Corpi intermedi, dialogo sociale e ruolo dei sindacati per il superamento della crisi latinoamericana.

Giuseppe Iuliano
Responsabile Dipartimento Politiche Internazionali Cisl

Nell’affrontare il tema della crisi strutturale dei sistemi politici latinoamericani vorrei provare a utilizzare un particolare angolo di osservazione e valutare che ruolo hanno avuto e possono avere nel subcontinente latinoamericano i cosiddetti “corpi intermedi” e, soprattutto fra le organizzazioni della società civile organizzata, gli “attori sociali”. Una premessa obbligata: pur nel rispetto del maestro latinoamericanista Halperin Donghi, che ammoniva sempre a trattare di “americhe latine” e non di “America Latina”, vorrei provare a estrapolare da questo tentativo di analisi alcuni elementi generalizzanti per identificare alcune linee di fondo. In primo luogo, per contestualizzare elementi di carattere storico riferibili agli ultimi 60/70 anni si può dire che in America Latina i sindacati, pur con le mille sfaccettature delle esperienze nazionali (più o meno caratterizzate dal virus difficilmente curabile dell’identificazione con governi “amici” e/o con tendenze politiche generalmente classificabili “di sinistra”), si sono dovuti misurare con sistemi giuridici che per quanto riguarda il diritto del lavoro si erano ispirati al cosiddetto “Codice Rocco” elaborato durante il fascismo in Italia. Si può ancora dire che durante gli anni Ottanta e Novanta i sindacati avevano attraversato una lunga stagione di riforme del lavoro, avendo tra i possibili riferimenti – dal nord al sud del subcontinente latinoamericano, – il cosiddetto “modello sociale europeo” così come si andava elaborando pur nella difficoltosa costruzione del progetto di “unione” di Stati nel vecchio continente. Non è peregrino sostenere che tra i punti di riferimento della riflessione dei giuslavoristi latinoamericani vi fosse tutto quel movimento che in Italia, soprattutto nella scuola di Gino Giugni, aveva animato la stagione che portò all’elaborazione dello Statuto dei lavoratori. Interessanti e gravidi di dibattiti nel mondo universitario furono i programmi di cooperazione gestiti in quegli anni dai sindacati europei (soprattutto italiani, nello specifico la Cisl) che evidenziando ed approfondendo i caratteri dell’autonomia sindacale, diedero vita a interessanti pubblicazioni di studi giuridici comparati (si veda la rivista “Debate Laboral” di Arrigo, Giugni, Nicosia, Treu e Van der Laat). Quella stagione accompagnò l’avvio di una complessa “gestazione” di quelli che sarebbero stati gli interessanti accordi di Associazione con l’Unione Europea, antesignani dei più moderni e culturalmente meno coinvolgenti Accordi di Libero Commercio, in primis l’accordo tra Ue e Mercosur, l’accordo tra Ue e Cile, l’Accordo con l’America Centrale e quello tra la Ue e Colombia, Perù ed Ecuador.

