Giovani con background migratorio e processi di riconoscimento

Francesca Lagomarsino
Docente di Sociologia , Università di Genova

L’articolo di Giuseppina Tuminelli presenta alcune riflessioni su cui da tempo sto lavorando e che mi piacerebbe qui riprendere a partire proprio dalla domanda iniziale che la collega pone nel suo intervento. Qual è il rapporto tra seconde generazioni e integrazione?

    Le analisi sulla presenza delle seconde generazioni in Italia non sono ovviamente un fatto nuovo nel panorama accademico e nel dibattito pubblico, poiché da anni sono molte le discipline che si sono focalizzate su questo tema. Tuttavia, il proseguire dei processi di arrivo, inserimento e nascita di nuove generazioni e nuove famiglie implica continui percorsi di riflessione e di analisi critica. Ciò è quanto mai necessario nell’attuale contesto sociale in cui assistiamo a processi di ipersemplificazione delle questioni migratorie, sempre più presentate, dai media e da molte parti politiche, come questioni banali e immediate per le quali bastano risposte facili e preconfezionate. Anche gli accesi dibattiti che nel corso degli anni si sono avvicendati sulla modificazione della legge di cittadinanza e tutta la querelle sullo jus soli e jus culturae in antitesi allo jus sanguinis, tendono a riproporre categorie rigide e a volte banalizzanti in cui molti aspetti vengono dati per scontati e naturalizzati. Come sintetizza Grillo (2003:158), prende sempre più campo una sorta di “cultural anxiety”: «Né l’essenzialismo culturale né l’ansia culturale sono fenomeni nuovi […] ma ora sembrano onnipresenti e prendono forme diverse permeando in Europa la retorica politica e mediatica contemporanea».

Parlare di seconde generazioni richiede però una cautela semantica e concettuale. Da un lato è importante ragionare sui processi che portano le seconde e successive generazioni a diventare membri della società ricevente e su come si articolano i processi di socializzazione; dall’altro lato è in agguato il rischio di reificare categorie che sempre più vengono messe in discussione in quanto possono diventare etichette rigide che impongono identità ipersemplificate. Già nel 2006 Queirolo Palmas rifletteva sull’uso e sul significato delle definizioni usate: “seconde generazioni, figli di immigrati, minori stranieri, studenti di gruppi etnici minoritari, quale che sia la denominazione utilizzata non risulterà difficile provarne il carattere riduttivo e spesso fuorviante. Riduttivo perché riduce una biografia ad un’origine e fuorviante perché rimuove le modalità dei soggetti di definirsi liberamente, giocando tra i molti appigli identitari e simbolici in uno spazio fluido e irreversibile” (pag. 17). L’uso della categoria seconda generazione ci serve quindi come frame per parlare di soggetti che hanno alle spalle una specifica condizione migratoria, personale o legata al percorso di vita dei genitori, che in qualche modo ha influenzato o influenza le loro storie di vita, senza che questa categoria diventi una forma definitoria esclusiva delle identità di questi ragazzi. Quando usiamo il termine seconda generazione, infatti, facciamo immediatamente riferimento ad un’esperienza migratoria di qualcuno che spesso non ha vissuto lo spostamento ed il più delle volte è stato socializzato, totalmente o in parte, nel paese di arrivo. Come fa osservare Sayad (2002: 382): “I figli degli immigrati sono una sorta di ibridi […] sono degli “immigrati” che non sono emigrati da alcun luogo. A dispetto della designazione questi “immigrati” non sono degli immigrati come gli altri, cioè degli stranieri nel pieno senso del termine. Non sono stranieri dal punto di vista culturale, poiché sono prodotti integrati della società e dei suoi meccanismi di riproduzione e di integrazione”. Il rischio è quello di contribuire a proiettare un’alterità etnica essenzializzata, costruita dal discorso dominante che vede una continua contrapposizione tra “noi” e “loro”, i nazionali e gli immigrati, i cittadini e gli “ospiti”. Anche per coloro che hanno ottenuto la cittadinanza del paese di immigrazione permane spesso la scissione tra la condizione legale di cittadino e quella di non-cittadino a pieno titolo in quanto percepito come non appartenente alla comunità culturale (Garcia Borrego 2003). In questo senso il termine “seconda generazione” che di per sé potrebbe apparire neutro, un’ingenua e comoda etichetta, rischia invece di veicolare uno specifico pensiero categorizzante che rimanda all’idea di una trasmissione genetica delle culture di origine, considerate come monoliti che vengono passate di padre in figlio attraverso i legami di sangue (Grillo 2003; Gilroy 1987).

