Leggerezze epidemiche nel Brasile bolsonarista

Roberto Vecchi
Professore di Letteratura Portoghese e Brasiliana presso l'Università di Bologna. Honorary Professor di Lusophone Studies presso la School of Cultures, Languages and Area Studies della University of Nottingham. È presidente per il triennio 2018-2020 della AIL, la Associação Internacional de Lusitanistas

Capricci di una folle matematica: il Brasile di Bolsonaro nel giorno in cui tocca il drammatico bilancio di 10 mila morti per il Covid19 (a picco probabilmente non ancora raggiunto) guadagna anche un altro primato non proprio commendevole. Il suo presidente infatti, secondo accreditate agenzie di fact checking sfonda il muro delle mille fake news propalate in 492 giorni di mandato presidenziale. Sono all’incirca due al giorno. Una media che si distingue globalmente, nella pur attiva compagine del nuovo sovranismo e in ombrosi tempi di post verità. Il problema tuttavia non risiede nei numeri, pure vistosi. Si iscrive piuttosto nella relazione che esiste tra i due tristi primati che rivelano il tracollo di qualunque ottimismo della ragione sulle forme contemporanee di politica pubblica.

È fin troppo facile dire che il negazionismo reiterato di Bolsonaro dinanzi alla epidemia globale sia la causa efficiente di una tragedia che, in un Paese socialmente molto asimmetrico come il Brasile, tocca soprattutto le popolazioni più fragili e carenti. È una evidenza che lo stesso protagonista assume pubblicamente, nel suo quotidiano e sgarbato duello di insulti con la stampa. Occorre però domandarsi quali siano le ragioni che si celano dietro a quello che potrebbe sembrare lo sfoggio di una plateale follia personale.

Il Brasile costituisce un laboratorio privilegiato che può illuminare, sia pure con tempi all’apparenza fuori squadro, anche il funzionamento generale del subcontinente latinoamericano. In questo il Brasile sempre evidenzia un insularismo. Lo si è visto nel caso delle proteste dei movimenti del 2019 in svariati altri contesti latinoamericani, stridenti rispetto all’apparente silenzio dominante del Paese lusofono. Va ricordato che, con sequenze proprie, il Brasile ha preceduto e seguito gli eventi delle tensioni continentali: dal movimento passe livre del 2013 per il trasporto pubblico gratuito (oggetto interpretativo ancora sfuggente, rispetto alla involuzione democratica che ne è seguita) ai panelaços attuali (“concerti” di pentole) di alcune grandi città per protestare proprio contro le illogicità normalizzatrici della politica presidenziale. In realtà, il movimento storico del Brasile  –sempre differenziale mostra la intima connessione tra la eccezione (propria) e l’esempio (degli altri contesti) che meriterebbe analisi più sottili di genetica latinoamericanistica.

Il caso attuale del presidente Bolsonaro in pieno ciclone epidemico ne fornisce un ulteriore, eloquente paradigma. La ingombrante crisi politica in corso che ha invaso il Paese, in sincronia con la diffusione del contagio del Covid19, presenta aspetti curiosi che ad alcuni potrebbero apparire surreali. Dalla negazione della pericolosità del virus (ripetuta a parole e nei fatti smentendo la opportunità di distanziamento sociale) al sistematico discredito dell’ex ministro della sanità Luiz Henrique Mandetta - dimesso dal presidente con un avviso delegittimatore che ha preceduto di un paio di settimane cruciali l’effettivo esonero e proprio in mezzo alla esplosione della crisi sanitaria; - dal conflitto lacerante con i governatori degli Stati , in particolare, per la sua spettacolarizzazione, quello con il governatore dello Stato più toccato dalla epidemia, São Paulo, João Dória (esponente del PSDB e alleato elettorale del presidente) alle dimissioni del ministro della giustizia, l’ex giudice Sérgio Moro a cui Bolsonaro deve una porzione sostanziale della vittoria elettorale del 2018 per la eliminazione politico-giudiziaria di un competitore insidioso come l’ex presidente Lula. Questa la cornice, tutta politica, della crisi epidemica.

Alcune reazioni del presidente sembrerebbero attestare uno stato di alterazione della normale capacità di giudizio ed azione da parte della massima carica dello Stato. Risposte date a bruciapelo ai giornali come “Molti morti? E che ci posso fare?” sembrerebbero sanzionare il turbamento. Confermano invece un aspetto che da tempo prende consistenza nell’analisi di posizioni che potrebbero sembrare dissennate, estemporanee, pittoresche. Il nostro limite di interpretazione del “bolsonarismo” (“ismo” che pur non corrispondendo a una sostanza ideologica precisa, ha il merito di evidenziare che Bolsonaro è solo il nome di facciata di un gruppo di potere ben più sagace e cinico) è infatti quello di inquadrarlo in linee convenzionali della politica. E questa consuetudine produce immagini distorte e giustificazioni sbagliate. Non si tratta soltanto di inettitudine alla carica, o di ignoranza di alcune fondamentali regole dei sistemi democratici. Tali limiti, macroscopici, ci sono ma diventano in realtà gli strumenti di una strategia a più ampio raggio, non solo di Bolsonaro e del suo clan famigliare.

