Il fallimento comune di democrazie e autocrazie nella “questione sociale” in Maghreb: i casi opposti di Egitto e Tunisia.
Undici anni dopo le grandi aspettative di cambiamento suscitate dalle Primavere arabe - lanciate al grido unanime di “pane e libertà” -, i Paesi del Sud del Mediterraneo, ed in particolare le economie non petrolifere, non sembrano aver raggiunto nessuno dei due obiettivi primari – maggiore redistribuzione del reddito e libertà politica - che esse si erano collettivamente poste. I governi arabi, di vecchia o nuova costituzione, non sono stati capaci di rifondare i fragili patti sociali alla base dei loro sistemi autoritari né di affrontare le difficili condizioni economiche alla base delle proteste di piazza che scossero l’insieme del mondo arabo nel 2011. Per i tre Paesi del Maghreb investiti dalla prima ondata di Primavere - in Algeria il movimento di protesta dell’Hirak si è affermato nel febbraio 2019 - gli unici esiti positivi sembrano essere stati una relativa stabilità geopolitica e un parziale rinnovamento costituzionale, anche se nell’unico caso di democratizzazione riuscita - la Tunisia - si assiste al momento ad una crisi istituzionale. Poco o nulla sembra essere cambiato in meglio rispetto ai fattori strutturali di crisi – massiccia disoccupazione, soprattutto intellettuale, malcontento per il costo della vita e bassi salari - evidenziati dalle Primavere, nel frattempo spesso trasformatesi in “inverni” o fasi di riflusso politico, che hanno permesso il ritorno al potere di regimi autoritari chiusi a progetti di riforma.
Emblematico è il caso dell’Egitto di al-Sisi, che non solo non ha registrato alcun avanzamento nelle libertà civili, ma anzi un netto regresso rispetto al già screditato record in materia di diritti umani del regime di Mubarak, ignorando deliberatamente le richieste di miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini. A nove anni dall’insediamento del nuovo regime (2013), il PIL per abitante è rimasto invariato nonostante l’aumento di quello aggregato a livello nazionale (+5.9% nel 2022), dimostrando che la crescita economica non viene indirizzata alla redistribuzione del reddito né incanalata in progetti con un impatto sociale (indicatori International Centre for Migration Policy Development, ICMPD, 2020:19). Il paradosso è, dunque, che in assenza di una democratizzazione del potere politico, la sola crescita economica non produce alcun incentivo al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini e il caso egiziano, con un’economia in costante progressione - grazie alle entrate del settore turistico, del canale di Suez, del trasporto del gas naturale e dell’immobiliare, nonché alle rimesse dei cittadini egiziani all’estero - è lì a confermarlo.
A dispetto dell’apparente stabilità odierna, incentrata sulla dimensione militare e securitaria, l’Egitto rimane nel lungo termine un Paese potenzialmente soggetto a nuove ondate di proteste, rivolte e rivoluzioni, proprio in virtù della sua incapacità di risolvere i problemi strutturali alla base della “rivoluzione” abortita del 2011. In particolare, la questione demografica si staglia come il maggiore fattore di squilibrio: secondo le statistiche ONU, la popolazione egiziana è tra le più giovani al mondo (con un 33% sotto i 14 anni e un’età media di 24,6 anni) e la crescita demografica è costante (2% annuo), classificando l’Egitto al quattordicesimo posto tra i Paesi più sovrappopolati al mondo con i suoi attuali 106 milioni di abitanti. Data la particolare composizione sociologica, la “questione giovanile”, mai sopita, tornerà ad imporsi come centrale per la sopravvivenza del regime, che nei prossimi anni sarà sottoposto a due pressioni concomitanti: quella di ampliare il proprio sistema di istruzione in modo da assorbire l’ingresso di milioni di nuovi studenti e quella di creare sufficienti nuovi posti di lavoro per il milione e mezzo di giovani che ogni anno si affaccia sul mercato occupazionale. Nel primo caso, i dati mostrano che ad oggi l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria è di massima garantito