del Sud del mondo è a casa propria. È un futuro di sedentarietà, di controllo del movimento.

Certo, l’Unione europea come attore internazionale è pienamente legittimato al controllo delle sue frontiere esterne, simbolo dell’espressione della sovranità degli Stati membri e riflesso della decisione, interna e comune, dei singoli Stati di riconoscere la libertà di circolazione ai rispettivi cittadini. Tra libertà di circolazione ed esigenze di sicurezza, non sarebbe infatti pensabile uno Stato che non gestisca i suoi confini. L’Unione europea, che pur non è uno Stato, se aspira ad avere un ruolo credibile nella comunità internazionale, deve poter regolare l’ingresso e l’uscita dai suoi confini in maniera bilanciata, efficace e coordinata. Eppure quello che manca nei controlli alle frontiere è il realismo, ripetiamo: non è razionale ritenere che milioni di individui smetteranno di muoversi e di migrare. Pertanto, il controllo dell’UE non può avvenire con uno spirito così manchevole di concretezza e lungimiranza.

A oggi, il controllo delle frontiere è raggiunto anche tramite accordi-non-accordi tra l’Unione europea, i suoi Stati membri e i Paesi terzi, accordi che raramente rispettano le forme e le procedure del diritto, che si tratti del diritto europeo (Art. 218 TFUE) o del diritto interno (Art. 80 Cost. con gli accordi in forma (semi)semplificata). Sono accordi che difficilmente si iscrivono nel solco della reciprocità degli interessi e nella concorde volontà di regolare i fenomeni migratori, cioè abbandonando la logica emergenziale e nel rispetto del diritto internazionale vigente. Accordi che, sempre più frequentemente, incidono in negativo sulla vita e la sicurezza dei migranti.

La pletora di strumenti politici utilizzati a tal fine dall’Unione europea non innova. Ciò che sorprende, nel Nuovo Patto, è la cautela con cui l’Unione sembra capitalizzare sul lavoro già svolto. Non sono avanzate nuove proposte concrete (a eccezione delle Talent partnership e di alcune iniziative per contrasto al traffico dei migranti), ma quelle già messe in atto sono rinforzate, particolarmente nell’ambito di attuazione di quella che fu l’Agenda europea sulla migrazione, con esperienze come il Nuovo quadro di partenariato europeo e il Fondo fiduciario europeo d’emergenza per l’Africa (EUTF).

Dal 2015 in poi, l’azione esterna sulle migrazioni dell’Unione in Africa si è fatta estremamente pervasiva e fagocitante. Si pensi che un totale di ventisei Paesi africani sono destinatari di progetti attivati tramite il Fondo fiduciario e larga parte dei progetti ha come fine il miglioramento della “gestione integrata delle migrazioni”. Con questa formula è ben riassunta l’ampiezza dell’attività dell’Unione in questo ambito: agendo per migliorare la sicurezza dei Paesi africani tramite il controllo delle frontiere, l’Unione e i suoi Stati membri – di fatto – influenzano e controllano il diritto delle migrazioni (inteso in senso ampio: frontiere, migrazioni, asilo) dei Paesi africani. La cooperazione fra Stati si riversa all’interno dello Stato terzo, in quanto comporta per la sua attuazione l’adozione da parte del Paese di nuove leggi e strategie nazionali per il controllo e la gestione delle migrazioni in linea con gli obiettivi dell’accordo con l’Unione. Al fine di raggiungere la realizzazione dell’accordo, l’Unione si impegna a fornire ai Paesi Terzi finanziamenti, equipaggiamenti e apparecchiature, anche tecnologiche, per la sorveglianza della frontiere, distaccando funzionari di collegamento incaricati dell’immigrazione sul territorio dei Paesi terzi, per formazione e consulenza, specie nella raccolta di dati sui movimenti dei migranti, dati che facilmente potrebbero essere condivisi dai Paesi terzi con i Paesi europei.