Questo aspetto ci sembra importante da sottolineare perché, nonostante prevalga un discorso pubblico che tende a cristallizzare le culture, la ricerca si è da tempo orientata verso approcci che mirano a de-essenzializzare la differenza e obbligano a ripensare le categorie tradizionali. Anche mettendo in discussione la categoria stessa di “integrazione” e ponendo l’accento sulle pratiche e sulle interazioni della vita quotidiana (Penninx e Martiniello 2007; Colombo e Semi 2007; Castellani 2014; Ricucci 2015) riguardanti tutti i soggetti coinvolti, senza distinzione noi/loro. A questo proposito, un recente studio svolto a Genova (Lagomarsino, Erminio 2019) ha cercato di analizzare la condizione dei giovani, con e senza background migratorio, a partire dai tratti comuni e dalle reciproche esperienze all’interno delle scuole, indipendentemente dalle nazionalità di provenienza. E’ in primis nel contesto scolastico, infatti, che l’origine migratoria si perde in una miriade di tratti che si intersecano e segnano i confini delle somiglianze e delle differenze.

A proposito di identità

Uno dei temi centrali che ha accompagnato le riflessioni della letteratura sulle seconde generazioni è quello della formazione dell’identità. Questo tema è ampiamente analizzato e dibattuto nella ricerca sociologica, che ha messo in risalto la complessità del processo di costruzione identitaria in una fase di vita delicata come quella adolescenziale (che riguarda tutti i ragazzi indipendentemente dalla nazionalità di origine). Tale complessità si amplifica per i figli degli immigrati, che si suppone debbano coniugare gli aspetti culturali del contesto di origine (sia intesi come cultura del paese di origine sia orientamenti specifici del contesto familiare) con quelli del paese di immigrazione (Ambrosini, Molina 2004; Bertozzi 2003; Besozzi Colombo, Santagati 2009; Orioles 2015).

Tuttavia, anche in queste analisi si intravede il rischio che le due culture di riferimento vengano nuovamente descritte come due realtà statiche e nettamente separate, che possono entrare più o meno in contatto e in relazione. Per contro è indubbio che per i ragazzi arrivati in Italia dopo aver vissuto un periodo più o meno lungo nel paese di origine  (Lagomarsino 2006, 2010) oppure per chi sperimenta modelli di riferimento familiare (valori, norme, modelli di comportamento…) contrastanti rispetto a quelli proposti nel contesto scolastico, può essere complesso coniugare i differenti elementi e i differenti modelli proposti. Da un lato non bisogna dimenticare che il riferimento ai tratti etnici o al paese di origine può essere uno degli elementi che i soggetti hanno a disposizione per definirsi, benché non sia l’unico; dall’altro gli esiti di questi processi di costruzione identitaria dipendono da molteplici fattori legati alle diverse esperienze di vita, alle persone incontrate, al tipo di supporto familiare, al contesto economico, sociale e anche legislativo in cui ci si trova a vivere. L’insieme di queste variabili spiega così le differenze dei percorsi e degli approdi in un caleidoscopio di situazioni che possono portare ad esiti molto differenti (Lagomarsino, Ravecca 2014; Caneva 2011; Santagati 2019; Lagomarsino, Erminio 2019).

Al tempo stesso non possiamo dimenticare che la costruzione dell’identità è un processo che si nutre di una dimensione collettiva in cui il riconoscimento dell’altro è un momento fondamentale, così come l’appartenenza a uno e/o più gruppi di riferimento: «l’identità possiede, quale caratteristica fondamentale, la relazionalità, in quanto non è un attributo immediato del soggetto, bensì il risultato di un processo che nasce e si sviluppa socialmente: essa si costruisce all’interno di una relazione di reciprocità tra sistema psichico e sistema sociale ma al contempo l’identità del soggetto inizia a costruire una distanza con la realtà esterna» (Besozzi 2017: 159).

