Sulla sfida dell’integrazione

Pierfrancesco Majorino
Europarlamentare, Co-presidente dell’intergruppo sulla lotta alle povertà

Sull’immigrazione serve un cambiamento enorme in termini di politiche nazionali ed europee.

Penso infatti che si debba avere la capacità di comprendere che a questi livelli le politiche sin qui espresse si sono rivelate da tempo inefficaci.

Mi riferisco in particolare agli ambiti della gestione dei flussi, dei canali legali d’ingresso all’Europa - e dunque ai diversi Stati nazionali - e a quello assai meno dibattuto, ma non certo meno rilevante, dell’integrazione.

Mi soffermo, qui, su questo punto.

Guardandola sul piano italiano non si può non vedere che proprio su questo terreno, e cioè sul terreno di ciò che può garantire l’efficacia dei percorsi di inclusione, non vi sia, né vi sia stato di recente, un “piano” nazionale adeguato.

Dobbiamo, per rintracciare una proposta organica di politiche pubbliche nazionali desiderose di cimentarsi con tale sfida e non “solo” sul fronte del governo degli “arrivi”, compiere un balzo indietro di vent’anni.

Ed arrivare ai tempi in cui nasceva la Legge Turco-Napolitano.

Ammettiamolo: dopo quei primi tentativi fatti non si è visto più nulla di realmente degno di nota.

(Tentativi la cui genuinità era peraltro confermata alla radice, dal dato, non banale anche se oggi non sufficientemente valutato, riguardante proprio la gemmazione di una legge che nasceva nel contesto del Dipartimento degli Affari sociali della Presidenza del Consiglio e non solo in seno al Ministero dell’Interno).

Ora, dunque, quel che serve è un piano nazionale che tenti di percorrere i sentieri connessi all’integrazione e che si traduca innanzitutto in azioni ambiziose e concretamente percepibili.

Penso a programmi organici per l’apprendimento della lingua italiana, per l’approccio al mercato del lavoro - anche con l’obiettivo dichiarato di contrastare forme di sfruttamento a basso costo della mano d’opera d’origine straniera, forme che alimentano lesione dei diritti e concorrenza sleale -, per la relazione con servizi riguardanti i percorsi di regolarizzazione, per l’accompagnamento all’accesso al sistema sociosanitario nazionale e regionale, per la costruzione di legami con famiglie d’origine straniera apparentemente impermeabili e autoreferenziali (e ci sono, e il problema esiste).

Programmi efficaci se coinvolgono pienamente la scuola (un veicolo ancora non adeguatamente sfruttato) e le realtà e gli enti locali, i quali dovrebbero diventare le vere porte d’accesso per i migranti al contesto di comunità (cosa giustifica, ad esempio, il fatto che per accedere al permesso di soggiorno il migrante debba relazionarsi con l’ufficio stranieri della questura e non con l’ufficio anagrafe di un Comune? Confesso di non averlo mai capito).

Ovviamente tutto ciò prevede a monte una scelta di campo: la si deve smettere di vivere l’immigrazione come un “danno” da ridurre, un pericolo da contenere.

La spirale del timore, ovviamente, alimenta l’incertezza, fa crescere separazione e distanza.

È l’eterno convitato di pietra, quando si affronta un tema simile.

Tutto questo lo affermo consapevole che uno sforzo del genere non risulti né facile né particolarmente popolare agli occhi di molti.

Tuttavia, ancora più di prima, ancora più evidentemente rispetto agli anni che hanno preceduto l’enorme cesura costituita dalla pandemia, son convinto del fatto che quello della società aperta non sia un traguardo magicamente raggiungibile, una sorta di punto d’arrivo connesso all’ineluttabilità del “migrare”.

Esso richiede una cornice di politiche pubbliche che accompagnino i soggetti e che, pure, sostengano percorsi di mediazione (alcune cose buone, per fortuna, in questa direzione le hanno fatte proprio i Comuni, penso al Comune di Milano, ma non solo).

