Il tortuoso cammino verso il consolidamento democratico

Tiziana Bertaccini
Docente di Storia e istituzioni delle Americhe, Università degli Studi di Torino

La situazione latinoamericana si inserisce in uno scenario mondiale di generale deterioramento degli indicatori democratici che vede il 2019 concludersi con i peggiori risultati dal 2006. (EIU Democracy Index 2019). Sebbene la regione continui ad essere classificata come la più democratica fra i paesi emergenti, il suo trend democratico è in costante diminuzione da almeno 4 anni, oggi in parte bilanciato dal passaggio del Cile e del Salvador dalla classificazione di “hybrid regime” a “flawed democracy”, per l’aumento dell’indicatore della partecipazione nelle recenti mobilitazioni di protesta. Se il dibattito sulla qualità delle democrazie latinoamericane e sul consolidamento dei processi di transizione non sono certo una novità, la direttrice del Latinobarometro, Marta Lagos, ha recentemente indicato il 2018 come “l’annus horribilis” che segnerebbe perfino la fine della terza ondata democratica nella regione. La considerazione interessante è che questo non sarebbe dovuto all’ uscita del Venezuela e del Nicaragua dalla categoria di paesi democratici, non certo una novità, quanto al funzionamento generale delle democrazie, sempre a rischio di recesso.

In effetti, uno sguardo di lungo periodo sul nuovo millennio mostra un’instabilità politica permanente della regione, che non ha trovato una risposta al cronico dilemma della governabilità laddove persistono istituzioni deboli, che godono di una bassissima fiducia da parte dei cittadini e dove sono mancati patti sociali capaci di sanare quella breccia fra stato e società che, apertasi fin dal momento delle transizioni, si è andata ampliando configurando comunità non più solo frammentate ma anche fortemente polarizzate. Il rapporto PNUD del 2004 indicava che la principale sfida per la democrazia era vincere la diseguaglianza e la povertà. Sebbene il decennio virtuoso di crescita economica abbia portato a indiscutibili miglioramenti di questi indicatori, l’America Latina non ha mai perso il primato della regione più diseguale al mondo con scenari ambivalenti dove i segnali di avanzamento, favoriti dalla bonanza economica che aveva permesso generose politiche sociali, sono sempre stati contrastati da “brecce” mai superate fra settori ad alto e basso reddito, dove si concentra la bassa produttività, dalla crescita del settore informale e dalla disoccupazione del settore giovanile in costante aumento dal 2005. Il primo decennio del XXI secolo si concludeva con un bilancio positivo e con una visione ottimista sul futuro della regione, non solo per la buona performance economica ma anche in merito al processo di democratizzazione: la democrazia elettorale si considerava pienamente raggiunta, con un sostanziale miglioramento su qualità, credibilità e legittimità dei processi elettorali, i dati sulla percezione della democrazia, in costante aumento dal 2007, toccavano il livello più alto dal 1995 e mostravano una cittadinanza sostanzialmente soddisfatta. L’ottimismo oscurò che, al contrario, proprio allora iniziò ad ingrossarsi la schiera di indifferenti alla politica e dunque al tipo di regime non identificati nel classico spettro destra-sinistra che, inclini all’astensionismo, abbandonavano l’appoggio alla democrazia allontanandosi dalla politica. (Latinobarometro 2018 p. 14) Situazione in realtà prevedibile guardando alla disaffezione verso le istituzioni, che non era affatto nuova. Secondo i dati raccolti dal Latinobarometro questa disaffezione alla politica riguarderebbe soprattutto i settori socioeconomici più deboli e i giovani, spesso parte di questa stessa categoria, che oggi sono i più inclini all’autoritarismo. Se da una parte questo indica una relazione con le ben conosciute cause di natura strettamente economica, non bisogna dimenticare le ragioni di natura squisitamente politica.

