Quale protezione per le popolazioni civili in conflitto? La Responsabilità di Proteggere alla luce delle nuove crisi internazionali

Federica Persico
Dottoranda Università degli Studi di Genova

- “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”

G. Tomasi, Il Gattopardo, 1958

 

Se venti anni fa la comunità internazionale approvava il concetto di Responsabilità di Proteggere, alla luce di quanto accade oggi, altrove nel mondo, è lecito domandarsi: Cosa resta di quel principio? Quale protezione meritano le popolazioni in conflitto?

Con l’adozione della Responsibility to Protect (R2P) da parte dell’Assemblea Generale nel 2005, la comunità internazionale si impegnava a garantire protezione alle popolazioni civili oggetto delle peggiori forme di violenza e persecuzione: pulizia etnica, genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità.[1]

Sul finire del XX secolo e sulla scia del genocidio dei tutsi in Ruanda e dell’intervento militare in Kosovo, l’allora Segretario Generale, Kofi Annan, discuteva, sulle pagine della rivista britannica The Economist, del concetto di sovranità statale e della possibilità di intervenire in crisi umanitarie. Sul concludere del suo intervento, il Segretario sollevava i suoi dubbi sulla possibilità di conciliare due interessi ugualmente inderogabili: la legittimità universale e l’efficacia nella difesa dei diritti umani. Tuttavia, fiducioso, affermava che un equilibrio si sarebbe trovato perché “l’umanità di oggi è meno disposta rispetto al passato a tollerare la sofferenza attorno a sé e più disposta a fare qualcosa per affrontarla”.[2]

Seguendo la successiva formulazione elaborata dal Segretario Generale Ban Ki-moon, la Responsabilità di Proteggere si fonda su tre pilastri. Il primo riflette la responsabilità dello Stato di proteggere la popolazione civile da qualsiasi forma di violenza o persecuzione citate in precedenza. Il secondo sottolinea l’impegno della comunità internazionale nell’assistere gli Stati ad adempiere ai propri obblighi. Il terzo e ultimo pilastro pone nelle mani della stessa comunità la responsabilità di intervenire – anche con la forza – e rispondere collettivamente laddove lo Stato in questione venga meno ai propri doveri. [3]

La dottrina nasce in un contesto in cui ancora si confidava nel multilateralismo e nella centralità delle Nazioni Unite, mentre lontane erano le voci sulla presunta crisi (o fine) dell’ordine internazionale liberale. Doveva, quindi, rappresentare la risposta morale e operativa per evitare “No more Rwandas and no more Kosovos”, cioè impedire che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fosse unito, ma inefficace, come in Ruanda, o diviso come nel caso dell’intervento militare in Kosovo, operato senza l’autorizzazione del Consiglio e sotto l’ombrello della NATO.[4]

La Responsabilità di Proteggere è stata invocata, formalmente, in una sola occasione: nel caso dell’intervento militare in Libia nel 2011, anche qui sotto la guida della NATO, che ha contribuito al rovesciamento del leader libico, Muammar Gheddafi. Altrove, nello stesso periodo, come nel caso siriano, il Consiglio non è riuscito a trovare un accordo a causa della politica dei veti incrociati da parte dei cinque membri permanenti (P5), Russia, Cina, Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Se da un lato Mosca proteggeva l’alleato siriano, la Cina rigettava l’idea di intervenire per un regime change, mentre i paesi occidentali sostenevano l’opposizione siriana. Questa paralisi, protrattasi per oltre un decennio, spiega quindi l’inazione del Consiglio dinanzi le atrocità commesse in Siria.

La dottrina della R2P non è stata immune da critiche. Per alcuni questa ripete logiche e schemi post-coloniali, attraverso l’interferenza negli affari interni dei paesi ‘deboli’ da parte dei paesi ‘forti’; mentre, per altri la dottrina pecca di eccessivo militarismo, sostenendo l’uso della forza per ragioni umanitarie, o ancora di non essere in grado di produrre soluzioni adeguate alle crisi internazionali in atto per cui si registrano atrocità di massa.[5] 

Dall’inizio del XXI secolo ad oggi numerose sono state le crisi internazionali che hanno riportato al centro l’annosa questione del che fare in presenza di atrocità di massa, di cui Sudan, Gaza, e Ucraina sono solo le più recenti. Davanti a queste tragedie è necessario chiedersi cosa resta di quel principio, se una protezione per le popolazioni civili è ancora pensabile oppure no, se la Responsabilità di Proteggere è in crisi o, forse, è stata solo un’illusione collettiva.