Perché, ancora, c’è bisogno di questo: di mediazione e capacità di mettersi nel mezzo tra una popolazione tradizionalmente residente che si è spesso impoverita e dove è cresciuta l’incertezza per il domani (non solo per ragioni materiali) e una pluralità di persone portatrici di biografie e modi di essere tra loro estremamente differenti.

E’ chiaro che si è al cospetto di un tentativo che si deve compiere pure a livello europeo.

Dove in questi anni stanno vincendo l’impaccio e l’incapacità alla cooperazione, ad esempio nella gestione proprio dei “flussi” tra gli Stati e dove, purtroppo, nemmeno la stessa Commissione Europea, tanto coraggiosa rispetto ad altri dossier, sta esprimendo spirito innovativo (alludo in particolare al recente “Patto per l’immigrazione” che ricalca sul piano della filosofia la logica della gestione del fenomeno attraverso gli strumenti dei respingimenti e che si configura, ad oggi, come un’enorme occasione persa).

Quella dell’integrazione è allora una sfida difficile e maledettamente affascinante, poiché contiene la necessità di incrociare abitudini consolidate, modi di essere, stili di vita, appartenenze culturali e religiose (guai a ignorarlo) con strumenti e politiche che smussino gli angoli, rassicurino gli impauriti (guai a non riconoscere il diritto ad avere paura rispetto a quel che cambia) e favoriscano l’entrare in relazione con l’altro da sé.

E’ una sfida, ripeto, che poi ha bisogno come il pane di veder rimossi ostacoli dati dall’efficacia della peggiore parte della politica nel cavalcare le inquietudini e, per l’appunto, i timori, consolidando il rancore.

In altre parole, la “coesione” cresce se si affrontano alcune cause capaci di alimentare l’insicurezza.

Per farla breve, e dunque un poco spiccia: quel che va rotta - proprio per favorire la piena integrazione e sconfiggere la paura verso la diversità - è l’alleanza materializzatasi nei fatti tra chi promuove una sorta di suprematismo casereccio e razzista, pure da noi, in Italia e in Europa, ed una parte di popolazione economicamente e socialmente debole che ha l’impressione di essere stata “lasciata sola” o addirittura tradita dal pensiero progressista, democratico, “repubblicano”.

Vengo ad un esempio che mi è caro.

Guardiamo al contesto delle case popolari.

A quel che determina l’accesso all’edilizia residenziale pubblica.

In questi anni è stato ampiamente raccontato il conflitto che si determina nei quartieri delle nostre città, laddove una famiglia d’origine “straniera” diventi assegnataria di un appartamento, superando in graduatoria una famiglia d’origine italiana.

La cosa si verifica magari per una ragione semplicissima: il nucleo d’origine “straniera” è composto da un numero maggiore di figli minori, il ché spesso porta al concretizzarsi di un punteggio più alto.

Attorno a quelle famiglie, e a quell’appartamento, si determina un conflitto evidentissimo.

Dubito che lo si possa trattare - e che si possa continuare a farlo - spiegando pedagogicamente dall’alto quanto sia giusto rispettare le regole e quanto sia gradevole la società del pluralismo etnico.

Propongo un’altra strada: avere più case.

Ora immagino l’obiezione, la conosco a memoria.

Sta nel fatto che così la farei facile. Invece la faccio proprio difficile.

E mi spingo a dire che la piena integrazione non si verificherà agevolmente nella società della paura.

E che finché non si incrocerà questo aspetto con quello della lotta alle diseguaglianze e ai processi di precarizzazione e impoverimento si opererà senza entrare dentro quel che, animando i conflitti, produce nuovi ghetti e nuove separazioni.

Peraltro, poi, mi confesso: credo che quello di garantire l’accesso a tutte e a tutti alla casa, alla salute, all’istruzione, al lavoro, debba essere un obiettivo cruciale in “sé”, un obiettivo che non conosce neppure secondi fini.

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Pierfrancesco Majorino è l’autore con Aldo Bonomi del saggio “Nel labirinto delle paure” ed Bollati Boringhieri, nel quale ha trattato diffusamente il tema qui affrontato

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi