Frammentazioni insostenibili // Separati in casa?

Vittorio Cogliati Dezza
Forum Disuguaglianze Diversità

Le sollecitazioni che vengono dall’intervento di Sebastiano Ceschi sono un’ottima occasione per esplorare dinamiche in rapida evoluzione e che non sopportano letture accomodanti o tradizionali. A pena di non riuscire a capire in quali processi siamo collocati.

Il mio punto di vista è parziale, non pretende alcuna esaustività, parte da un osservatorio specifico: il territorio, che mi suggerisce qualche spunto. Visto da un ambientalista di Legambiente.

La prima cosa di cui mi sono reso conto, quando mi sono avvicinato al dramma delle migrazioni (Lampedusa 2012), era che l’approccio solidaristico e valoriale, per quanto indispensabile, non era sufficiente e che, dopo la prima accoglienza, era indispensabile capire cosa sarebbe successo nei rapporti tra le persone nei territori. E che i nodi da sciogliere nella seconda accoglienza non si sarebbero esauriti con una gestione corretta e dignitosa, perché ad essere coinvolto è l’intero sistema sociale e territoriale del Paese.

La ragione sta nel fatto che prima di essere cittadini, stranieri, ospiti, beneficiari, la presenza dei migranti ci dice su di noi che siamo tutti abitanti di un territorio su cui è insediata, consapevolmente o meno, una comunità, con pari responsabilità, nell’uso e nella cura dell’ambiente, delle relazioni, dei servizi, delle emergenze, anche se diversificati per accesso a diritti e garanzie. E o viviamo da “separati in casa” o cooperiamo e costruiamo comunità e nuove identità, che non sono date dal luogo di nascita. Già qualche tempo fa Cicerone sottolineava che “tutti abbiamo due patrie, una quella naturale, l'altra quella giuridica; così noi consideriamo patria sia quella in cui siamo nati, sia quella da cui fummo accolti” (De Legibus, libro 2, par.5). E la comunità si costruisce insieme, attraverso la cura di relazioni orizzontali di prossimità, come drammaticamente il COVID-19 ci ha ricordato in questo anno.

In un territorio, poi, convivono (magari da separati in casa) e confliggono diversi livelli di fragilità, individuali e collettive, sociali e culturali o ambientali. E qui sta il secondo insegnamento. Le fragilità delle persone rendono fragile una comunità. Un territorio con fragilità è più fragile per tutti.

Per due ragioni.

Perché chi vive in condizioni di fragilità economica o esistenziale non ha energie da dedicare alla collettività, egli stesso diviene fattore di accelerazione delle tensioni individualistiche che accelerano la crisi della coesione sociale perché è costretto, volente o nolente, a dare priorità alla propria sopravvivenza. È quanto è successo in questi anni nelle periferie urbane e territoriali con la crescita esponenziale delle disuguaglianze, nelle diverse forme in cui si sono dispiegate: generazionali e di genere, territoriali e culturali, sociali ed economiche. Provocando il moltiplicarsi di conflitti tra gli ultimi e i penultimi. Con i migranti spesso parte in causa su cui scaricare rabbia e insicurezze sociali.

La seconda ragione sta nel fatto che più fragilità e livelli di fragilità esistono in un territorio, più la comunità di quel territorio è frammentata, meno coesa nella cura e valorizzazione della ricchezza comune (v. Forum Disuguaglianze e Diversità), meno resiliente di fronte ai cambiamenti e alle emergenze, perché dispersa e segregata in isole incomunicabili, frutto della moltiplicazione dei confini, visibili e invisibili, tra aree urbane e aree interne, tra periferie e centro benestante e, dentro lo stesso territorio, tra stili di vita, accesso a diritti e servizi, gruppi nazionali, culture. Confini e separazioni che creano paure, rancori e nuove segregazioni, come quella scolastica a cui abbiamo assistito in questi anni: italiani con italiani, stranieri con stranieri. La fragilità degli immigrati nei nostri territori ha messo in luce una fragilità preesistente di comunità gravate da ingiustizie sociali e ambientali, già frammentate in compartimenti stagni. Ed oggi pone l’urgenza di un cambio di passo: collocare le politiche migratorie dentro nuove politiche pubbliche di contrasto alle disuguaglianze (v. qualche spunto nel progetto europeo Involve, promosso in Italia da Legambiente), superando la nefasta collocazione nelle competenze del Ministero dell’Interno.