Le organizzazioni sindacali avevano avuto un ruolo delicatissimo durante gli anni bui delle dittature, pagando un prezzo alto in termini di arresti, torture, scomparsa forzata e assassinio di leader (come testimonia oggi la Sentenza del Processo Condor in Italia, che conferma come vi fosse un legame e un piano concreto fra tutte le Giunte militari, mirato ad annientare letteralmente l’opposizione politica e sociale ai regimi, spesso guidata proprio dalle forze sindacali). Ma negli anni del cosiddetto “recupero della democrazia” – sempre tentando di individuare alcuni elementi di possibile generalizzazione,  – le forze sindacali ebbero alcune esitazioni: troppo fragili erano le aggregazioni politiche e gli assetti che dovevano riaffermare e difendere la rinascita democratica e rilanciare le dinamiche economiche. Alcuni esempi per tutti: in El Salvador e in Nicaragua c’era stata una vera e propria “polverizzazione” delle organizzazioni sindacali dovuta al confluire di tutte le forze sociali di opposizione nelle formazioni clandestine, per cui la ricostruzione di un tessuto di normali relazioni sindacali e di piattaforme di dialogo sociale apparve una impresa impossibile una volta recuperata la democrazia. Ma l’esempio più evidente è sicuramente quello del Cile, dove i sindacati di fatto decisero sostanzialmente di “rinunciare” alle loro piattaforme rivendicative pur di sostenere i governi della Concertaciòn, che si trascinavano il vulnus della permanenza nei vertici delle istituzioni del generale Pinochet, pur sconfitto dal referendum democratico. Per cogliere l’importanza del ruolo delle organizzazioni sindacali nel quadro generale di sviluppo degli assetti che si sono andati determinando nell’economia nel subcontinente, propongo alcune brevi considerazioni su due scenari molto particolari, talvolta accomunati da analisti politici e da una pubblicistica a rischio di superficialità: mi riferisco al Brasile di Lula e Rousseff e al Venezuela di Chávez e Maduro.

In effetti in entrambe le realtà (astenendoci da giudizi di carattere politico) furono poste in essere importanti politiche di distribuzione del reddito (i programmi Fome zero o Bolsa Familia in Brasile, il processo di distribuzione sociale del reddito tra i settori popolari e produttivi in Venezuela con l’acquisizione del controllo da parte di Chávez della principale fonte di reddito del paese, la compagnia petrolifera PDVSA). Mentre in Brasile quelle politiche determinarono un aumento dei consumi capace di generare un circuito virtuoso di rilancio della produzione grazie ad una industria nazionale vivace, producendo gli straordinari risultati che tutti conosciamo con oltre 40 milioni di brasiliani usciti dalla soglia della povertà, in Venezuela quelle politiche, in assenza di qualunque collegamento con riforme strutturali dell’economia, diventarono nel tempo una concausa del disastro economico e sociale del paese, insieme crollo del prezzo del petrolio nei mercati internazionali. Ma questa lettura che gli analisti economici hanno fornito non spiega fino in fondo il “miracolo” brasiliano e la tragedia venezuelana se non si riflette sul ruolo che in queste due realtà hanno avuto i sistemi di relazioni industriali, il dialogo sociale e l’azione dei sindacati.

Uno studio portato in evidenza nell’ultimo Congresso della Afl-Cio, il sindacato nordamericano, e assunto tra l’altro dalla Commissione “Norme” della Conferenza internazionale dell’Organizzazione Internazionale del lavoro del 2019 (a sostegno della denuncia nei confronti del governo Bolsonaro di smantellamento delle politiche sociali e del lavoro realizzate dai governi precedenti) dimostra come i risultati delle politiche di distribuzione del reddito di Lula e Djlma Rousseff non sarebbero stati tali se non ci fosse stato nello stesso periodo un aumento del 90% della contrattazione collettiva. Un aumento straordinario se si tiene tra l’altro in conto che la Cut, la principale confederazione sindacale brasiliana, aveva affermato e difeso sin dall’insediamento di Lula alla Presidenza una prassi di forte “autonomia” sindacale nei confronti del Governo e del Partito dos Trabalhadores, forza politica che proprio la centrale operaia aveva direttamente generato. Scenario completamente diverso in Venezuela, dove Chávez aveva sostanzialmente smantellato le organizzazioni dei lavoratori, a cominciare dal referendum del 2000 (in aperta violazione delle Convenzioni Ilo sottoscritte dallo stesso governo venezuelano) per poi essere abbandonato anche dalle formazioni sindacali “bolivariane” che lui stesso aveva fatto nascere, di fronte al continuo disconoscimento di ogni forma di contrattazione collettiva nel paese. Tutte le forze sindacali del Venezuela si sono ritrovate poi in una nuova aggregazione nazionale per tentare di affrontare la definitiva deriva antisindacale del Presidente Maduro. L’osservazione di questi due casi conferma e rafforza la tesi più volte sottolineata dagli studi dell’Ocse, che rileva quanto uno sviluppo “equo” si riscontri con evidenza più nei paesi dove esiste un corretto sistema di relazioni industriali rispetto ai paesi dove sono invece latenti forme di dialogo sociale o contrattazione collettiva.

