America Latina: se la democrazia formale non si sostanzia di partecipazione e diritti

Gianni La Bella
Docente di Storia Contemporanea e di Teoria e Metodi della Mediazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

L’America Latina è stata travolta dalla seconda metà del 2019 dal vento tumultuoso di un nuovo “autunno caldo mondiale” che ha soffiato contemporaneamente a diverse altre latitudini: Algeria, Iraq, Egitto, Libano, Francia, Hong Kong.

Una “rivolta planetaria” la cui coincidenza, solo apparentemente casuale, moltiplica le suggestioni e gli interrogativi, nonostante gli scenari siano, ovviamente, molto diversi. Manifestazioni che hanno preso di mira regimi dittatoriali come il Venezuela e il Nicaragua, autoritari come l’Ecuador e democrazie rappresentative, come il Cile e la Bolivia, colpevoli, indistintamente dal loro credo ideologico, di aver perpetuato se non accresciuto quella diseguaglianza ed esclusione sociale, di cui l’America Latina ha da decenni il primato.

Le cause scatenanti di questo terremoto socio-politico hanno indubbiamente un punto in comune, ed è la crisi di quella “mediazione politica”, espressa dalla frattura, acuitasi negli ultimi decenni, tra governo e governati, tra élite e popolo, tra rappresentanti e rappresentati. Se la democrazia è solo rappresentativa e non partecipativa, se non si sostanzia di diritti, diventa un simulacro disabitato e deserto che nessuno ha più interesse a difendere, amava ripetere come un mantra Raul Alfonsin, il primo presidente costituzionale argentino dopo la dittatura militare.

“Non c’è democrazia con la fame, né sviluppo con la povertà, né giustizia nell’iniquità”, ha detto papa Francesco, ricevendo i membri del vertice dei giudici panamericani sui diritti sociali.  Rivolte prive di leader e di capi carismatici, di inquadramento ideologico e di organizzazioni partitiche, che hanno invocato dignità, uguaglianza, lotta alla corruzione e un ‘cambiamento di sistema’ capace di offrire a tutti le stesse opportunità.

Le proteste, come ai tempi delle primavere arabe, sono state convocate e organizzate via twitter e facebook, in modo spontaneo, come in Italia il movimento delle “Sardine”. Secondo il politologo francese Bertrand Badie, le ribellioni in corso altro non sono che un “secondo atto” di quel processo generato dalla globalizzazione che a partire dagli anni Novanta ha imposto l’azzeramento del ruolo e della presenza dello Stato in pressoché tutti gli ambiti della vita pubblica, divinizzando quell’economia globale di mercato che ha prodotto “disparità abissali” riducendo i sistemi di welfare, già malconci, ad un vero lumicino, scatenando una inedita collisione tra élite politiche ed economiche, un tempo alleate.

Gli effetti e le ricadute di questa crisi finanziaria, economica e sociale hanno amplificato l’atavica disuguaglianza per la quale  l’America Latina ha il coefficiente Gini più alto del mondo. In tutti i paesi del continente le diseguaglianze si sono fatte più profonde, tanto da far evocare all’economista Branko Milanovic, nel suo libro Ingiustizia globale, scenari da ritorno alla lotta di classe.

Da questo punto di vista l’aumento delle diseguaglianze, secondo i teorici del credo neoliberale, è stato il prezzo da pagare per lo sviluppo, lasciando prevalere in modo dogmatico quella concezione secondo la quale se si voleva crescere, era giusto lasciare il mercato libero da ogni condizionamento: solo così le popolazioni dei paesi emergenti sarebbero uscite dalla miseria.

Ma le rivolte dell’autunno scorso, esplose a causa del rincaro di servizi essenziali o di prodotti di prima necessità, hanno portato alla luce come questo modello di sviluppo economico sia entrato in un vicolo cieco, rivelando il fallimento di quell’assioma fondato sulla crescita economica costante, la concorrenza, la precarizzazione del lavoro e la privatizzazione dei servizi del welfare quali la scuola, le pensioni, la sanità, l’accesso all’acqua potabile, confidando che solo la “austerità” avrebbe rimesso in moto l’economia.