Il senso e lo scopo di questi cambiamenti, ricercati con sollecitudine negli ordinamenti giuridici dei Paesi terzi, è la sedentarietà, ovvero impedire il movimento dei migranti, dissuadendolo o aumentando gli ostacoli giuridici e pratici al movimento, ben prima che essi raggiungano le frontiere dell’Unione. Come reiterato dal Parlamento Europeo, è necessario che gli strumenti ideati per il supporto allo sviluppo dei Paesi africani non siano confusi con l’esigenza dell’Unione di piegare la curva delle migrazioni irregolari. Difatti, la relazione tra sviluppo e migrazione non è inversa, pertanto al crescere dell’una non decrescerà necessariamente l’altra (come si ritiene comunemente), anzi, secondo alcuni, il maggiore sviluppo può incentivare la volontà di migrare da parte degli individui. La storia europea è in tal senso maestra, indicando che la mobilità all’interno dell’area UE e extra-UE negli ultimi settant’anni non ha subito una decrescita correlata all’incremento del benessere.

Con le attività del EUTF, attraverso la conclusione di intese segrete e opache, di scarsa se non impossibile accessibilità, nonché con la costituzione, la formazione e il finanziamento di autorità pubbliche, come la Guardia costiera libica o la Guardia di frontiera nigerina, l’Unione sta mettendo sul tavolo le proprie priorità strategiche, legate a dibattiti e conflittualità interne fra gli Stati membri (molto spesso anche interne agli stessi Stati). Tuttavia nell’erogazione degli aiuti allo sviluppo – altri sono i criteri che devono essere tenuti in conto, criteri che seguono le linee stabilite all’interno dell’OECD – l’Unione non sta forse facendo pressione su Stati terzi per modulare decisioni di policy tutta interna agli Stati africani? Basti pensare, ad esempio, al rinnovo degli Accordi di Cotonou e alle lunghe negoziazioni in tema di rimpatrio fra Stati ACP e Stati UE.

Perché l’UE dovrebbe credere che dei cittadini di Stati terzi non vorranno o saranno costretti a  spostarsi nel futuro? È stato calcolato che dal 2015 al 2019, l’EUTF ha finanziato per il 26% del totale dei fondi impiegati una governance delle migrazioni, tuttavia solo l’1,5% dei fondi sono stati utilizzati per promuovere una migrazione sicura e regolare. Pertanto, le campagne di sensibilizzazione sui rischi rappresentanti dall’immigrazione irregolare non avranno significato o impatto positivo sulla vita delle persone, senza la previsione – verrebbe da dire, come unica alternativa logica – di canali di migrazione regolare. Dal 2021, i mezzi di cooperazione saranno integrati in un unico Strumento di Vicinato, Cooperazione allo Sviluppo e Cooperazione Internazionale (NDICI), ricondotto all’interno del budget settennale dell’Unione, con un ruolo maggiore del Parlamento Europeo. Come cambierà la cooperazione con l’Africa, quali saranno le priorità dell’Unione e come saranno promossi gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) anche alla luce della crisi sanitaria?

Lungi dal rimanere una questione di sovranità, nel rispetto del principio che stabilisce l’uguaglianza sovrana di tutti gli Stati, nella cooperazione tra i Paesi africani e l’Unione europea il controllo delle frontiere diviene un argomento cardine delle relazioni internazionali e diplomatiche a tal punto da essere integrato in altre politiche estere (come il commercio o la cooperazione allo sviluppo). In questa lunga relazione fra Africa e UE, necessaria e significativa per entrambe, sembra con evidenza che l’ago si sbilanci verso una concezione distorta delle migrazioni: il risultato di rapporti complessi fra Paesi donor e Paesi beneficiari è pagato sulla pelle delle persone.

Nella retorica del nuovo Patto, i cittadini di Paesi terzi perdono il loro diritto “a essere cittadini” rientrando nelle categorie più fluide e di immediata etichettatura, “migranti” o “rifugiati”. Così si dimentica troppo facilmente che sia i migranti che i rifugiati – tranne nel caso minore dell’apolidia – sono sempre cittadini di Paesi terzi, ma spesso non vengono trattati come tali né dall’Unione né dai Paesi terzi che si prestano alla cooperazione, dimenticando aspirazioni, competenze e progetti individuali.

Se le migrazioni sono antiche almeno quanto i primi passi dell’homo erectus, le migrazioni a partire dal continente africano subiscono, nel lavoro quotidiano delle Istituzioni europee, una continua e perdurante mistificazione, cristallizzata nelle politiche e nel diritto delle migrazioni.