Non interessa qui il simbolismo del corpo del sovrano che riflette nel modo più inclusivo il corpo di una nazione, almeno su un piano retorico o declamatorio o mediatico. Al contrario, il “progetto Bolsonaro” ha come obiettivo quello della dissoluzione sovversiva degli equilibri dello Stato, dell’apparato di regole e vincoli della democrazia, delle consuetudini di rispetto e dialogo tra i poteri. In un Paese dove la disgregazione e l’apartheid sociale e razziale, salvo qualche tentativo sommario di ricomposizione privo però di sostenibilità adeguata, sono sempre stati una permanenza storica, questo progetto sta ottenendo il successo dei risultati attesi. Errato giudicarli alla luce di un modello politico astratto, corretto vederli come una lucida pianificazione nella quale alla maggiore divisione corrisponde una maggiore tutela della concentrazione di interessi oligarchici. Un blocco di cui fanno parte gruppi finanziari (crisi politica e crisi epidemica stanno facendo crescere a dismisura alcuni patrimoni), gruppi militari (soprattutto i settori più reazionari della Riserva), soggetti internazionali interessati alla fine del multilateralismo brasiliano e alla imposizione di una nuova subalternità di un potenziale competitore nell’Atlantico sud.

La epidemia dunque è una grande opportunità per questa componente antidemocratica e una immensa disgrazia per la stragrande maggioranza della popolazione. Era stato Bolsonaro ad auspicare, anni prima della sua esplosione politica, un certo numero di morti tra i settori marginali della popolazione per dare maggiore “efficienza” al Paese e alla sua economia. È quello che sta accadendo e la selezione sociale delle morti va nella direzione auspicata. Un contagio di gregge del Brasile renderebbe il Paese più competitivo. Per questo il negazionismo e la politica delle socializzazioni esibite (siano esse celebrative o protestatarie) non sono paradossali, ma sono parte di una logica privata, biopolitica e antinazionale.

Si è molto parlato anche di tensioni soprattutto tra i militari in attività di fronte a questa politica e alla stucchevole e ripetuta affermazione della fedeltà alla Costituzione da parte delle alte sfere dell’esercito: questo tradisce quanto meno un disagio. Ma qui sorge forse la differenza più stridente tra la situazione autoritaria attuale e quella del colpo di Stato militare del 1964. Qual è il senso di un pronunciamento militare quando il grosso del governo è già sotto il controllo integrale dei corpi dell’esercito? Si dice che siano 2500 i militari che occupano oggi nella macchina bolsonarista incarichi di fiducia nei principali apparati dello Stato. L’esercito farebbe un golpe contro sé stesso? Anche il volto all’apparenza più “razionale e umano” del vice presidente, l’ex generale Hamilton Mourão che succederebbe a Bolsonaro in caso di dimissioni o impedimento, sembra essere solo la parte studiata di un piano B scientemente organizzato: le sue dimissioni nel 2015, quando era comandante militare della Regione sud furono imposte quando celebrò la figura del famigerato colonello Carlos Alberto Brilhante Ustra, l’unico ufficiale militare condannato per tortura e gravi abusi dei diritti umani durante la dittatura e mitologico eroe del presidente e della famiglia Bolsonaro.

Finché l’opaco gruppo di potere che ha creato le condizioni dell’attuale progetto politico riterrà che Bolsonaro è strumentalmente utile, la presidenza continuerà ad essere sua. Per quanto clamore susciti, dentro e fuori dal Brasile. Poco importa che rivendichi come fetta di autogratificazione il controllo della polizia federale “solo” a Rio de Janeiro, lo Stato dove il suo clan accumula i propri interessi poco cristallini, storici e correnti.

Quando il presidente si domanda se “il caos si stia avvicinando”, riferendosi alle tensioni che circolano soprattutto nella moltitudine di disoccupati o di chi, per la epidemia, ha perduto ogni fonte di reddito, esprime dunque non una paura ma un desiderio sincero: quello di disporre di un ulteriore spazio di manovra che permetta di usare la violenza anche estrema per una ristrutturazione sociale più profonda e meno ingessata, che dia “maggiore efficienza” al Brasile. Possibilmente senza le pastoie della Corte Suprema o delle opposizioni. Tutto dunque, anche la follia presunta, è l’ingranaggio di un oliato e lucido dispositivo. Non casuale ma pensato e che usa la irrazionalità e la follia (apparenti) per realizzare i suoi obiettivi non troppo confessabili.

Del resto, perché preoccuparsi? Come ha dichiarato l’attuale segretaria alla cultura del governo Bolsonaro, l’attrice Regina Duarte; “basta! caricare cimiteri sulle spalle”, basta! parlare di morti per il virus o delle vittime delle torture della dittatura militare: pensiamo a noi, pensiamo ad oggi, “siamo leggeri”. Una leggerezza interessata e “presentista”, questa, che naturalizza l’inconfessabile, e il cui contagio potrebbe però diffondersi in fretta. Anche in altre regioni del continente.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)