In America Latina tutto negli ultimi anni è passato al settore privato, finendo nelle mani di un numero ristretto di clan imprenditoriali familiari. Una delle molle che ha fatto scattare, come nel caso del Cile, questa violenta protesta è il costo esorbitante assunto dall’istruzione e dalla formazione che ha azzerato ogni forma di mobilità sociale, innescando una selezione che ha scartato molti, la maggioranza, ai blocchi di partenza. Non a caso lo slogan più ripetuto dai giovani cileni, durante le manifestazioni è stato “Non sono trenta pesos, ma trent’anni di abusi”. Un disagio che grazie ad internet si è globalizzato, diventando, non solo per i cileni ma per milioni di latinoamericani, non più sopportabile e accettabile.

Le cause scatenanti di questa crisi strutturale dei sistemi politici sono da ricercarsi in una pluralità di fattori interni ed internazionali, riconducibili a fenomeni specifici del processo storico latinoamericano di medio e lungo periodo: segnaliamo fra questi le ricadute dell’ assolutizzazione del modello economico neoliberista e le conseguenze che questo ha provocato, riconducibili ad una sorta di “dittatura del materialismo” che ha inficiato tanti aspetti della vita sociale, dei comportamenti, delle prassi politiche, della mentalità.

L’illusione nefasta dello “Stato leggero” che in America Latina si è trasformato, come sostiene Peter Waldmann, in un Estado anómico, incapace di garantire un ordine pacifico e vincolante per tutti e, nello stesso tempo, di offrire le condizioni minime di vivibilità e cittadinanza. Ciò ha prodotto uno smantellamento dei sistemi di welfare, l’arricchimento facile frutto del commercio della droga, la disgregazione dei legami sociali, la frantumazione del tessuto collettivo e una congiunzione esplosiva tra consumismo e povertà, dando vita ad una forma di “fascismo pluralista” in cui le società sono politicamente democratiche, ma socialmente fasciste.

La crisi del “modello economico neo-estrattivista”, fondato unicamente sull’esportazione delle materie prime, soia, rame, petrolio, coca, ha potuto funzionare a prescindere da milioni di persone che non sono servite né per produrre, né per consumare. Ma due altri fenomeni troppo spesso sottovalutati hanno condizionato oltre ogni prevedibile previsione gli scenari politici latinoamericani: il dilagare di una violenza quotidiana e pervasiva e la diffusione delle mafie transnazionali del crimine organizzato.

Dagli anni Novanta si è verificato un travaso di violenza dalla politica alla criminalità. La percezione dell’insicurezza, mista ad un senso diffuso di impunità, è uno degli elementi all’origine della frantumazione, della sfiducia e degli squilibri di meccanismi di coesione sociale. Una violenza che ha cambiato la cultura, le mentalità, le abitudini e i comportamenti dei latinoamericani introducendoli ad una nuova fase storica, quella dell’época del miedo. L’ideologia della sicurezza è il totem che da decenni domina la cultura latinoamericana, all’origine di un business continentale fatto di eserciti privati, sistemi di allarme, reticolati elettronici, compound alternativi, ville-bunker, per boliburgueses.

In America Latina il traffico di cocaina produce circa 500 milioni di dollari di profitti annui. Una potenza di fuoco economico e finanziario in grado di corrompere e destabilizzare ogni tipo di istituzione democratica alterando meccanismi ed equilibri geopolitici. Una geomafiosità che pervade ogni aspetto della società politica, sociale e culturale latinoamericana e che ha dato vita a veri e propri Narcostati.

Sono noti i rapporti delle Nazioni Unite che da anni lanciano allarmi inascoltati secondo i quali l’America Latina è il continente più pericoloso del mondo, anche per quanto concerne la libertà e la tutela dell’informazione. Nella regione latinoamericana si registrano più di centomila omicidi l’anno: una cifra che comprende vittime di estorsioni, femminicidi, violenza domestica, furti, rapine e anche “caduti” delle guerre tra bande rivali. In questa parte del mondo è meglio tacere perché chi indaga o denuncia, prima o poi, rischia la morte.