Un altro insegnamento che ci viene dall’esperienza di questi anni è che anche nei processi sociali e demografici, come in politica, il vuoto non esiste. Se un Paese lascia intere aree prive di investimento ideale e socio-economico, come ad esempio accaduto con le aree interne, comunque ci sarà qualcuno disposto ad abitarle. È quello che è successo con i migranti, insediati (con progetti SPRAR e CAS) nei piccoli comuni, dove hanno rappresentato una possibilità di “ripartenza” per molti territori, con l’arrivo di giovani, famiglie, bambini: una salvezza per molti piccoli comuni. A quale costo? Quello dell’unica politica keynesiana che l’Italia è stata capace di mettere in campo in questi decenni di politiche liberiste. Con un investimento minimo si era lanciata una politica pubblica, che era riuscita a trasformare l’immigrazione in un potente fattore di rinascita di territori demograficamente ed economicamente depressi (v. Dossier Legambiente L’accoglienza che fa bene all’Italia).

La condizione del migrante, quindi, è anche la nostra, non tanto perché siamo tutti esposti alla crisi ecologica e climatica, alla emergenza Covid-19, alla crisi economica (basta vedere la crescita degli italiani in povertà), ma soprattutto perché oggi abbiamo tutti bisogno, con maggior o minor intensità a seconda dello scalino sociale che occupiamo (ultimi, penultimi, vulnerabili, …), di politiche pubbliche che contrastino le disuguaglianze a livello pre-distributivo (v. Forum DD 15 proposte per la giustizia sociale), invertendo la deriva di questi anni e collocando al centro della speranza collettiva la transizione verso una maggior giustizia ambientale e sociale. Ed è preoccupante che l’Unione Europea - che ha avuto il grande pregio con il programma Next Generation EU di individuare il percorso e di affidare alla transizione ecologica e all’innovazione digitale la guida di un processo che potrà risollevare le sorti dei cittadini europei solo se sarà inclusivo, ovvero valido per tutte e tutti - abbia programmaticamente escluso dal suo orizzonte di giusta transizione proprio la questione dei migranti. Anzi, con il Patto per le migrazioni e l’asilo si sta muovendo come se nulla fosse cambiato in questo anno!

Il COVID-19 ci dice ogni giorno quanto siano indispensabili le politiche pubbliche e ci ha fatto anche capire  quanto costa non prevenire e lasciare che le scelte su alcuni beni sociali, come la sanità (ma lo stesso è per la scuola, la sicurezza ambientale, il clima, ecc.) vengano fatte dai grandi player privati, di fronte ai quali lo Stato è ormai disarmato (la dinamica dei vaccini docet!!). Ci dice che prevenire non è una concessione per i Paesi con la pancia piena, ma una necessità per tutti, e lo stesso vale per l’immigrazione, che non è una concessione al buonismo, ma un investimento pubblico, in qualche modo “egoistico”, che rida speranza al futuro in comunità invecchiate, che hanno bisogno di linfa ed energia. Che i migranti si collochino al gradino più basso, tra imbarbarimento del linguaggio, violenza razzista, schiavismo e furto di diritti, non rimane confinato lì, è un’epidemia che si diffonde in tutta la società e ci rende tutti più fragili e insicuri.

Se fossimo davvero egoisti conseguenti dovremmo investire nell’integrazione dei migranti!!!

26 Gennaio 2021
di
Sebastiano Ceschi