La drammatica situazione di Gaza ha mostrato con assoluto cinismo le contraddizioni della comunità internazionale e l’inadeguatezza della dottrina della Responsabilità di Proteggere. Nonostante le atrocità di massa commesse nell’exclave palestinese, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è rivelato incapace di agire in difesa dei civili gazawi. In questa cornice non solo il Consiglio ha faticato a trovare un accordo per l’adozione di una risoluzione che chiedesse un cessate-il-fuoco – approvata solo dopo 247 giorni dall’inizio del conflitto – ma le NU stesse sono state oggetto di un duro attacco politico. Le accuse rivolte dai vertici israeliani al Segretario Generale António Guterres e all’ONU di essere un’istituzione ‘antisemita’ e ‘antiisraeliana’ riflettono il clima di tensione e delegittimazione in cui l’organizzazione si trova a operare. Tuttavia, in questo scenario si intravedono anche segnali incoraggianti: il crescente attivismo della società civile transnazionale, le iniziative giuridiche della Corte Penale Internazionale e le pressioni diplomatiche da alcuni Stati del cosiddetto Sud Globale testimoniano una volontà condivisa di tutelare il diritto internazionale e di preservare gli strumenti del sistema multilaterale, che ne costituiscono il fondamento.

La Responsabilità di Proteggere, come qualsiasi norma, è imperfetta nella misura in cui gli Stati la invocano (o la ignorano) sulla base dei propri interessi e prerogative. Ciò nonostante, a giudizio dell’autrice, lo spirito che muove la norma – la necessità di intervenire laddove i diritti umani siano messi a repentaglio – è ancora da salvare.

In questo senso, la R2P incarna in modo emblematico il paradosso espresso da Tancredi nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” La volontà di difendere i valori fondamentali della comunità internazionale – la dignità, la vita, i diritti umani – non può restare immutata nei mezzi, nelle forme e negli strumenti. Cambiare la R2P, adattandola alle sfide attuali valutandone i limiti operativi e politici, è l’unico modo per conservarne il nucleo etico e renderla ancora rilevante.

Sulla scia delle riflessioni proposte da Illingworth, criticare in maniera costruttiva la dottrina della Responsabilità di Proteggere è importante, non per demolirla, ma per migliorarla. Abbandonare l’idealismo ottimista e il fatalismo cinico per posizionarsi al centro, come un ‘amico critico’ della norma, è ciò che potrebbe realmente aiutare il dibattito per ripensare la norma e comprendere quale strada sia percorribile per arginare le sfide della protezione umanitaria nel XXI secolo. [6]

 

 

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[1] Hultman, L., Kathman, J., & Shannon, M. (2013). United Nations peacekeeping and civilian protection in civil war. American Journal of Political Science, 57(4), 875–891. https://doi.org/10.1111/ajps.12036

[2] The Economist. (1999, September 16). Two concepts of sovereignty. The Economist. https://www.economist.com/international/1999/09/16/two-concepts-of-sovereignty

[3] United Nations Secretary-General. (2009). Implementing the responsibility to protect (A/63/677). United Nations. 

[4] Wheeler, N. J. (2005, May 19–22). Towards a new transatlantic consensus on the ‘collective responsibility to protect’ [Meeting briefing paper]. Aspen Atlantic Group.

https://www.aspeninstitute.org/wp-content/uploads/files/content/docs/asg/ASGUNReformWheeler.pdf

[5] Illingworth, R. (2024). Not the ‘Fairest Norm of Them All’ but Still Needed: On Hobson and Criticism of the Responsibility to Protect. Journal of Intervention and Statebuilding, 18(2), 181–190. https://doi.org/10.1080/17502977.2024.2304457

[6] Ibidem.