Politica europea delle migrazioni: tra centralità delle esternalizzazioni e violenze verso le persone migranti

Gennaro Avallone
Docente di Sociologia, Università di Salerno

1. Una politica comune fondata sulle esternalizzazioni

La politica sulle migrazioni dell’Unione Europea si fonda sulle esternalizzazioni delle frontiere, dunque su una serie di accordi con stati terzi volti a contrastare la mobilità delle persone provenienti da paesi non europei. Se su tutte le altre misure, compresi i modi in cui far funzionare il sistema comune di asilo, il consenso all’interno delle maggiori istituzioni dell’Unione non c’è e ogni decisione solitamente viene rinviata o delegata alla volontarietà dei singoli Stati, sulla politica di contrasto e filtro delle persone attraverso la delega agli stati terzi c’è, invece, un consenso comune.

Le istituzioni europee, in altri termini, agiscono in maniera determinante secondo una linea di fondo molto precisa, che è quella dello spostamento delle proprie frontiere al loro esterno. Se vista dal punto di vista di chi si ritrova nei campi di prigionia in Libia, nella neve nei paesi balcanici, nelle strade e nelle tende attorno agli hotspot nelle isole greche, o in Turchia, a dormire nelle fabbriche tessili in cui sono occupati in maniera irregolare una parte dei rifugiati siriani, questa modalità di governo della mobilità umana si configura come una politica di violenza delegata.

Questa politica tende a spingere sempre più lontano i confini europei, allontanando, in questa maniera, non solo le persone che vorrebbero raggiungere i paesi dell’UE per mettersi in sicurezza, ma anche la loro presenza nel dibattito pubblico. In questo modo, si persegue l’obiettivo di spostare nello spazio l’azione di contrasto delle persone in fuga, agendo in due direzioni geografiche: verso oriente, mediante gli accordi con la Turchia, le politiche di blocco nelle isole greche e i controlli agiti dalle polizie degli Stati lungo la cosiddetta balcanica, e verso sud, attraverso diversi interventi nel continente africano, trasformati in avamposti politici e militari, soprattutto di pertinenza francese, ma anche, in misura minore, italiana.

2. L’esternalizzazione delle frontiere come politica di pressione sugli Stati-cerniera

La centralità dei processi di esternalizzazione delle frontiere si traduce in un’azione costante di pressione sugli Stati cerniera, che, specialmente nel continente africano, assume i caratteri di una politica di forte presenza e ingerenza da parte dell’Unione Europea, in particolare dei suoi Stati e delle sue economie più forti. Tra questi rientra, tra l’altro, anche lo Stato italiano, che realizza una politica estera rilevante in parte del continente, come è possibile ricostruire, ad esempio, attraverso l’articolo “Corsa al Corno d'Africa: interessi globali e competizione regionale” pubblicato da  Tiziana Corda, Giuseppe Dentice, Maddalena Procopio il 9 ottobre 2018 per Ispi.

La connessione tra esternalizzazione e ingerenza trova conferma nella Agenda europea sulla migrazione del 2015, il documento che sancisce la definizione di una politica comune delle migrazioni. Esso dispone una serie di azioni verso l’esterno, tra cui: 1) la necessità della costruzione dei campi per i richiedenti asilo fuori dai confini UE, sperimentando l’”istituzione in Niger di un centro pilota multifunzionale entro il 2015”; 2) la necessità dell’accordo di partenariato con la Turchia per fermare gli arrivi; 3) “fare della migrazione una componente specifica delle missioni di politica di sicurezza e di difesa comune già in corso in Niger e in Mali, che saranno rafforzate sotto l’aspetto della gestione delle frontiere”.

L’aggiornamento dell’Agenda del 2017 esplicita il fatto che bisogna fermare le migrazioni con diverse misure, come ripreso, successivamente, dal Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo del 2020. Verso Sud, in maniera particolare, questa opzione è stata rafforzata attraverso gli accordi del 2017 del  Governo italiano con il cosiddetto Governo libico, che prevedevano, tra l’altro, l’addestramento della Guardia costiera libica e la legittimazione del riconoscimento dell’Area di ricerca e salvataggio alle autorità libiche: accordi confermati successivamente, nonostante le molteplici notizie disponibili sui membri di tale Guardia costiera, come, ad esempio, evidenziato in un articolo del settimanale L’Espresso del 2019 con il titolo “Gli scafisti e la Guardia costiera? In Libia sono la stessa cosa”. Al tempo stesso, questi accordi rappresentano l’adozione di quelle “risolute misure in cooperazione con le organizzazioni internazionali e gli Stati membri per rafforzare le capacità della guardia costiera libica di affrontare i continui arrivi irregolari in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale”, come riportato nella Comunicazione della Commissione sull’attuazione dell'agenda europea sulla migrazione del 27 Settembre 2017. In questa Comunicazione fu anche ricordato il contributo fondamentale di questi accordi al drastico calo degli arrivi in Italia via mare, riconosciuto come determinante nonostante, al tempo stesso, si evidenziasse la “situazione disperata dei centri di trattenimento”.   

3. Persone sacrificabili

Le condizioni di vita tremende di migliaia di persone intrappolate in Libia sono note da tempo alle istituzioni europee, così come lo sono le complicità istituzionali nel paese africano. Tali condizioni sono conosciute anche dalle popolazioni europee, rese pubbliche da report, inchieste, foto e video almeno dal 2017. Nel frattempo, altri fronti di mobilità si sono riaperti, come quello balcanico, che hanno nuovamente reso di attualità le violenze e le sofferenze che vivono migliaia di persone in fuga ai confini o all’interno dell’Unione Europea, dovute anche ai respingimenti illegali dello Stato italiano in Slovenia, come riconosciuto da un’ordinanza del Tribunale di Roma del 18 Gennaio 2021. D fronte a queste evidenze, alla gravissima situazione di vita di centinaia di migliaia di persone in Libia, Grecia, Turchia e nei Balcani dovuta, anche, alle politiche di blocco decise dalle istituzioni europee o da suoi singoli stati membri in sintonia con le indicazioni della politica comune, un’ampia parte della popolazione europea ha confermato il suo consenso alla politica di accordi con i paesi terzi per contrastare le persone in fuga. In altri termini, c’è un approvazione nelle società dell’UE verso il sacrificio di una parte dell’umanità in cambio di una chiusura ritenuta necessaria per salvaguardare i propri livelli di vita. Questo consenso non si è formato nella paure legate al nuovo coronavirus, ma è di più lungo periodo, rafforzato dalla crisi del 2008-2009, che, in una parte dei paesi europei, in particolare l’Italia, non si è mai pienamente conclusa.

4. Quale politica?

Sono possibili rimedi in questa situazione? Per evitare che l’UE accetti di comportarsi verso le migrazioni secondo il principio per cui ci sono popolazioni sacrificabili va cambiata tutta l’impostazione della politica migratoria, ripensando non solo alla centralità dell’esternalizzazione delle frontiere, ma all’insieme dei rapporti economici e politici nell’intera area euro-mediterranea. Sarà possibile che ciò accada? Questo dipenderà da molteplici fattori, non ultimi dalle rivendicazioni e dalla forza che i movimenti sociali riusciranno a costruire nei prossimi anni nell’intera area.