La reazione delle élite di governo di fronte a queste rivolte è stata quella di sempre, quella della criminalizzazione della protesta sociale, ricorrendo a volte a parole d’ordine paradossal, come “è in atto un attacco alla democrazia”, o “siamo alla vigilia di un colpo di Stato”, giustificando in tal modo il ritorno in campo della polizia e delle forze armate. Saccheggi e violenze che hanno autorizzato, ancora una volta, i militari a tornare sulla scena, in modo a volte ingombrante ed eccessivo. Sebastián Piñera in Cile, Lenín Moreno in Ecuador, Evo Morales in Bolivia, nei momenti acuti della crisi si sono fatti fotografare e riprendere in più occasioni attorniati da un nugolo di militari in tuta mimetica. Anche i caudillosi rossi come Daniel Ortega in Nicaragua e Nicolás Maduro in Venezuela hanno imitato i loro omologhi latinoamericani ricorrendo ai militari per difendersi da nemici interni ed esterni, celebrandoli come baluardi di fedeltà e rettitudine. In Brasile, complice uno Stato assente, si moltiplicano grazie a Bolsonaro le milizie private fatte di militari o poliziotti in pensione, che dettano legge nelle zone più povere delle metropoli, con il pretesto di garantire,“Ordem e Progresso”.

Una serie di condizionamenti internazionali ha inoltre pesato sull’esplosione di questi movimenti di protesta: il palese disinteresse dell’amministrazione degli Stati Uniti di Donald Trump, prigioniera della sua strategia neoisolazionista imperniata nell’American first, con l’eccezione degli sforzi. rivelatisi controproducenti, tesi unicamente a cacciare dal Venezuela Nicolás Maduro che ha prodotto tra l’altro la fuga degli investitori internazionali. La crisi del valore delle commodities più di ogni altro bene ha provocato uno stop alla crescita generando un aumento del debito pubblico, salito al 78% del Pil. Il rassegnato distacco, mascherato da “apparente interesse”, con cui ormai da anni, l’Unione Europea e l’Italia guardano alle vicende di questo “Estremo Occidente”, sostituendo agli impegni concreti retoriche dichiarazioni. L’America Latina è un po’ un vaso di Pandora, attraversato dall’azione non sempre amichevole di potenze esterne come la Cina e la Russia. Quanto sta accadendo in questa parte del mondo è un monito sia all’intero continente sia alla comunità internazionale, a trovare la strada per ridisegnare le forme e i contenuti attraverso cui “reinventare l’istituto della democrazia” e rispondere alle richieste che milioni di persone avanzano riguardo alle ingiustizie prodotte da un sistema economico ingiusto e discriminatorio. Secondo i dati del Latinobarómetro 2018, la maggioranza dei latinoamericani non ha più alcuna fiducia nei confronti della democrazia, tanto che il grado di consenso è sceso a meno del 48%.

Per uscire da questa crisi epocale, espressione, come direbbe papa Francesco, di un cambiamento d’epoca, è necessario liberarci dal dogma “meno Stato e più mercato”, dando vita ad un nuovo modello economico centrato sulla sostenibilità ambientale e sulla difesa delle risorse naturali, in primis quelle rappresentate dal bioma amazzonico.

Creare contesti favorevoli all’affermazione di questo nuovo modello economico ha bisogno in primis del rafforzamento delle capacità degli Stati in temi di governance, in modo da garantire una inedita e paritaria collaborazione tra pubblico e privato in grado di trasformare gli obiettivi delle politiche e gli strumenti legislativi in azioni concrete. In questo quadro la cooperazione regionale, all’interno del subcontinente latinoamericano può aiutare gli Stati a coordinarsi tra loro nelle sedi internazionali, definendo posizioni unitarie su temi prioritari, informandosi reciprocamente su esperienze di successo, nel conseguimento di obiettivi di comune interesse.

Un ruolo centrale assume, a questo livello, la cooperazione in campo tecnologico. Lo sviluppo sostenibile richiede anche la valorizzazione del ruolo e delle capacità di gestione delle risorse da parte delle donne. L’uguaglianza di genere è ancora un obiettivo piuttosto lontano in tutti i pasi latinoamericani in cui la cultura maschilista e patriarcale ha radici molto profonde.

Ma l’America Latina, per esercitare un ruolo leader nella comunità internazionale e non soccombere nel disordine mondiale prodotto dalla globalizzazione, deve rimettere a tema, in modo prioritario ed urgente, il processo dell'unità continentale, rinverdendo gli ideali e i sogni della patria grande, andando oltre una cooperazione solo mercantile e finanziaria, governando in tal modo le convulsioni locali e nazionali.

17 Gennaio 2020
di
CeSPI (articolo introduttivo)