L’integrazione degli ‘Slavi del Sud’

Guido Lenzi
Ambasciatore, è stato Direttore dell’Istituto europeo di Studi di Sicurezza a Parigi, docente presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

L’indispensabile, urgente, sistemazione della situazione nel Mediterraneo non può prescindere da quella nei Balcani, che del Mediterraneo fanno parte integrante. Una situazione che rimane altrettanto precaria, sostanzialmente armistiziale. Che gli Accordi di Dayton e di Rambouillet di oltre vent’anni fa non sono ancora riusciti a sciogliere.

La federazione jugoslava (degli “Slavi del sud”), creata di sana pianta un secolo fa a Versailles, dal disfacimento degli antichi Imperi multietnici, avrebbe dovuto rappresentare il modello per una diversa ricomposizione dei popoli europei. Una costruzione rivelatasi eterogenea, fragile, al pari degli Imperi collassati, affidata ai predominio dei Serbi, poi al prestigio di Tito, disintegratasi infine non appena rimosso il collante esterno assicurato dalla Guerra fredda.  

La “prospettiva europea” (indicata nel 2003 a Salonicco) rimane sullo sfondo come traguardo e stimolo di una diversa ricomposizione dei rapporti regionali. L’adesione all’Unione non appare però praticabile, tanto per la difficoltà di ottenere il consenso a Ventisette ad ulteriori allargamenti, quanto per l’assenza di una preventiva conformità di quelle nazioni ai criteri europei (le “condizionalità indicate nel 1993 a Copenaghen”). E non si dimostra pertanto né determinante né tanto meno decisiva nelle residue tensioni regionali.

Slovenia e Croazia, cattoliche, si sono distaccate “in extremis” dal groviglio serbo-musulmano, andando a costituire l’antemurale settentrionale in corrispondenza di quello meridionale costruito con l’ammissione di Romania e Bulgaria. Più rigorosi sono ora i criteri applicabili agli altri popoli dei “Balcani occidentali”. Ai quali si applica il principio del more for more, di una corrispondente reattività, indicato da Bruxelles nella sua “politica di vicinato”, verso Sud come verso Est. Nell’impostazione di quell’Unione a geometrie variabili che la prudenza e le stesse circostanze internazionali ormai impongono.

Condizionalità necessarie all’integrità del progetto europeo, delle quali non si curano invece gli altri pretendenti, russo, turco, persino cinese e americano, animati dalle loro diverse agende. Una difformità evidenziata dalla questione del Kosovo, la cui autoproclamata indipendenza la Serbia, sostenuta dalla Russia, non intende riconoscere.

Un rapporto da ricostruire, che la mediazione dell’Unione europea, con la prospettiva dell’adesione all’Unione, era riuscita a delineare. Un nodo gordiano che l’America di Trump intendeva invece tagliare a favore di Pristina. Un intrico del quale altri approfittano per insinuarvi la loro presenza. Invece di diluirne gli opposti “sovranismi” in un più ampio ambito europeo, si ipotizza per ora uno scambio di territori: la città di Mitroviça in cambio della valle di Preševo. Una soluzione che sancirebbe, e acuirebbe invece di superare, le distinzioni etniche regionali, che già Ivo Andric aveva così efficacemente, e profeticamente, descritto nel suo Ponte sulla Drina, il fiume che divide la città di Visegrad (nomen omen!).

Vinte abbondantemente le elezioni anche per l’astensionismo delle opposizioni, Il nazionalista serbo Vucic era stato appena invitato a Washington assieme al kosovaro Thaci, quando quest’ultimo è stato incriminato per crimini di guerra dalla Corte Speciale per il Kosovo con sede all’Aja, che l’Europa aveva imposto come precondizione per le sue prospettive di associazione all’Unione.

Se le presunzioni negoziali di Trump sono quindi fallite, l’Europa non può certo rallegrarsene, ostacolata com’è dal mancato riconoscimento del Kosovo da parte di cinque dei suoi membri, preoccupati dalle possibili ripercussioni sui loro stessi movimenti secessionisti interni. Il che blocca il “cammino europeo” non soltanto di entrambi i contendenti, ma della stessa Albania e della Macedonia del Nord, spuntando così l’unica arma a disposizione dell’Unione e aprendo la strada alle più diverse interferenze esterne (così come avviene in Siria, in Libia!). Tenendo in ostaggio la ricomposizione complessiva del mosaico balcanico.

Nei Balcani come altrove, la ricomposizione di una qualche governabilità nazionale e regionale comporta invece necessariamente la ricomposizione delle antiche coabitazioni, e della convivenza fra le tante diversità nazionali, con soluzioni federali, ad immagine e somiglianza della ricostituzione dell’Europa. Ricostruire passa attraverso il rispetto delle minoranze, che anche nei Balcani rappresenta la prova del nove dell’affidabilità di uno Stato.

È nei Balcani più che altrove che la credibilità, e pertanto l’efficacia politica, dell’Unione è messa alla prova. Il “Processo di Berlino”, impostato dalla solita Germania, non potrà prescindere dal fattivo contributo dei membri dell’Unione più direttamente interessati.

Nei Balcani, come in Libia, il contributo diplomatico italiano, annunciato dai nostri antichi progetti di Iniziativa Centro Europea e di Iniziativa Adriatico-Ionica, si è dimostrato esitante, carente di iniziative bilaterali o di contributi alla politica dell’Unione. Rendendo sterile la nostra indiscriminata astratta adesione al processo di restituzione di quell’intera area alla famiglia europea.