Prima di trarre qualche considerazione conclusiva sull’importanza del ruolo degli attori sociali anche nella prospettiva di una svolta dell’attuale crisi in America latina, ancora una breve osservazione generale che tenta di coniugare la lettura delle tendenze macroeconomiche con l’analisi delle dinamiche sociali complessive rilevate nel subcontinente. Sostanzialmente si potrebbe dire che, dopo i bui decenni delle dittature militari, dopo la famosa década perdida nella quale ci si misurò con improbabili misure di aggiustamento strutturale delle economie dettate dal Fondo Monetario Internazionale (indimenticabile il giudizio del Fmi sull’Argentina País Estrella per la perfetta applicazione delle manovre da parte del ministro per l’economia Domingo Cavallo, interprete pasticcione della scuola di Chicago di Milton Friedman, pochi mesi prima del default del 2001), si osservò di fatto un periodo di generale, straordinario sviluppo economico con un conseguente arricchimento in molte realtà del subcontinente, con picchi di grande interesse (Cile, Colombia, Brasile) che plasmarono la formazione di una nuova “classe media”. Come confermano gli studi di sociologia di massa, una “classe media” non tarda ad organizzarsi e a esprimere una sempre maggiore domanda in termini di sicurezza sociale, servizi, istruzione, trasporti… Ed è quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni in tutta l’America Latina, indipendentemente dal “colore” politico dei governi dei diversi paesi. La richiesta generale, sollevata da aggregazioni sociali nuove, spontanee, soprattutto fuori dal controllo di ogni tradizionale, consolidato corpo intermedio, non ha fatto sconti a nessuno. L’inizio può essere fatto risalire  alle manifestazioni in Brasile contro Djlma Rousseff, durante il Mundialito di calcio (con una esposizione mediatica eccezionale, scelta vincente di moderne tecniche di moltiplicazione di consensi che poi hanno fatto scuola). Manifestazioni analoghe si rivolgono oggi contro lo stesso Bolsonaro, pure scelto dall’elettorato sull’onda di una propaganda populista come antidoto al “lulismo” repentinamente abbandonato. E così in Bolivia contro Evo Morales, in Venezuela contro Maduro, in Colombia contro Duque, in Ecuador contro Moreno, in Nicaragua contro Ortega, in Cile contro Pinera…

Una possibile risposta alla forte domanda di cambiamento non potrà che basarsi su una nuova capacità di governo delle complesse economie delle democrazie moderne, dove occorrerà sempre di più coinvolgere nelle decisioni fondamentali anche i “corpi intermedi”, tutte quelle aggregazioni che nella società rappresentano interessi collettivi e nuovi bisogni individuali. I sindacati, attenti e più o meno forti in America Latina, si stanno distinguendo nell’interpretazione di un nuovo ruolo a partire dagli obiettivi generali assunti a livello internazionale dopo il centenario dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro celebrato nel 2019: sarà interessante osservare il loro impegno, accanto al tradizionale core business di intermediazione per definire la contrattazione collettiva e le tutele del lavoro, verso l’obiettivo di uno “sviluppo sostenibile” nel quadro generale del cambiamento climatico. La ricostruzione democratica di società più coese ed inclusive, dopo questa stagione imponente di sommovimenti, sarà con molta probabilità possibile laddove le forze politiche progressiste sapranno elaborare un’analisi comune delle dinamiche in corso insieme agli attori sociali tradizionali e insieme ai nuovi soggetti collettivi emergenti, per offrire alla domanda generale di cambiamento espressa dai movimenti di protesta una nuova e più accattivante proposta “riformista” per tutta la società in America Latina.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)