L’agenda 1325 e i casi di sexual exploitation and abuse ad opera dei peacekeeper
Casi di sexual exploitation and abuse (SEA) nell’ambito delle operazioni di pace ONU risalgono alla fine del secolo scorso. Nel 1999 la scoperta in Bosnia del traffico di donne dell’est Europa a scopo di schiavitù sessuale ad opera della polizia delle Nazioni Unite aveva destato parecchio scalpore[1]. Ancora nel 2004 nell’ambito di MONUC nella Repubblica Democratica del Congo ben sette contingenti nazionali erano stati gli autori di stupri e prostituzione forzata all’interno di un campo rifugiati[2]. Non da ultimo, nell’ambito di MINUSTAH ad Haiti i contingenti pakistano e uruguayano si erano macchiati di violenza sessuale nei confronti di minori[3].
Al di là dell’intrinseca gravità, i casi di abuso e sfruttamento sessuale ad opera dei peacekeeper pregiudicano l’obiettivo della stessa missione di pace: da un lato mettono a rischio la human security della comunità locale, dall’alto producono un sentimento di sfiducia nei confronti degli stessi peacekeeper e di conseguenza della missione e dell’Organizzazione[4]. Per di più contribuisce alla perpetuazione delle strutture patriarcali locali che alimentano lo sfruttamento (soprattutto sessuale) delle donne e che ostacolano il raggiungimento della gender equality, uno degli obiettivi delle missioni per la risoluzione 1325 (UNSCR 1325).
Fu infatti l’Agenda 1325 (2000), Donne, Pace e Sicurezza, a rappresentare la presa di coscienza da parte del Consiglio di sicurezza della gravità del problema. L’obiettivo del Consiglio era “to protect women and girls from gender-based violence, particularly rape and other forms of sexual abuse, and all other forms of violence in situations of armed conflict” attraverso la punizione dei responsabili. Ben otto anni dopo, la seconda risoluzione che compone l’Agenda, la 1820 (2008), reitera l’appello alla lotta all’impunità degli atti di abuso sessuale facendo riferimento alla loro esclusione dai procedimenti di amnistia. La risoluzione si spinge ancora più in là riconoscendo come i SEA vengano utilizzati come una vera e propria tattica di guerra e sottolineando, inoltre, la necessità di affrontare questa criticità attraverso la formazione dei peacekeeper, l’attuazione della politica di Zero Tolerance, l’impiego di donne nel processo di prevenzione, l’utilizzo di possibili sanzioni dirette contro le parti del conflitto responsabili di questi atti e misure statali per “debunking myths that fuel sexual violence”. Nello stesso anno la risoluzione 1888 (2008) compie un ulteriore passo avanti concentrandosi sul potenziamento dell’accesso alla giustizia (con riforme legislative e misure operative per il miglioramento delle indagini e l’accertamento della responsabilità) e dell’assistenza alle vittime (relief and recovery per reinserimento socio-economico) attraverso l’istituzione della figura di un Rappresentante speciale sulla violenza sessuale nei conflitti, di un gruppo di esperti in stato di diritto e violenza sessuale e di Women Protection Advisers (WPA). Nel 2010 la risoluzione 1960 (2010) ha il merito di dare il via a un meccanismo di segnalazione di tipo naming and shaming, una lista di perpetuatori annessa al report annuale del Segretario Generale, utile per adottare misure specifiche. La possibilità di utilizzare targeted sanctions viene istituzionalizzata all’interno della risoluzione 2106 (2013) che riconferma anche il ruolo dei peacekeeper nella prevenzione dalla violenza sessuale, potenziato da addestramento specifico e inserimento di figure femminili tra le fila. Novità assoluta della risoluzione 2122 (2013) è invece il riconoscimento dell’assistenza sessuale e riproduttiva alle vittime di violenza sessuale e dell’intersezionalità del problema che colpisce anche il sesso maschile. Si deve aspettare però la risoluzione 2242 (2015) per trovare nelle parole del Consiglio di sicurezza l’esplicito riferimento a sexual exploitation and abuse ad opera dei peacekeeper. All’interno di questa risoluzione il Consiglio di sicurezza esprime una profonda preoccupazione per le accuse di SEA nei confronti del personale ONU. Il Consiglio ritiene necessari una più robusta attività di formazione e controllo del personale nella fase pre-impiego, indagini più rapide e accurate e potenziamento dell’accesso alla giustizia. Sono presentate poi alcune proposte per la gestione di questo fenomeno: pubblicazione di denunce ed esclusione dalle operazioni di pace dei TCC (Troop Contributing Countries) ripetutamente coinvolti in SEA (esclusione revocabile a condizione della cessazione delle violazioni e adozione e implementazione di piani d’azione in linea con le politiche ONU). Sulla falsariga di questa risoluzione, la successiva 2272 (2016) riguarda la GBV (gender-based violence) realizzata dai peacekeeper e dimostra una particolare preoccupazione per le accuse di SEA nell’ambito dell’operazione MINUSCA (Repubblica Centrafricana). Con