La guerra in Ucraina e il Mediterraneo e Medio Oriente allargati

Maurizio Melani
Ambasciatore, Professore straordinario di relazioni internazionali Link Campus University

Nel Mediterraneo e nel Medio Oriente allargati la guerra in Ucraina sta producendo, accentuando o congelando, con effetti di cronicizzazione, crisi di varia natura.

La presenza russa nell'area è notevolmente cresciuta negli ultimi anni sul piano politico e militare e su quello economico. In diversi conflitti il suo ruolo è diventato determinante. Ma come successe all'Unione Sovietica negli anni 70 e 80 del secolo scorso, il multiforme impegno che questo comporta, accompagnato da concrete e onerose attenzioni anche all'Africa e ad altre parti del mondo mentre lo sforzo maggiore è concentrato in Ucraina, rischia di determinare costose sovraesposizioni con possibili conseguenze anche sulla tenuta interna di un paese con ambizioni superiori alle proprie capacità ma dotato di una distruttiva deterrenza nucleare con la quale minaccia e cerca di intimidire i propri avversari.

Per sviluppare la sua azione acquisendo basi e influenza politica in una prospettiva diretta a riaffermare come in Europa Orientale e in Asia Centrale il ruolo determinante che vi aveva l'Unione Sovietica, la Russia ha profittato dei conflitti tra loro in larga parte intrecciati nella regione. È intervenuta massicciamente in Siria per puntellare, insieme all'Iran, il regime di Bashar al Assad, combattere l'Isis e il jihadismo ed assicurarsi basi aeree e navali nel Mediterraneo, accordandosi al tempo stesso con Israele, ove la presenza demografica di ebrei russi è diventata rilevante, per evitare incidenti tra le rispettive forze durante le azioni militari israeliane contro quelle di Hezbollah e iraniane. Oggi nel paese prevalgono gli interessi contrapposti di tre attori regionali: la Turchia, che in questo teatro si è mossa in apparente contraddizione con la sua appartenenza alla NATO alla quale non intende rinunciare per tenere i suoi alleati sotto scacco su molti temi, l'Iran che opera prevalentemente ma non su tutto in coordinamento con la Russia, e in modo più defilato l'Arabia Saudita la cui duplice finalità è contrastare la presenza iraniana ma anche quella turca, soprattutto fin quando Ankara continuerà a sostenere i Fratelli Musulmani o comunque forze islamiste contrapposte a quelle più vicine a Riad. Un riavvicinamento è comunque in corso. Il Principe ereditario Bin Salman ha visitato la Turchia, primo contatto a questo livello dopo la vicenda Khassogi. A questi attori va aggiunto Israele la cui azione è soprattutto diretta a colpire le presenze iraniane e dei suoi alleati locali in Siria in Libano.

È da vedere se la prevista visita di Biden nella regione riuscirà a riaffermare il fortemente scalfito ruolo americano. Troppe sono le contraddizioni e i fattori di una complessa equazione nella quale occorre mettere ordine. Da un lato Washington vuole ripristinare l’Accordo sul nucleare (JCPOA) per fermare le progressioni iraniane nell'arricchimento dell'uranio e quindi l'avvicinamento al raggiungimento della soglia necessaria all'acquisizione di una capacità nucleare militare, ma senza dover ricorrere ad una devastante azione bellica. Deve per questo superare le resistenze di Israele (con le alee di una nuova fase elettorale) che chiede di mantenere il Corpo delle forze rivoluzionarie islamiche iraniane nella lista delle organizzazioni terroristiche, mentre Teheran ne esige la cancellazione dalla lista per chiudere la trattativa. Ma deve superare anche quelle dell'Arabia Saudita malgrado la ripresa di un dialogo tra Riad e Teheran con i buoni uffici dell'Iraq che pur essendo privo di un governo dopo sette mesi dalle elezioni soprattutto a causa dei contrasti all'interno della componente sciita (tra pro-iraniani e nazionalisti) svolge comunque un'utile azione di raccordo grazie alla credibilità del Presidente Bahrem Salih e del Primo Ministro Mustafa Khadimi le cui attività vanno ben oltre il disbrigo degli affari correnti.