Il mancato consolidamento delle democrazie si riflette nella mancanza di fiducia nelle istituzioni democratiche, che a sua volta ne provoca un ulteriore indebolimento. In particolare fin dai primi passi delle transizioni, i partiti politici, seguiti dal Congresso, sono stati i più screditati. La risposta dei governi allo scollamento fra stato e società sono state le riforme istituzionali che hanno coinvolto la regione in un ingente processo di modernizzazione. L’adozione di nuove Costituzioni, che in alcuni casi, come nell’area andina (Venezuela, Ecuador, Bolivia) hanno dato vita a un vero e proprio nuovo spirito costituente, guardato con interesse nel mondo, riforme politiche ed elettorali, spesso con la creazione e il rafforzamento di organismi autonomi, riforme tese a rinvigorire gli apparti giudiziari, etc.…. Tuttavia, la modernizzazione istituzionale non è stata in grado di trasformare le pratiche di una cultura politica atavica, fortemente radicata nel territorio, che ha continuato a frenare il consolidamento democratico. Così, per esempio le riforme costituzionali, considerate spesso come la panacea di tutti i mali, non hanno corretto la struttura di organizzativa del potere riaffermando il presidenzialismo, e non solo nei casi più eclatanti dove è stata introdotta la rielezione indefinita (Venezuela-Nicaragua), hanno continuato a favorire gli interessi delle maggioranze, laddove manca un apparato di giustizia forte e indipendente capace di garantire un effettivo stato di diritto. Nel complesso, anche le riforme costituzionali dietro una facciata di modernità hanno perpetrato aspetti tradizionalisti. (Detlef Nolte, “América latina: Constituciones flexibles y estructuras de poder rígidas”, Nueva Epoca, n. 16, n.61, marzo 2016, pp. 235-240)

Le istituzioni, che avrebbero dovuto essere il nucleo del consolidamento democratico, mancano dei requisiti fondamentali della stabilità, minata al contrario da una febbre riformista che non ha permesso la necessaria caratteristica di durabilità nel tempo, e dalla regolarità, o incapacità, nell’imposizione delle leggi. In alcuni casi, il difetto non risiede tanto nell’assenza di normativa, al contrario alcune volte questa può perfino essere in eccesso, come per esempio in materia elettorale in Messico, ma nella prassi della sua mancata applicazione. Non può esistere democrazia dove non esiste uno stato di diritto e le democrazie latinoamericane non hanno superato questa sfida: nonostante le riforme al sistema giudiziario, tese per lo più a garantirne l’indipendenza e la professionalizzazione, la legge non viene applicata, non viene rispettata, non è uguale per tutti e il livello di impunità supera, con differenze da paese a paese, il 90%. In Messico oggi l’impunità tocca il 97%. Persistono anche ombre sul nuovo protagonismo del potere giudiziario, come avvenuto nel caso del juicio político contro Dilma Roussef in un paese dove la magistratura ha raggiunto un altissimo grado di autonomia e indipendenza. La democrazia elettorale che ormai si considerava raggiunta non è affatto scontata, le istituzioni elettorali, organismi autonomi e specializzati creati per garantire l’indipendenza delle elezioni dal governo e dai partiti, sono state spesso veicolo di pratiche autoritarie. Così, per citare uno dei casi più estremi, il potere elettorale, configurato come un quarto potere nella Costituzione venezuelana, è stato piegato dall’autoritarismo dei leader grazie alla compartecipazione del Tribunal Supremo de Justicia e di altre istituzioni create ex novo come la Defensoría del Pueblo o la Fiscalía. Lo stesso dicasi per organismi autonomi quali i Tribunali Costituzionali del Cile e della Bolivia. A questo si aggiunga, come avvenuto nel recente caso dell’ex presidente Evo Morales, i possibili conflitti fra le istituzioni, nello specifico fra Tribunale Elettorale e Tribunale Costituzionale. Le nuove forme di autoritarismo sono anche figlie delle architetture istituzionali democratiche e della politica che le ha disegnate. In generale, come ha ben evidenziato la letteratura sul tema, (AA.VV. Reformas políticas en América latina: tendencias y casos, OEA, 2016) le riforme politiche non hanno risposto a visioni di lungo periodo, ma piuttosto a visioni miopi, congiunturali e spesso prive di coerenza, generando così nuove patologie nella governance come le frizioni fra il potere Esecutivo e Congressi troppo frammentati al loro interno, per esempio in Brasile coesistono una trentina di partiti all’interno del Legislativo, mentre il dibattito sulla riforma politica è aggrovigliato su se stesso da più di un decennio.