La riflessione sull’identità, e ancor più sull’identità etnica, non può quindi prescindere dalla sua dimensione relazionale; l’identità non è un costrutto monolitico trasferito dai genitori ai figli solo in virtù di una comune ascendenza, ma nasce e si sviluppa in un preciso contesto temporale, storico e culturale. Non possiamo non pensare che i migranti vengono descritti, all’interno di un predominante discorso nazionalista delle società di arrivo, come “minoranze etniche”, come soggetti in qualche modo “in debito” che devono integrarsi diventando il più presto possibile nativi.

Come sostiene Sayad (2002; 2008) i figli dei migranti possono essere definiti come una posterità inopportuna, poiché rompono il mito della temporalità della migrazione e mettono in discussione il ruolo del migrante come l’invitato buono, neutrale e silenzioso, che si deve meritare di vivere nel paese di arrivo. Diventa quindi imprescindibile focalizzarsi su come un soggetto, a seconda delle circostanze e delle relazioni in cui si trova coinvolto, mette in risalto e fa emergere un aspetto identitario più di altri, con il rischio connesso che «il confine più direttamente e facilmente disponibile ai giovani stranieri per definire la propria identità è quello etnico […] l’uso degli attributi etnici per distinguersi dagli altri non è tuttavia solo il frutto di una scelta consapevole degli individui ma dipende anche dalle definizioni date dall’esterno, dalla percezione o dalla reale discriminazione che i soggetti vivono quotidianamente (Caneva 2011, 76)».

Negli anni passati il dibattito si è molto focalizzato sul passaggio da definizioni negative e in difetto – giovani potenzialmente devianti, sospesi tra due mondi, ancorati alle culture di origine e perennemente stranieri, seconde generazioni escluse e marginalizzate nei ghetti delle periferie – a definizioni che sottolineavano l’importanza del métissage e di come questi giovani fossero esempi di ibridazione e rielaborazione critica di appartenenze, quasi paradigmi esemplari di un modello di ibridazione desiderato e desiderabile. In queste analisi, talvolta si è persa di vista la dimensione della “normalità dei percorsi di vita”, ciò che i ragazzi rivendicano come la non eccezionalità del loro vite e del loro essere.

Una chiave di lettura originale e poco usata nelle riflessioni sulle seconde generazioni è allora quella del diritto all’indifferenza (Delgado 2007), concetto che capovolge quello su cui la letteratura si è invece più focalizzata e cioè il diritto alla differenza, al rivendicare le proprie specificità in antitesi ad una logica assimilazionista. L’analisi proposta da Delgado permette di usare invece una linea interpretativa molto efficace: “Tutte queste persone a cui si applica il marchio di “etnico “ o “immigrato”  sono sistematicamente obbligate a dare spiegazioni, a giustificare ciò che fanno, pensano, quali sono i rituali che seguono, cosa mangiano, com’è la loro sessualità, che sentimenti religiosi hanno o qual è la visione che hanno dell’universo, dati e informazioni che noi, “i normali”, ci rifiuteremmo in toto di dare a chi non fosse parte di un nucleo molto ristretto di persone a noi vicine. Invece, l’“altro” etnico o culturale e chi viene chiamato “immigrato” non ha questo diritto. Essi devono farsi “comprendere”, “tollerare”, “integrare”, farsi perdonare di non essere come gli altri, come se noi altri non fossimo ugualmente distinti, eterogenei, esotici, espressione dei costumi più stravaganti. […] Questo è l’atto primordiale del razzismo dei giorni nostri: negare a certe persone definite come “differenti” la possibilità di passare inosservate, di obbligarle a esibire ciò che gli altri possono tenere nascosto o dissimulato” (Delgado 2007 :192).

Ossia dobbiamo forse uscire dalla logica classificatoria e dalla necessità delle società riceventi di fissare dei confini chiari tra chi fa parte della nostra comunità nazionale e chi non ne fa parte, tra chi è dentro e chi è fuori (Castellani 2014; Dal Lago 1999) e capovolgere invece i termini del discorso fissando lo sguardo su altri elementi che non siano in primis il paese di origine dei genitori ma piuttosto su come leggere oggi una società che è già al di là della distinzione noi/loro e di cui le nuove generazioni sono l’esempio più evidente.

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Bibliografia

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Sayad A., (2008). L' immigrazione o i paradossi dell'alterità. L'illusione del provvisorio. Verona: Ombre Corte

 

 

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi