Una strategia possibile per l’integrazione dei Balcani occidentali

Stefania Craxi
Senatrice della Repubblica, Vicepresidente Commissione Esteri

È proprio vero. Nonostante il trascorrere degli anni il vecchio adagio di Winston Churchill è destinato, oggi e in futuro, a rinnovare le sue ragioni. I Balcani consumano molta più storia di quanta ne producano, con i prossimi anni che si confermano decisivi per sancire un sostanziale passo in avanti di questa regione, o più propriamente della sua parte occidentale, verso una più ampia e piena prospettiva di integrazione comunitaria o il suo definitivo distacco.

A guardare gli eventi, dichiarazioni d’intenti a parte, c’è ben poco da essere ottimisti. L’Europa ha perso tempo e terreno nella Regione, lasciando spazio e margini di manovra ai nuovi player internazionali. L’insipienza politica e la competizione tra gli Stati europei sono stati inversamente proporzionali all’impegno profuso da Cina, Russia e Turchia nel conquistare porzioni di influenza in un’area che, nei rispettivi disegni, assume una centralità e un interesse strategico. Sono proprio i conflitti interni all’Unione, che continua a dimostrare i limiti di una costruzione fallace e incompiuta, in un gioco tutto politico di veti e di scambi al ribasso, la barriera più ardua da superare per la definizione di una “strategia europea” che, all’interno di una visione geopolitica complessiva, possa far convivere i diversi interessi nazionali e le diverse prospettive esistenti che hanno nel corso di questi anni condizionato l’allargamento verso la penisola balcanica. Ma il tema, anche qui e ancora una volta, interessa la capacità stessa dell’Unione di correggere le sue zoppie, tanto economiche che democratiche, e trasformarsi consapevolmente, al di là delle formule e delle retoriche, in una “comunità di destino” in grado di elaborare visioni e strategie complessive e rappresentative degli interessi dei suoi popoli e della sue nazioni che non possono essere cancellati e di cui bisogna tener conto.

Di certo, nel frattempo, è poco utile negare o far finta di ignorare l’esistenza di un conflitto strutturale tra i principali attori europei nel quadrante balcanico, che trova le sue origini già nei primi anni Novanta, all’inizio della disgregazione di quella che fu la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (allora, seguire Berlino non si rivelò una scelta saggia), poiché negare l’esistenza dei problemi, la difformità di visioni e di giudizio, è tutt’altro che funzionale a trovare soluzioni utili in grado di sbloccare un’impasse che va oltre le mere congiunture del momento. Affinché il processo di adesione dei Paesi dell’area possa riprendere il suo cammino e si possa realizzare, vi devono essere degli imperativi e delle contingenze politiche condivise dalle realtà europee che, allo stato, non sono presenti.

La penisola balcanica è terra di competizione prima che di cooperazione tra gli stessi paesi europei, vale a dire tra Italia, Germania e Francia. Una competizione, più o meno ragionevole, che è figlia di iniziative intergovernative che si accavallano l’una con l’altra e che generano confusione e paralisi. È sufficiente, infatti, richiamare alla mente quanto frastagliato sia il quadro di attori e piattaforme istituzionali e internazionali che nel corso del tempo hanno operato nell’area balcanica, per rendersi conto di quante diverse prospettive abbiano coesistito e coesistano tutt’oggi: il QUINT, quintetto inclusivo di potenze occidentali (Usa, Italia, Germania, Francia e Regno Unito) in cui prevale una visione politica di insieme della regione relativa alle questioni di pace e sicurezza; l’apparato dell’Unione Europea, impegnato in una strategia di allargamento e adesione; il cosiddetto “Processo di Berlino” (guidato dalla Germania) e la più antica e solida “Iniziativa Centro Europea”, evoluzione della “Quadrilaterale” sorta nel novembre 1989 su impulso dell’allora Governo italiano e promossa con lungimiranza dal Ministro degli Affari esteri, Gianni De Michelis. Uno scenario che mette bene in evidenza come vi sia una chiara competizione intra-UE, prima ancora che con partner internazionali quali Russia e Cina, che si basa sulla ricerca di opportunità commerciali e di investimento che la regione dei Balcani occidentali offre ai diversi attori comunitari, anche in virtù della sua particolare collocazione geografica. Nel 2016 gli scambi complessivi tra i paesi UE e quelli dei Balcani occidentali ammontavano a oltre 43 miliardi di euro, con un incremento dell’80 per cento in meno di un decennio. Si tratta di interessi concreti, tangibili, che spesso restano in secondo piano rispetto ai grandi piani strategici proclamati nelle dichiarazioni ufficiali del Consiglio e della Commissione Europea, con il risultato di accrescere il capabiliy-expectations gap dell’UE, ovvero la distanza tra aspettative e capacità reali.

Continuare a dipingere l’Unione come un attore internazionale secondo competenze che di fatto non possiede e che nessuno - men che meno il presunto fronte europeista del Nord - intende assegnarli, non può portare a nulla di buono. Anzi, il rischio è quello di creare un sovrappiù di scettiscismo verso l’azione comunitaria nella Regione, senza contare che il tema dell’allargamento balcanico, brandito come una clava nello scontro tra i diversi Stati membri, non fa che accrescere le diffidenze e le ostilità nelle opinioni pubbliche delle diverse realtà nazionali e verso quei paesi balcanici che mantengono salda, nonostante tutto, una prospettiva di integrazione europea, producendo così una sorta di effetto boomerang tanto sul piano interno che esterno.

Infatti, al netto delle difficoltà intra-europee, l’UE rischia di veder capitolare la sua forza attrattiva e la capacità di rappresentare un valore aggiunto per i paesi della Regione e, soprattutto, si presenta del tutto impreparata ad una competizione, tanto politica che economica, con i nuovi attori internazionali che si muovono nell’area.

Pertanto, la nuova strategia per i negoziati di allargamento adottata nel febbraio del 2020 dalla Commissione europea, sul modello “proposto” dalla Francia, e che rappresenta la contropartita per aprire i negoziati con Albania e Macedonia del Nord, formalizzata nel Consiglio europeo del 26 marzo scorso - candidature che vanno ad aggiungersi a quelle di Montenegro e Serbia - rischia di riproporre paradossalmente una nuova e già conosciuta situazione di stallo. Il maggior coinvolgimento del Consiglio Europeo, e quindi degli Stati membri, sebbene giusto e condivisibile in linea di principio, porterà, in assenza di una nuova visione prima e di una mediazione politica dopo, al riemergere di vecchi conflitti e di una nuova ma non inedita paralisi.

Non c’è però alcun dubbio che l’allargamento ai Balcani occidentali richieda un cambio di passo deciso, ma questo non passa attraverso la costruzione di nuovi e astrusi bizantinismi burocratici, né tantomeno può scaturire da prove di forza all’interno dell’Unione. Dobbiamo comprendere, in un bagno di realismo e mondandoci da retoriche magniloquenti, che l’elemento cardine è dato dalla rappresentazione plastica dei vantaggi economici e degli eventuali danni che deriverebbero per ciascun Stato membro da una prospettiva di formale e completa integrazione della Regione o meno.

Serve pertanto modificare l’approccio esistente, un pericoloso mix tra retorica e moralismi che, in assenza di una correzione di rotta, non farà altro che consegnare la prospettiva balcanica ad un mero scambio franco-tedesco, che rischia di marginalizzare, con tutti i rischi del caso, la leadership politica che, sin negli anni della Guerra Fredda, è stata da sempre riconosciuta all’Italia nei Balcani. Non è un mistero che il futuro della Regione sia per il nostro Paese un’indiscutibile priorità nazionale e che, con coerenza e in sintonia con le scelte europee, l’Italia ha da sempre favorito -  con ogni governo e maggioranza - la più ampia integrazione nell’Unione dei Paesi dell’area.

Ma, in attesa che l’Europa riesca a definire una strategia complessiva e di lungo periodo, l’Italia farebbe bene a definirne una sua, elaborando una “agenda per i Balcani” che definisca il perimetro delle nostre priorità e dei nostri interessi nazionali, in grado sia di rappresentare una base di discussione - o più prosaicamente di contrattazione - sui tavoli comunitari, che di mantenere e rafforzare la nostra presenza politica ed economica nella Regione.

I problemi dell’allargamento balcanico sono pertanto “politici” prima ancora che “burocratici”, con i secondi che, spesso, discendono dai primi, ma che non di rado testimoniano il prevalere contrastante della pratica sulla ragione. L’Europa deve dimostrare nei processi negoziali lungimiranza e saggezza politica. Bruxelles deve dismettere la sua logica autoreferenziale e quella delle sue strutture burocratiche che vogliono controllare non solo i processi di adesione ma anche la politica interna di Paesi che, per giunta, non sono ancora membri dell’Unione. Prendiamo il caso della Serbia – tra i paesi chiave per l’Italia e l’Europa nella regione - e i negoziati, di fatto congelati, che riguardano la sua adesione. Belgrado, essendo sub iudice la sua adesione all’Unione Europea e comunque temporalmente molto lontana, ha nel frattempo imbastito una serie di intese economiche internazionali con criteri non conformi alle direttive comunitarie. Ma se la Cina mette sul piatto i finanziamenti necessari per la realizzazione della ferrovia veloce Belgrado-Budapest, se gli Emirati Arabi Uniti investono 5 miliardi di dollari per fare, sulle rive della Sava a Belgrado, una sorta di cittadella, perché mai queste realtà, in questo frangente, dovrebbero rinunciare a tali opportunità? È razionale che da Bruxelles si eccepisca che le gare non si fanno secondo le direttive europee nel mentre non diamo loro nulla in cambio, neanche la certezza di una data entro cui concludere i negoziati? Come possiamo competere nella regione e come possiamo rappresentare un modello attrattivo? È evidente che la burocrazia, in questi come in altri casi, non può essere sganciata da una logica visione politica e da una correlata azione politica, in grado di sottrarre i paesi all’offensiva economica e commerciale e all’influenza di taluni player internazionali. L’Europa, la sua azione nei Balcani, deve trovare nella ragionevolezza la sua bussola, deve far perno su realtà come quella serba, superando alla radice anche il conflitto intra-europeo tra pro-croati e pro-serbi che accompagna le dinamiche regionali dal collasso della Jugoslavia in poi, passando per una stagione tragica e sanguinolenta di guerre, tensioni e conflitti di vario genere e natura (territoriali, religiosi, ecc..) che riemergono con tutta la loro forza e la loro pericolosità.

È però altrettanto fondamentale che la UE si ponga, unitamente al tema dell’allargamento, anche quello della completa stabilizzazione della penisola balcanica. Permangono, infatti, molte aree di instabilità e di conflitto, molti nodi e molte questioni irrisolte all’interno delle quali si generano e si inseriscono fattori in grado di destabilizzare e minare la sicurezza dell’Europa. Accanto al tema più tradizionale della criminalità organizzata, che con gli anni abbiamo imparato a conoscere e affrontare, la regione assume una centralità per le sorti europee almeno per altri due fenomeni più recenti. Primo, quello dei flussi migratori incontrollati, con una “rotta” diretta al cuore dell’Europa che, presenti a ondate variabili influenzate dalle “scelte” della Turchia, ha messo in ginocchio paesi come la Macedonia, la Serbia e le stesse Croazia e Slovenia. È un “rubinetto” regolato in un mix tra cinismo e opportunismo da Ankara che, tanto l’Europa che le realtà balcaniche, non possono consentire e sopportare. Secondo, c’è il tema del terrorismo islamico. Nei Balcani occidentali il fenomeno è in aumento e riguarda i cittadini di quei paesi che si sono radicalizzati e che fanno ritorno, proprio attraverso la “rotta balcanica”, da realtà calde del Medioriente, come la Siria.

Inoltre, in un quadro complessivo di visione dell’area, serve che l’Europa recuperi un rapporto ordinato, dandogli forma e struttura, con Mosca. Serve non solo per sottrarre a Pechino un rapporto sempre più privilegiato e importante con la Russia, ma anche per ricostruire tra Bruxelles e Mosca una rete di collaborazione nell’area balcanica che appare sempre più necessaria.

Sono questi alcuni dei temi che bisogna mettere al centro della discussione per favorire una riflessione di prospettiva e ad ampio raggio, tanto sul piano comunitario quanto su quello internazionale. Gli Stati europei debbono e possono sviluppare una semplice quanto necessaria analisi tra costi, benefici, rischi e opportunità, sapendo che ritardi e opportunismi ingenerano un caos e un disordine da cui, alla lunga, nessuno trarrà benefici. La politica resta lo strumento principe attraverso cui affermare una visione di futuro, senza il quale difficilmente potremmo scorgere le luci di domani possibile.