Ricucire quel che Trump ha improvvidamente distrutto sarà molto difficile, anche se Biden cercherà di farlo lavorando sull'unico lascito utile della precedente Amministrazione costituito dagli Accordi di Abramo. Questi hanno avuto il merito di strutturare i rapporti tra Israele e importanti paesi arabi, con positivi effetti anche sul piano culturale e psicologico delle percezioni reciproche, estensibili alle rispettive opinioni pubbliche, tra entità a lungo contrapposte malgrado vi siano sempre stati rapporti sotterranei e come tali non esplicitabili su obiettivi specifici. Il merito sarebbe ancora maggiore se questi rapporti fossero in grado di favorire la ripresa di un processo di pace israelo-palestinese la cui assenza incide negativamente sulle dinamiche regionali ed è facilmente strumentalizzabile. Potrà essere importante a questo riguardo il coinvolgimento dell'Arabia Saudita che Biden cerca di favorire operando al tempo stesso per indurla ad un aumento della produzione di petrolio al fine di ridurne il prezzo a scapito della Russia, facendo superare le pur complicate collaborazioni nell’ambito dell’OPEC plus, e a vantaggio degli alleati europei oltre che di proprie peraltro tra loro contrastanti esigenze di politica interna. E questo probabilmente anche al prezzo di una revisione dell'atteggiamento negativo nei confronti del Principe ereditario Mohamed Bin Salman. Si vedrà se questa azione si limiterà alla volontà di costituire un solido fonte anti-Iran o potrà portare a nuovi assetti regionali di sicurezza collettiva dei quali anche l'Iran possa essere parte in un quadro di equilibri che evitino una proliferazione nucleare.

Altra situazione emblematica è quella della Libia. Qui la Russia ha sostenuto il Generale Haftar con forniture militari e mercenari anche nel tentativo di questo ex sodale di Gheddafi poi riparato negli Stati Uniti di muovere un assalto finale al Governo di Tripoli fermato però da un contrapposto intervento turco. Oggi il paese è in sospeso, in uno stato di precario congelamento. Vi è un Governo ufficiale, quello di Abdul Hamid Dbeibah, riconosciuto dalle Nazioni Unite, sostenuto militarmente dalla Turchia e da una serie di milizie territoriali, frutto di un complicato processo di riconciliazione nazionale di cui sono stati protagonisti gli europei ed in particolare la Germania, l'Italia e con ambiguità la Francia, ma incapace di esercitare la sua effettività in tutto il territorio del paese. E vi è la compagine guidata da Fathi Bashaga, che si pretende ugualmente Governo sulla base di proprie interpretazioni dei percorsi istituzionali concordati internazionalmente. Questa parte è sostenuta dalla Russia ed ora non più da Egitto ed Emirati diversamente da quanto facevano in un recente passato a vantaggio del Generale Haftar. Nella realtà si à consolidata, almeno in questa fase, una situazione di spartizione di fatto, senza una apparente volontà degli attori internazionali presenti militarmente di superarla con azioni per l'affermazione di una parte sull'altra come era avvenuto negli scorsi anni soprattutto da parte delle istituzioni di Tobruk quando chi vi dominava era il Generale Haftar con i forti sostegni esterni di cui sopra. I tentativi del Primo Ministro designato dal Parlamento di Tobruk, Bashaga, di entrare a Tripoli non hanno avuto significativo sostegno dall'esterno e si sono risolti in un nulla di fatto. Bashaga può contare su alcune importanti milizie ma un suo affondo su Tripoli presidiata direttamente o indirettamente dai turchi, potrebbe avere successo se si impegnassero in modo consistente i russi, considerato che egiziani ed emiratini sono ora lontani da lui le cui pretese di legittimità non sono avallate dalle Nazioni Unite e dai paesi occidentali. La fluidità della situazione potrebbe comunque non escludere ulteriori rovesciamenti di alleanze.