l’obiettivo di fermare tali violenze viene dato l’incarico al Segretario Generale di rimpatriare le unità di peacekeeping coinvolte in maniera sistematica in casi di SEA, di raccogliere e conservare le prove (nel rispetto della privacy delle vittime) e di controllare le credenziali del personale (ricercando l’assenza di una storia di cattiva condotta sessuale durante il servizio ONU). L’ultima risoluzione da citare è la 2467 (2019) che si concentra prevalentemente sulla riparazione e il supporto alle vittime e ai bambini nati da SEA attraverso un survivor-centred approach. Esso è basato su una risposta non discriminatoria, inclusiva, specifica e rispettosa dei diritti umani. Questo approccio è affiancato da un’attività preventiva che tende a rispondere direttamente alle root causes della conflict-related sexual violence (CRSV). A ciò si aggiunge anche il compito di sensibilizzazione nei confronti del sesso maschile, vulnerabile allo stesso modo a questo tipo di violenza. Purtroppo l’adozione di questa risoluzione ha affrontato alcune difficoltà. La mancanza di unanimità (con l’astensione e la minaccia di veto di Stati Uniti, Cina e Russia) ha riguardato alcune questioni controverse: il linguaggio sulla salute sessuale e riproduttiva nel contesto di un “approccio incentrato sul sopravvissuto” alla violenza sessuale connessa ai conflitti (contraccezione di emergenza, aborto sicuro, prevenzione e trattamento dell’HIV), l’istituzione di un meccanismo formale su CRSV (gruppo di lavoro e organo sussidiario formale), il riferimento alla Corte penale internazionale e il riconoscimento della comunità LGBT come gruppo vulnerabile.
Nel 2003, il Segretario Generale Kofi Annan pubblicava il Bollettino Special measures for protection from sexual exploitation and abuse inaugurando la cosiddetta Zero Tolerance Policy nei confronti dei casi di SEA. Si tratta di uno strumento complementare e operativo rispetto all’Agenda 1325 e del primo documento normativo onusiano incentrato esclusivamente sul fenomeno di sfruttamento e abuso sessuale. Nonostante tale primato, nel documento risultano assenti misure punitive, fatta eccezione per il congedo[5]. Quest’ultimo, però, si rivela una sanzione imperfetta in quanto non consente di distinguere tra la gravità delle diverse violazioni che concorrono a determinare il fenomeno di SEA.
L’ampiezza del fenomeno ha portato già da tempo numerosi studiosi a interrogarsi sulle cause profonde che spingono i peacekeeper a perpetuare SEA. Secondo alcuni studiosi, la causa sarebbe da ricercare all’interno della composizione dei contingenti. Attualmente, nonostante gli sforzi avviati dalla UNSCR 1325, i contingenti implicati nel peacekeeping sono a maggioranza maschile[6]. Si sostiene dunque che aumentare la percentuale della presenza femminile all’interno di queste fila porterebbe a una maggiore responsabilizzazione degli uomini in uniforme (come affermato nel seminario “Mainstreaming a gender prospective in multidimentional Peace Operations”, 2000). La presenza femminile dovrebbe agire da deterrente “diluendo la mascolinità”, nonché aumentare l’attività di reporting e il senso di responsabilità[7]. Purtroppo, ciò potrebbe non verificarsi. Le donne peacekeeper potrebbero non “femminizzare” affatto il contesto securitario in cui vengono poste: in parte per volontà di essere accettate all’interno del gruppo, in parte per lealtà allo Stato nazionale, finendo per occultare i casi di SEA. Ciò determinerebbe un tradimento della fiducia delle donne assistite e del mandato della missione[8]. Non è realistico pensare che l’aumento della presenza delle donne all’interno di un contingente possa effettivamente produrre un cambiamento nella condotta (sessuale) del gruppo poiché si ignorano le reali root causes del problema ponendo il fardello della soluzione sulle spalle delle donne[9]. La “soluzione femminile” devia dalla responsabilità di agire sul piano preventivo potendo anche inficiare il miglioramento del gender balance all’interno del peacekeeping (rispetto all’obiettivo dell’Agenda 1325)[10].
Non deve essere ignorato inoltre il contesto post-conflittuale in cui si originano questi abusi. La popolazione locale si trova in una situazione di vulnerabilità determinata da una serie di fattori quali: disparità nel rapporto con i peacekeeper, assenza di rule of law, corruzione, sistemi giudiziari deboli, collasso economico, povertà e disoccupazione[11]. La pervasività del fenomeno di SEA si osserva proprio in connessione con questi due ultimi elementi. È a volte la stessa popolazione che volontariamente diventa vittima degli abusi dei peacekeeper essendo la prostituzione l’unica fonte di guadagno sicuro[12]. Proprio per questo motivo queste donne si rendono meno disponibili a cooperare nelle indagini contro i peacekeeper per timore che venga eliminata la loro unica fonte di sussistenza[13]. Ciò determina una vera e propria forma di dipendenza dalla missione.