Il cammino della democratizzazione latinoamericana è segnato un po’ ovunque da un aumento vertiginoso della corruzione, che ha compromesso la stabilità dei governi. Sebbene si tratti, insieme al clientelismo, di un aspetto strutturale e connaturato alla regione fin dai tempi più antichi, le sue forme sono maturate nel tempo fino ad esplodere nel mondo globalizzato in scandali di proporzioni esorbitanti che hanno suscitato le proteste dei cittadini e hanno aumentato ulteriormente la sfiducia nelle istituzioni. Ricorderemo, per esempio, che al centro delle mobilitazioni di massa nel juicio político contro Dilma Rousseff, che si inserivano in un ciclo di lungo periodo di riattivazione dei movimenti urbani almeno dal 2010, insieme alle rivendicazioni di una cittadinanza effettiva, di un welfare uguale per tutti, reclamavano contro la corruzione chiedendo trasparenza. Un malessere sociale covato a lungo, non si dimentichino le grida rivolte contro il “mal governo” in occasione dei giochi panamericani del 2007, ed infine esploso con l’operazione Lava Jato. Per citare un altro esempio, nel 2015 in Guatemala la crisi politica innescata dagli scandali di corruzione che implicavano il governo, sotto la spinta delle mobilitazioni popolari che chiedevano la destituzione della vicepresidentessa Roxana Baldetti e del Presidente Pérez Molina accusati di collusione con la rete criminale La Línea, portò al potere l’outsider Jimmy Morales con le sue promesse “ni corupto, ni ladrón”. Jimmy Morales ha terminato il suo mandato accusato di gravi delitti. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, presidenti e vicepresidenti implicati in scandali di corruzione abbondano in Centroamerica, Perù, Argentina, Uruguay, Brasile. Il problema non riguarda solo i vertici della politica. In America Latina gli stati esistono, ma sono deboli e mettono le loro strutture al servizio della corruzione e della criminalità che oggi hanno un grado di radicamento altissimo nel territorio, favoriti anche da un’economia sommersa in crescita. (Sonia Alda Mejías, “La debilidad del imperio de la ley en América latina: un factor para entender la implantación del crimen organizado”, Revista Española de Ciencia Política, n. 37, marzo 2015, pp. 63-88)