ai circa 20 milioni di studenti egiziani (ovvero rispettivamente al 97,45% dei bambini in età di scolarizzazione e all’85,49% degli adolescenti, European Training Foundation, ETF, 2018). Tuttavia, è nel passaggio dal sistema di istruzione al lavoro che l’Egitto disperde al massimo il proprio capitale umano. La popolazione in età di lavoro aumenta del 3,1% ogni anno, ma solo circa l’1,8% riesce ad essere assorbito dal suo mercato interno, ovvero a trovare una collocazione stabile ed ufficiale: il restante 1,3% si riversa, quindi, nei tradizionali canali dell’economia informale, che tende ad aumentare a dismisura (48% della forza lavoro, dati Central Agency for Public Mobilization and Statistics, CAPMAS, 2020) della migrazione, soprattutto verso il Golfo, o della prolungata inattività (“Neet”, giovani che né lavorano né studiano). A fronte di un settore pubblico in pieno arretramento (che ad oggi impiega 5 milioni e mezzo di lavoratori) e un costante ridimensionamento dell’organico della funzione pubblica (passato dal 33% della forza-lavoro nel 1998 al 26% del 2018), avviato fin dagli anni ’80 su pressione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale - che hanno chiesto all’Egitto ulteriori sacrifici come parte del pacchetto di prestiti del FMI da 20 miliardi di dollari (2016) -, la creazione di nuovi posti di lavoro dovrebbe concentrarsi nel settore privato, anche se esso non presenta le dimensioni ottimali per far fronte a tale sfida: solo costruzioni, servizi, trasporti e stoccaggio di merci mostrano tassi occupazionali al rialzo (rispettivamente del 7 al 13% e dal 5 al 9% tra 1998 e 2018), mentre il settore industriale, incluso quello manifatturiero un tempo trainante l’economia egiziana, registra una marcata involuzione (dal 18% al 12,5% dal 1998 al 2018).
Per un governo che si è fatto paladino della lotta alla povertà (ridotta dal 32% del 2020 al 27,9% del 2022) e alla disoccupazione (ridotta dal 13,15% del 2013 al 7,4% del 2021), sbandierando il loro calo come uno dei suoi maggiori successi, l’attuale tasso di inattività dei giovani (15-29 anni), fisso invece al preoccupante tasso del 30% (POMEPS, 2022), dimostra uno scacco innegabile nel pianificare il futuro delle nuove generazioni. In particolare, la linea economica del governo al-Sisi sembra penalizzare tre principali gruppi, in parte sovrapposti tra loro: i giovani, le donne e le persone qualificate, e favorire la creazione di lavoro a bassa produttività e altrettanto bassi salari. Tale scelta comporta di fatto la creazione di lavoro “vulnerabile”, all’opposto del modello “dignitoso” dell’ILO (2015), ovvero un lavoro che dia accesso alla protezione sociale, che abbia carattere volontario, stabile e permanente e che garantisca un reddito adeguato al lavoratore.
La crescita del lavoro informale e l’inattività dei giovani sono i due “talloni d’Achille” maggiormente sensibili del regime di al-Sisi: la disaffezione nei confronti di un sistema che sistematicamente esclude e penalizza la parte maggioritaria e più viva della società può comportare un forte rischio per la coesione sociale e la stabilità del governo. Per molti giovani egiziani altamente qualificati, infatti, la via migratoria, in particolare verso i ricchi Paesi del Golfo, rimane l’unico canale stabile aperto per la propria realizzazione professionale, privando però al contempo il Paese delle sue forze migliori, ovvero di quelle che potrebbero spronarne l’innovazione, promuoverne lo sviluppo sostenibile, come anche costituire il potenziale nucleo di un’alternativa politica. In definitiva, le scelte di privilegiare il lavoro povero e adottare un modello asiatico di sviluppo tecnologico dall’alto in basso, che esclude il dialogo sociale (Kaplan, Foreign Affairs, 29 aprile, 2021) e in parte elude il negoziato sindacale (si veda la proposta di legge-capestro del 2017, lievemente emendata nel 2019, sulla messa al bando dei sindacati indipendenti come l’EFITU, responsabili dell’ondata di scioperi di Mahalla preliminari alle proteste del 2011), si dimostrano preferenze coerenti e deliberate del regime.