Nella sostanza prevale al momento una situazione di fatto per cui i proventi degli idrocarburi gestiti dalla compagnia petrolifera statale libica NOC e dalla Banca Centrale libica vanno seppure in modo non paritario alle due componenti. Un ruolo centrale è svolto in questo contesto dall'Eni. Gli idrocarburi estratti con la NOC soddisfano i fabbisogni energetici del paese e una parte del gas viene esportato in Italia attraverso il gasdotto Greenstream. Non molto rispetto al totale fabbisogno italiano mentre si sta riducendo drasticamente la quota di importazioni dalla Russia, ma comunque sempre utile, con potenzialità di crescita, a dare un contributo alla necessaria diversificazione degli approvvigionamenti le cui componenti principali sono costituite da quelle via tubo dall'Algeria e in misura minore dall'Azerbaijan via Turchia, da quello liquefatto dal Qatar e da altrove, ed in prospettiva da quelle da Israele ed Egitto attraverso il costruendo gasdotto EastMed. Crescono intanto in tutti i paesi dell’area gli investimenti nelle fonti rinnovabili e per la produzione di idrogeno.

In questo complesso scenario si è inserito quello che può forse essere il principale effetto della guerra in Ucraina su una stabilità sostenibile del Medio Oriente e del Nord Africa. Si tratta della crisi alimentare dovuta al blocco delle esportazioni di cereali dai porti ucraini. Prima della guerra le esportazioni ucraine di grano costituivano l'8,5% del totale mondiale pari a poco più di quelle della Francia (13% quelle rispettivamente di Russia, Stati Uniti e  Australia e 12% quelle del Canada) avendo come principali destinatari la Turchia, l'Egitto e l'Algeria in un  mercato caratterizzato da un generale aumento dei prezzi di tale prodotto, già iniziato a causa degli effetti della pandemia, nel quale i principali paesi deficitari sono nell'ordine l'Indonesia, la Nigeria, la Cina, i tre paesi mediterranei sopra indicati e l'Italia, unico paese dell'OCSE nei primi nove di tale lista essendo il decimo il Giappone. I rischi di sommosse in quei tre paesi e in altri, dalla Tunisia, al Marocco, dal Libano all'Iraq già si fanno sentire. Qualcuno, dai jihadisti nelle loro diverse configurazioni, alla Russia, all'Iran, cercherà di strumentalizzarle con finalità diverse e finalità contrapposte, come accadde nel 2011-2012 con le primavere arabe, cavalcandole, impadronendosene o reprimendole duramente direttamente o indirettamente, esacerbando tensioni e conflitti, esodi e pressioni migratorie con ulteriori problemi politici nei paesi che le dovranno gestire. 

Nel brevissimo termine, essendo la via terrestre del tutto insufficiente, è necessaria la riapertura dei porti ucraini, impedita dai condizionamenti russi e dalle preoccupazioni ucraine che lo sminamento possa favorire un attacco russo a quei porti. A scadenza di poco più lunga una revisione della PAC e delle politiche di Stati Uniti e Canada dovrebbe consentire la ricostituzione di eccedenze da destinare all'aiuto alimentare o a vendite a basso costo, ma sappiamo quanto questo, alleviando il problema immediato, abbia poi effetti negativi sullo sviluppo agricolo e sulle produzioni alimentari dei paesi destinatari. Le politiche di riduzione fino all'eliminazione dei sussidi alla produzione, privilegiando altre forme di sostegno ai redditi degli agricoltori e al loro mantenimento sul territorio, e quindi di contrazione delle eccedenze necessarie agli aiuti alimentari più che dimezzatisi dall'inizio di questo secolo, furono d'altra parte richieste dai paesi in via di sviluppo desiderosi di promuovere la produzione alimentare locale. Soprattutto in Africa ciò non è avvenuto per varie cause: cambiamenti climatici, desertificazione, pressione demografica, conseguenti conflitti, land grabbing per produzioni destinate all'esportazione soprattutto verso la Cina, governance inadeguata. Ne è conseguito che molti paesi, in mancanza dei surplus europei, sono diventati dipendenti dai cereali russi e ucraini. Ora giustamente soprattutto gli africani rilanciano il tema del loro sviluppo rurale. Prospettiva estremamente difficile da realizzare se non si invertono i fattori che lo hanno impedito finora.