Un vento di speranza in Colombia

Alessandra Ciurlo
Docente di Ricerca Sociale presso la Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana di Roma

Le proteste in Colombia esplose nel novembre 2019 passeranno alla storia per la loro consistenza, la diversità delle persone coinvolte e il loro carattere pacifico. Si tratta però di solo un passaggio di un lungo processo di rivendicazioni da parte di molte categorie sociali contro uno Stato silente che non riesce a mitigare un disagio sociale complesso e difficilmente riconducibile a una singola matrice.

Uno degli elementi di indubbia rilevanza e di cui non si può non tenere conto per capire la situazione attuale è il conflitto armato protrattosi per più di cinquanta anni e il successivo processo di pace. La guerra ha contrapposto diverse forze: guerriglieri, esercito, gruppi paramilitari, bande criminali e narcotrafficanti che si sono contesi la gestione del territorio. Con la forte determinazione del presidente della Repubblica Juan Manuel Santos e del gruppo guerrigliero Farc-Ep si è arrivati, dopo anni di intensi negoziati, alla firma degli storici accordi di pace nel novembre 2016 che prevedevano vari punti tra i quali la riforma agraria, uno dei nodi più problematici nella storia del paese mai risolto e un sistema articolato di riparazione integrale per i circa otto milioni di vittime, basato sulla ricerca della verità per la non ripetizione e la riconciliazione.

Il post conflitto, che supponeva l’attuazione di una serie di misure e leggi per raggiungere i punti stabiliti negli accordi, si è rivelato un percorso a ostacoli, lento e difficile.  Pesano sia le resistenze di una buona fetta della società e del partito di governo contrario al processo di pace, sia la debolezza stessa dello Stato e delle sue istituzioni. Quelle che dovrebbero essere politiche di Stato per garantire la continuità del percorso intrapreso si rivelano essere espressioni del governo di turno che cambia ogni quattro anni. Infatti, l’attuale presidente Iván Duque, in carica dal 2018 e nemico dichiarato degli accordi di pace, ha ridotto consistentemente le risorse a esso destinate nel Piano di Sviluppo Nazionale (2018-2022), ostacolando l’attuazione degli accordi. Inoltre, le istituzioni dello Stato non riescono a garantire la loro presenza nei territori lontani dal centro del potere e colpiti maggiormente dal conflitto armato, anche per propri limiti strutturali. Territori tuttora interessati da uno scontro aperto tra coloro che si contendono le zone di maggior interesse economico per l’espansione di attività minerarie illegali, per il latifondo e per megaprogetti estrattivi nocivi per l’ambiente e per coloro che abitano nelle aree coinvolte.

Il governo non dimostra poter garantire la sicurezza della popolazione con il conseguente aumento del già allarmante numero degli omicidi di ex-combattenti reinseriti nella vita politica e sociale, di attivisti, leader sociali e indigeni e difensori dei diritti umani che si battono da anni per la salvaguardia dei propri territori. In questi stessi territori il fenomeno dello sfollamento forzato interno, che aveva subito una battuta di arresto nell’ultima fase del processo di pace, ha ripreso, facendo nuove vittime.

Va da sé che in queste condizioni in una parte della cittadinanza cresce un malessere che si somma al forte disagio per le politiche economiche neoliberiste applicate durante la storia del paese. Vale la pena segnalare che la Colombia è uno di quei paesi latinoamericani che non hanno mai avuto governi progressisti con efficaci politiche sociali, e dove l’opposizione ha avuto vita difficile ed è stata anche oggetto di persecuzioni, stigmatizzata e bollata da forti pregiudizi che potenziano la polarizzazione.

La protesta, spesso repressa in modo violento, coinvolge molti settori della società: negli ultimi anni si è verificata una serie di scioperi tra i camionisti e trasportatori (2011, 2013, 2015, 2016, 2018, 2019), tra i lavoratori pubblici della giustizia (2012, 2014), della salute (2013, 2015) e dell’Istruzione (tutti gli anni dal 2010 ad oggi). Lo scontento riguarda prevalentemente politiche che riducono i salari e peggiorano le condizioni lavorative e i già esigui benefici sociali. 