È importante analizzare anche il contesto di provenienza degli stessi peacekeeper. Sulla questione si è espresso uno studio del 2016 ad opera di Karim e Beardsley sul caso di abusi sessuali nell’ambito di MONUC/MONUSCO nella Repubblica Democratica del Congo, la missione ONU con più alto tasso di denunce per SEA. In linea di massima (considerando che i casi SEA sono spesso non denunciati), i contingenti che non risultano coinvolti in denunce di SEA sono quelli che possiedono una cultura nazionale di gender equality, registrano un alto tasso di frequenza femminile a livello scolastico primario e di occupazione femminile, possiedono una forma di protezione legale per le donne, realizzano un PIL alto e registrano un basso tasso di casi di violenza sessuale[14]. L’analisi dei contingenti nazionali accusati di SEA nell’ambito di MONUC/MONUSCO (India, Pakistan, Nepal, Marocco, Tunisia, Sudafrica – con il numero più alto di denunce – e Uruguay) ha proprio dimostrato come la maggior parte di questi TCC non registravano indici positivi a livello di partecipazione lavorativa e scolastica, sicurezza fisica e tasso di violenza sessuale ad opera di militari. Naturalmente un altro fattore a essere analizzato è stato la presenza di donne all’interno dei contingenti accusati. Confermando i timori iniziali, questo sembra non abbia particolarmente influito sulla condotta dei peacekeeper-abusatori.
Dal punto di vista giuridico, il problema di SEA non è imputabile all’ONU, che effettivamente non possiede nessuna responsabilità legale[15][16]. Allo stesso tempo però i casi di SEA sono interpretati come un “problema dell’ONU”. Ciò deriva dall’esistenza di una political boundary per la quale sarebbe incauto per l’Organizzazione esternalizzare il fenomeno individuando uno o più specifici contingenti coinvolti in sex scandals[17]. Ciò non vale però sul piano legale: la stessa Zero Tolerance rappresenta un’esternalizzazione[18] poiché esclude l’azione illecita dell’Organizzazione dal momento che l’azione penale si rivolge al di fuori di essa[19].
Sul piano pratico, l’ONU si trova a dover cercare invece, con risultati non ottimali, una soluzione al problema. Un elemento determinante che consentirebbe di delineare una risposta molto più efficace e vicina alle vittime è quella di applicare il cosiddetto human rights-based approach. La soluzione è porre al centro della gestione del fenomeno di SEA le vittime intese come rights-holders. Ciò consentirebbe da un lato di trattare le vittime come esseri umani multidimensionali (e non come soggetti legali piatti e passivi), dall’altro di considerare gli Stati come soggetti direttamente e legalmente imputabili per le violazioni commesse[20]. In più, ragionare in un framework di diritti umani porterebbe a indagare le root causes del problema e rafforzerebbe la definizione di SEA. Questa appare attualmente come una “definizione ombrello” che diluisce e delegittima le differenze tra le varie fattispecie che descrive, non riconoscendo alla popolazione locale una capacità di autodeterminazione sessuale[21]. In aggiunta, gli studiosi della materia hanno avanzato proposte quali la necessità di applicare le indicazioni del Bollettino del 2003 a tutte le categorie di personale peacekeeping rendendole vincolanti, l’eliminazione della giurisdizione esclusiva dei TCC, la conclusione di una convenzione internazionale che restringa l’immunità del personale ONU, la creazione di corti marziali in loco con giurisdizione sui casi di SEA avvenuti durante interventi internazionali (sia civili che militari), la predisposizione di una tecnologia basata su DNA e impronte digitali, la promozione dell’autosufficienza per le donne con conseguente eliminazione della loro dipendenza dall’aiuto umanitario e la certificazione da parte dei TCC dell’assenza di precedenti misconduct durante operazioni di peacekeeping da parte del personale[22].
In conclusione, la stessa esistenza del fenomeno di sexual exploitation and abuse ad opera dei peacekeeper evidenzia una preoccupante discrasia tra l’impegno formale dell’ONU, nello specifico attraverso l’Agenda 1325, e i risvolti sul campo. Tanto la Zero Tolerance Policy quanto l’evoluzione normativa nell’ambito dell’Agenda hanno riconosciuto la drammaticità e la pervasività del fenomeno. Nonostante ciò, i casi di SEA persistono, minacciando la credibilità delle missioni di pace e vanificandone gli obiettivi. Le soluzioni proposte, che vanno dall’aumento della partecipazione femminile nel contingente (la cui efficacia è stata criticata) alla riforma dei meccanismi di denuncia e sanzione, convergono verso la necessità di superare il limite politico che ostacola il pieno riconoscimento della responsabilità. L’adozione di un approccio basato sul rispetto dei diritti umani e l’attribuzione di una responsabilità legale ai TCC rappresentano il punto di partenza per affrontare le cause profonde, debellare l’impunità e assicurare che il personale ONU non contribuisca a insicurezza e violenza.
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