Il Cairo, troppo spesso considerato dai Paesi europei e dagli Stati Uniti un fidato alleato in Medio Oriente esclusivamente in considerazione del suo ruolo geopolitico stabilizzatore nella regione – nella lotta al terrorismo islamico, nel trasferimento e nella commercializzazione del gas naturale, nella moderazione di forze anti-sistema come Hamas nella Striscia di Gaza e nella cooperazione strutturata con Israele -, non appare affatto al riparo da nuove rivoluzioni, che potrebbero riesplodere tanto per fattori endogeni strutturali, come l’endemica corruzione o l’arrogante strapotere del consorzio militare-industriale (come esemplificato dal “caso Geneina”, denunciato da Human Rights Watch, 2016) che per elementi esogeni contingenti, come i drammatici effetti economici della guerra in Ucraina sul costo dei generi alimentari di prima necessità come il pane, che, oltre a non essere più sussidiati dall’agosto 2021, sono oggetto di una galoppante inflazione (+8,8% nel febbraio 2022). Se è vero, infatti, che il barometro arabo attesta un generale netto raffreddamento dei cittadini di tutti i Paesi MENA nei confronti della democrazia - oggi consapevoli che “la democrazia non produce necessariamente crescita economica” (Jamal e Robbins, Foreign Affairs, marzo/aprile 2022: 24) - è altrettanto evidente che le autocrazie non sembrano meglio posizionate per assicurare lo sviluppo collettivo e il miglioramento delle condizioni di vita dei propri cittadini, in quanto tendenzialmente indifferenti alle loro domande di dignità e giustizia ed impermeabili alle pressioni popolari.
Anche le giovani democrazie arabe, tuttavia, riscontrano i loro cogenti problemi. Tunisi, presentata fino al 2021 come il «bon élève» della democratizzazione liberale modello europeo, ha però, malgrado la narrativa rassicurante, registrato numerosi shocks economici e politici interni dal 2011 ad oggi. In primis, la “rivoluzione” ha marcato un crollo verticale della crescita economica (-1,9% nel 2011), che si è successivamente ripresa ma attestata su un tasso fragile del 2,5%, inferiore agli altri Paesi dell’area MENA e ulteriormente indebolita dagli attacchi terroristici del luglio 2014 e del marzo 2015, che hanno negativamente impattato sul settore turistico. Nonostante le molte riforme adottate - come il ridimensionamento della sua popolazione giovanile (passata dal 32% al 22% nel periodo 2007-2017), ottenuto grazie a un rallentamento della crescita demografica, i massicci investimenti governativi nel settore dell’istruzione e delle politiche attive del lavoro (tra i programmi avviati figurano KARAMA, CIDES, CIVP, CAIP, CRVA, CSC: ANETI, 2018) e l’impegno dei successivi governi democratici e degli investitori stranieri nella creazione di posti di lavoro, anche qualificati - sui 100.000 nuove occupazioni del 2018, il 13% sono qualificate (Agence Nationale pour l’Emploi et le Travail Indépendant, ANETI 2018) -, la Tunisia non è riuscita a vincere la sua maggiore sfida: la disoccupazione giovanile di massa alla base della “Rivoluzione dei gelsomini”. Il tasso di disoccupazione è perfino aumentato, attestandosi al 18% (2022) rispetto al 13,2% del 2010 appena prima delle proteste e arrivando a toccare il 42% per i giovani (OECD Ecoscope, 2022), con una forte concentrazione tra i laureati (30% nel 2019) e una particolare penalizzazione delle donne. La disoccupazione dilagante è spiegata con l’impossibilità di ricorrere adeguatamente all’impiego in un settore pubblico costantemente incriminato da FMI e Banca Mondiale per i suoi alti tassi occupazionali (dai 435.487 funzionari nel 2010 ai 642.918 nel 2017) e accusato di “acquistare la pace sociale”, dalla crisi del dinaro svalutato del 40% nel 2017 per facilitare le esportazioni e dalla crisi del debito pubblico in costante incremento (7 miliardi di dollari nel 2022), nonché da un sistema economico generalmente a basso valore aggiunto che non ha ricevuto alcun incentivo a innovarsi, modificare la propria produzione o incrementare la produttività nel periodo post-rivoluzionario. Una dinamica che ha finito per impattare negativamente su due tendenze strutturali dell’economia tunisina: il divario storico tra regioni produttive del Nord e arretrate del Sud (a volte distinto in base alla linea di faglia tra regioni costiere ed interne), e la spinta migratoria, alimentata da una maggioranza di giovani tunisini delle regioni più svantaggiate dell’entroterra. Il numero degli emigrati è infatti salito dai 487.000 del 2010 agli 813.000 circa del 2019 e i Tunisini tornano oggi ad ingrossare le fila dell’emigrazione clandestina (Herbert, 2022).