Nel settore agricolo sono molte intense le proteste con la partecipazione di contadini di molte zone del paese che danno spesso vita spesso a scioperi a carattere nazionale (2011, 2013, 2013, 2014, 2016) e all’organizzazione di gruppi indigeni nelle cosiddette mingas, gruppi di amici e conoscenti che hanno come obiettivo di fare un lavoro per la comunità. Le proteste esprimono il rifiuto del modello economico di libero commercio e ripudiano le bande criminali e illegali che operano nelle aree dove sono residenti. Anche se gli indigeni si battono da anni nelle singole zone, dal 2017 si sono uniti nella Minga Nacional Agraria, Campesina, Étnica y Popular riuscendo ad aggregarsi attorno a un fine comune.

Lo sciopero nazionale iniziato il 21 novembre 2019 segna lo spartiacque della protesta sociale in Colombia. Prima di quella data alle manifestazioni partecipavano principalmente sindacati, alcune organizzazioni studentesche e organizzazioni sociali di base: all’imponente sciopero nazionale di novembre hanno partecipato gruppi e collettivi auto organizzati, migliaia di giovani e persone dei ceti medi e medio-bassi. Questi settori si sono coalizzati contro il governo opponendosi alle privatizzazioni di beni, servizi ed istituzioni pubbliche e all’iniquità contributiva che accresce la precarietà e le disuguaglianze sociali. Esigono l’attuazione degli accordi di pace, la prosecuzione del dialogo con il gruppo guerrigliero Eln e l’adozione di vere politiche ambientali.

Denunciano energicamente le uccisioni di attivisti sociali e chiedono un impegno per la lotta alla corruzione e alla sua diffusione in molti settori statali e nel mondo politico.

Il governo ha cercato di ostacolare lo sciopero nei giorni precedenti demonizzando i manifestanti e fomentando il senso di paura nella popolazione con una campagna mediatica incentrata sugli atti vandalici che ne sarebbero derivati. Ha inoltre proceduto alla, militarizzazione di alcune zone delle principali città, con perquisizioni e intimidazioni a gruppi di artisti e cittadini. Successivamente ha continuato a minimizzare la forza e vastità della protesta ma dinanzi alla pressione popolare, si è dovuto sedere a dialogare, esprimendo l’intenzione di “ascoltare” ma in nessun caso negoziare né tanto meno attivare un tavolo di concertazione per non correre il rischio di mettere in discussione politiche che trovano consenso tra le classi benestanti, beneficiate lautamente dal ciclo espansivo dell’economia degli anni precedenti. 

Benché il Paro (sciopero) continui e abbia in programma diversi appuntamenti per il 2020, il governo ha adottato la strategia di dilatare gli incontri con il comitato organizzativo per sfibrarlo e acuirne le differenze interne sino a far naufragare la protesta. Un comportamento sostenuto dalle élite al potere che sembrano ignorare i risultati ottenuti dalle opposizioni nelle elezioni amministrative dell’ottobre 2019 e che dimostrano uno scollamento profondo con una buona parte della società. Continuano in modo arrogante a perseguire gli interessi di pochi, convinti che l’andamento degli indicatori macroeconomici, tutto sommato positivi, dimostrino la validità del modello adottato.

Nel  Congresso della Repubblica – il parlamento colombiano  – il governo continua la sua corsa per approvare la riforma delle pensioni e del lavoro grazie all’appoggio dei partiti tradizionali, incurante del fatto che queste riforme siano al centro delle contestazioni e che diverse evidenze empiriche dimostrino come i giovani non abbiano garantito un futuro economico e sociale per le difficoltà di accesso al mercato del lavoro.   

In un contesto di profonda polarizzazione e antagonismo sociale, con una politica corrotta e clientelare e un governo che non riesce ad avere un progetto di nazione inclusiva, si potrebbe pensare che il sistema politico sia in crisi. Questa però sembra essere un’ipotesi azzardata, probabilmente si è dinanzi all’inizio di un processo di cambiamento dagli esiti ancora imprevedibili. Non c’è dubbio però che le proteste siano riuscite ad attivare una parte della società fino a ora impassibile, contribuendo così al complesso rafforzamento di una democrazia ancora disfunzionale che ostenta un altissimo astensionismo politico (il 47% nelle elezioni presidenziali del 2018l).

Le proteste danno grande speranza perché mantengono vivo l’interesse e la convinzione che i cittadini possono chiedere un paese più equo, giusto e non violento. Uno scenario fino a qualche anno fa impossibile da concepire e oggi verosimile grazie anche al processo di pace e al cambiamento del paradigma secondo cui chi la pensa “diversamente” è considerato un sovversivo e un nemico da annientare. Oggi più che mai l’Europa dovrebbe sostenere energicamente la società civile, i difensori dei diritti umani e il delicato processo di consolidamento della pace.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)