Certezze sull'importanza della mobilità all'interno del continente africano sono disponibili da molto tempo. Se una maggiore e migliore migrazione intra-africana è promossa dall'Unione africana – con iniziative come il passaporto africano – i diritti di circolazione, come anche l'esenzione dall’obbligo visto, sono già una realtà (giuridica) in molte sub-regioni africane e negli spazi di libera circolazione come l’ECOWAS. Anche la nozione di confine all'interno del continente africano ha un suo significato peculiare, quello di "legge della permeabilità", di luogo fatto per essere attraversato. Un significato radicalmente opposto a quello di “confine” tra i Paesi europei prima dell’era Schengen (quella stessa area Schengen che viene messa a dura prova dalle cicliche crisi dell’Europa). Senza dimenticare che i confini dei Paesi africani (comparati spesso a tracce di righello) sono convenzioni di origine coloniale, che hanno aggravato, nel corso degli anni, la convivenza interna fra popoli diversi per lingue, tradizioni ed etnie, provocando secessioni e guerre civili che ancora oggi restano ben evidenti.

La visione mistificata e, nella maggior parte dei casi, errata delle migrazioni africane proposta dall'Unione e dai suoi Stati membri si scontra con gli sforzi giuridici sul continente che propongono un ritratto coerente e positivo della mobilità. Quando l'Unione coopera in modo informale (leggasi: privo di forma, quindi opaco) con i Paesi africani, anelando l'immobilità di intere popolazioni, ciò che mette in atto è il tentativo di influenzare la politica dei Paesi africani sulla migrazione e il diritto dei cittadini africani a migrare, non valutando realisticamente l’evidenza di un fenomeno naturale come lo spostamento umano.

Nonostante il proclamato carattere non vincolante e “meramente politico” di questa azione, effetti giuridici si producono sul continente, con conseguenze sostanziali che spaziano dall'introduzione di modifiche nella legislazione interna, al capacity building delle forze dell'ordine, allo scambio di dati personali, alla partecipazione delle autorità a operazioni di rimpatrio senza le relative tutele, e così via.

In dottrina, da molto tempo, è stato concettualizzato, a giusta ragione, il tema dell'esternalizzazione del controllo delle migrazioni, ma raramente si è parlato di "internalizzazione" dei controlli alle frontiere e di altri obblighi da parte dei Paesi terzi. Quando i Paesi africani interagiscono con l'Unione europea tramite gli accordi informali appena citati o con le organizzazioni internazionali finanziate dall'Unione europea e dai suoi Stati membri, il rischio è che a essere avanzata sia la comprensione delle migrazioni africane dell'Unione europea, cioè la necessità della sedentarietà e dell’ottica securitaria che mal si concilia con l’importanza della circolazione nel continente. Le migrazioni Sud-Nord rischiano di affermarsi come l’unica narrativa possibile delle migrazioni africane, quando statisticamente e strategicamente ne costituiscono una parte nettamente minore.

Le pratiche di controllo alle frontiere, la politica dei visti e, più in generale, la cooperazione con i Paesi terzi (le cui prassi sono riconfermate a gran voce nel Nuovo Patto) hanno per effetto l’esclusione di alcuni migranti dai diritti di circolazione, ma anche, in maniera pervasiva, dalle infrastrutture e dalle rotte che permettono la circolazione, rendendola sempre più pericolosa. L’Unione europea li vuole sedentari, “a casa propria”, nei Paesi di origine o di transito così come nelle zone di confine o in mare, ovunque purché lontano.

Considerato lo zelo con cui l’Unione intende affermarsi come paladina dei diritti umani sulla scena internazionale, e visti gli impegni (anch’essi soft) recentemente assunti dagli Stati europei con il Global Compact per le migrazioni, sorprende e rattrista come l’Unione si lasci andare a un’esplicita negazione della migrazione come fenomeno in sé e per sé (vedi supra: l’estratto del Patto). Per la prima volta nella storia delle Nazioni Unite, nella dichiarazione di New York, era stato difatti affermato che “[s]in dai tempi più antichi, l’umanità è sempre stata in movimento” (para 1).

Quella che l’Unione promuove in Africa e nel Sud del mondo non è una migrazione sicura, ordinata e regolare per tutti i migranti né l'idea della mobilità come circolarità che – lo si sottolinea ancora una volta – l'Unione stessa ha realizzato, al suo interno, con la fondamentale libertà di circolazione delle persone. I movimenti Sud-Nord, più che un esercizio di libertà e di autodeterminazione, continuano a essere percepiti come rischi e minacce alla sicurezza, e l’unica contro-proposta immaginata è la sedentarietà.