Inoltre, il settore informale - nell’agricoltura, nel commercio, nei trasporti e nel turismo - è in costante crescita, anche se in misura più ridotta dell’Egitto (dal 30% nel 2010 al 42% della popolazione attiva nel 2022, Observatoire National de l'Emploi et des Qualifications, ONEQ), e riguarda una quota consistente di giovani. Come sottolinea un rapporto della Friedrich Ebert Stiftung (FES), il lavoro informale non è soltanto un fattore strutturale nel Maghreb, ma anche l’“elemento centrale sul quale si gioca ogni nozione di giustizia sociale in Nord Africa” (Gallien, luglio 2018). La sua crescita continua ad essere l’indicatore specifico di una domanda di intervento statale evasa dalle autorità, democratiche e non, e la prova della sopravvivenza di un modello di sviluppo economico squilibrato e non inclusivo che favorisce una minoranza di garantiti contro una maggioranza di precari. Una tendenza comune all’Egitto e alla Tunisia, ma che in Tunisia si scontra contro il paradosso di un processo di apertura e negoziazione politica che, però, non sembra esser stato capace o intenzionato a produrre cambiamenti sostanziali nel sistema economico e nei rapporti tra classi sociali.
In conclusione, la sospensione del Parlamento tunisino da parte del Presidente Kais Saied (il 25 luglio 2021, attualmente sospeso fino al 17 dicembre 2022, data delle prossime elezioni) è stata sostenuta da molti Tunisini come una misura estrema allo stallo politico del Paese, causato da faide interpartitiche e che non trova uno sbocco parlamentare. Un’opinione condivisa da molti giovani tunisini, il cui sostegno alla democrazia sta scemando a favore di modelli più autoritari, come evidenziato da un sondaggio della Konrad Adenauer Stirftung (gennaio 2021), che riporta un consenso del 75% per “leader forti” capaci di forzare le procedure politiche e del 61% per la sospensione del Parlamento a favore di un “uomo forte” al comando. Lo stesso dato sconfortante rilevato da Jamal e Robbins (2022) sulla correlazione tra stagnazione economica e disincanto verso la democrazia. I sistemi autoritari appaiono maggiormente capaci di effettuare decisioni critiche e assumere provvedimenti economici drastici in tempo reale, tuttavia, come dimostra il caso dell’Egitto, la fascinazione per i dittatori non rappresenta affatto la garanzia per una prosperità diffusa o di maggiore equità sociale. In realtà nel 2011 i cittadini arabi si sollevarono in massa per richiedere uno stato forte che coniugasse rispetto delle libertà civili e politiche a una protezione sociale sulla falsariga del modello sociale europeo, ovvero fornitore di beni e servizi dalla “culla alla bara” (cit. piano Beveridge, 1943), capace di provvedere ad ammortizzatori sociali e sovvenzioni, e di garantire allo stesso tempo crescita economica, stabilità e piena occupazione. Un modello complesso e di difficile attuazione, oggi in crisi in tutto il mondo, inclusa l’UE, che però sembra voler essere sistematicamente negato alla sponda Sud del Mediterraneo dalle politiche macroeconomiche imposte da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, con il colpevole concorso degli accordi di partenariato privilegiato (ALECA, Accord de Libre Échange Complet et Approfondi, con la Tunisia) o associazione (con l’Egitto) a carattere neoliberista indifferentemente imposti a tutti i Paesi MENA dall’Unione Europea, senza riguardo per i rispettivi sforzi di democratizzazione.