Un tema che merita maggior attenzione è il rafforzamento dei partiti politici che seppur essenziali per il consolidamento democratico e per i sistemi di democrazia rappresentativa vivono un continuo processo di indebolimento. Durante il XX secolo i partiti politici sono stati debilitati dai populismi, che nel migliore dei casi li hanno subordinati al potere Esecutivo, dai regimi militari, con l’annullamento della politica e nuovamente dal ritorno dei neo-populismi riaffiorati a partire dagli anni ’90 in un contesto neoliberale di predominio dell’economia. Con le transizioni e la crisi di rappresentanza anche le nuove formazioni, in alcuni casi di tipo movimentista, sono state sottoposte alle tensioni dell’antipolitica e della democrazia diretta e plebiscitaria che non ha favorito un rafforzamento complessivo dei sistemi politici. I partiti sono entrati in una fase di discredito continuo riscuotendo il più basso grado di fiducia fra tutte le istituzioni, che oggi tocca il minimo storico con una media regionale del 13%, diminuita di ben 11 punti percentuali dal 2013. Anche in questo caso le timide riforme, per lo più volte a sanare la mancanza di democrazia interna e di trasparenza dei partiti, non si sono rivelate sufficienti a vincere le pratiche consolidate della cultura politica. Talvolta i cambiamenti introdotti dalle nuove regole, come nel caso della selezione interna dei candidati, hanno paradossalmente propiziato la rottura della coesione interna diminuendo la competitività esterna dei partiti. In altri casi le riforme non hanno toccato punti essenziali, come in Brasile dove solo in seguito all’operazione Lava Jato, il Tribunale Supremo ha proibito le donazioni anonime ai candidati e il finanziamento delle imprese private alle campagne elettorali. In linea generale non sono stati superati i deficit di democrazia interna dei partiti, che si riflette nello status democratico dei rispettivi paesi, mancano strumenti di disciplina capaci di dirimere conflitti interni e diserzioni con il passaggio ad altre formazioni, facilitate anche dal venir meno del collante ideologico. Si tratta di organizzazioni che spesso sono debolmente strutturate, basate su pratiche informali, reti clientelari e prive di un sistema di amministrazione trasparente capace di limitare le pratiche di corruzione. (Freindeberg Flavia,Levitsky Stefan, “Organización informal de los partidos en Amèrica latina”, Desarrollo Económico, vol.46, n. 184, genn-mar 2007, pp. 539-568)

Per avere un polso reale del consolidamento democratico, è necessario distinguere non solo le situazioni proprie di ogni paese, ma anche analizzare la situazione a livello locale. Il peso della dimensione territoriale continua ad essere rilevante e storicamente esiste un divario fra politica federale e politica locale, dove solitamente è più difficile il processo di radicamento democratico. Per citare un esempio, nel caso del Messico sebbene nel 2000 si sia consumata l’alternanza con il primo avvicendamento presidenziale, a livello locale ha continuato a governare in più della metà degli stati e dei municipi il Partido Revolucionario Institucional (PRI) riproducendo sul territorio un mosaico di governi stato-partido, perpetrando pratiche di personalizzazione, oligarchizzazione e l’assenza de facto di una distinzione fra pubblico e privato. Gli esecutivi locali, diventati molto potenti e con un sorprendente volume di risorse a loro disposizione, derivato dalle riforme decentralizzatrici degli anni ’90, ormai privi del controllo presidenziale che esisteva durante il regime, hanno continuato a controllare il partito nei loro stati e a gestire de facto il processo elettorale, anche grazie al controllo esercitato sugli organismi elettorali locali dell’oggi estinto Instituto Federal Electoral (IFE), imponendo consiglieri a loro vicini. Inutile dirsi, l’ingente volume di denaro a loro disposizione ha favorito l’uso discrezionale a fini politico-elettorali, clientelismo, corruzione e connivenza con il narcotraffico. Nel 2017 quasi tutti gli ex- governatori del PRI si trovavano in carcere o sotto processo, con accuse di corruzione, arricchimento illecito, riciclaggio e collusione con la criminalità organizzata. A metà del nuovo millennio il deterioramento riguardava tutto il sistema dei partiti, convertiti in macchine elettorali, incapaci di rappresentare le domande della società civile e di canalizzare il conflitto, in comizi controversi, campagne elettorali caratterizzate da accuse, discredito dell’avversario, carenza di dibattiti e di veri programmi. Lo schema clientelare si era modernizzato ampliando la pratica di compra-vendita del voto, ridotto a una merce di scambio, che riguardava intere strutture elettorali, comprate da un partito all’altro. Nel decimo anniversario dell’alternanza, non solo la transizione democratica non poteva dirsi conclusa ma si apriva il dibattito sul rischio di un regresso della democrazia.

È facile dunque intuire come questi contesti siano l’humus propizio per il rinverdire dei populismi che oggi catturano il “voto del cambiamento” con nuovi discorsi di rigenerazione nazionale, provenienti sia da destra che da sinistra.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)