Promuovere l’Agenda “Donne, Pace e Sicurezza” per una società più equa e inclusiva

Aurora Ianni e Mattia Giampaolo

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A venticinque anni dalla Risoluzione 1325/2000 ed in occasione dell’adozione del quinto piano d’Azione Nazionale italiano, il CeSPI lancia un Forum di confronto, scambio e analisi sul presente e futuro dell’agenda “Donne Pace e Sicurezza” (Women, Peace and Security WPS). L’iniziativa intende promuovere un dialogo approfondito sulle strategie per rafforzare la diffusione e l’attuazione dell’Agenda WPS sia a livello internazionale che nei singoli contesti Paese, attraverso l’analisi delle principali criticità in termini di implementazione e la condivisione di buone pratiche replicabili. Il Forum è rivolto a rappresentanti della società civile, think tank, decisori politici, mediatrici e mediatori, accademiche ed accademici, attiviste ed attivisti per i diritti delle donne, operatrici ed operatori umanitari a livello internazionale. Si accettano contributi redatti in italiano, inglese, francese e spagnolo.

Alcune note di contesto

Il 31 ottobre del 2000 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 1325, ponendo le donne al centro della pace e della sicurezza internazionale. Si tratta della prima Risoluzione volta a considerare esplicitamente l’impatto delle guerre sulle donne e il loro contributo nella risoluzione dei conflitti e per una pace durevole. L’agenda WPS si basa sui pilastri della prevenzione, partecipazione, protezione, relief and recovery intendendo richiamare la comunità internazionale sulla necessità di: prevenire tutte le forme di violenza contro le donne e le ragazze in situazioni di conflitto e post-conflitto; promuovere la partecipazione paritaria delle donne e l’uguaglianza di genere nei processi decisionali in materia di pace e sicurezza, a tutti i livelli; tutelare le donne da tutte le forme di violenza sessuale, di genere e la promozione dei loro diritti, incluso nelle situazioni di conflitto ed emergenza; promuovere misure di soccorso e di recupero per affrontare le crisi internazionali attraverso una prospettiva di genere, tra gli altri.

Nonostante dal 2000 siano state approvate altre nove risoluzioni[1] che dettagliano maggiormente i campi di azione e applicazione dell’Agenda WPS, le donne rimangono marginalizzate nei processi decisionali e in quelli di ricostruzione, così come in larga parte vittime di violenza in situazioni di conflitto. Secondo l’ultimo rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite sulla protezione dei civili nei conflitti armati, la popolazione civile, in particolare donne e bambini, continua a sopportare le conseguenze più gravi delle guerre, subendo morti, atti di tortura, sfollamenti forzati. Nel 2023, più di 600 milioni di donne e ragazze vivevano in zone colpite da conflitti, con drammatiche ricadute in termini di accesso ai servizi sanitari, incluso in termini di salute riproduttiva e mentale, e la percentuale di donne uccise è raddoppiata rispetto all’anno precedente. Nel 2024, l’ONU ha verificato circa 4.500 casi di violenza sessuale legata ai conflitti - anche se il numero reale è probabilmente molto più alto - in cui il 93% delle vittime erano donne e ragazze. Inoltre, le ragazze che vivono in situazioni di conflitto hanno una probabilità 2,5 volte maggiore di non frequentare la scuola rispetto alle ragazze che non vivono in tali contesti.   

Pur subendo le conseguenze delle guerre in maniera sproporzionata, le donne continuano ad essere pressoché escluse dai negoziati di pace e dalla mediazione dei conflitti.  Nel 2023, solo il 9,6% dei negoziatori, il 13,7% dei mediatori e il 26,6% dei firmatari di accordi di pace e di cessate il fuoco era costituito da donne. Per citare alcuni esempi, in alcuni processi negoziali, come nel caso di Libia o Yemen, le delegazioni delle parti non includevano neanche una donna e così anche prima della guerra a Gaza e nei colloqui per il cessate il fuoco successivi al 7 ottobre 2023, le donne sono state sistematicamente estromesse dai negoziati politici tra israeliani e palestinesi.

La marginalizzazione nei processi decisionali e nella vita politico-istituzionale va di pari passo alle discriminazioni sociali ed economiche, che minano la sicurezza delle donne e ne compromettono le possibilità di leadership. Il Global Gender gap 2025 sottolinea come nessuna economia su 148 Stati analizzati abbia ancora raggiunto la piena parità di genere. Sebbene la partecipazione delle donne alla forza lavoro sia salita a livello globale al 41,2% nel 2024, il dato rimane ancora troppo basso, oltre al fatto che il lavoro delle donne è ancora in larga parte concentrato in settori poco remunerativi.

L’accesso equo alle opportunità lavorative e ai servizi, così come quello relativo ai processi decisionali, costituisce una questione trasversale che assume particolare rilevanza anche in termini generazionali. In questo quadro le giovani generazioni risultano tra le più colpite dalle ricadute delle crisi economiche, sociali e politiche, soprattutto in contesti già segnati da fragilità strutturali. Le conseguenze si manifestano in forme multiple, tra cui l’interruzione dei percorsi formativi, l’ingresso nel mercato del lavoro in condizioni precarie e prive di tutele, e la persistente marginalizzazione nei processi di sviluppo socioeconomico. Il loro ruolo viene spesso ridotto a quello di beneficiari passivi, piuttosto che riconosciuto come soggetto attivo di cambiamento. Tale esclusione compromette non solo la capacità di risposta alle crisi in atto, ma anche la possibilità di costruire percorsi di sviluppo sostenibile e inclusivo a lungo termine. All’interno di tali dinamiche, le giovani donne appaiono particolarmente vulnerabili. E questo vale anche in contesti segnati da nuove sfide, come i cambiamenti climatici, che mettono a rischio la sicurezza umana e l’accesso a risorse primarie, come acqua, cibo ed energia.  

A 25 anni dall’adozione della Risoluzione 1325 “nonostante gli importanti progressi normativi, l’attuazione dell’agenda WPS rimane disomogenea, criticamente sottofinanziata e troppo spesso esclude le voci e la leadership di coloro che sono maggiormente colpiti da conflitti e crisi.”[2] Se i progressi nell’avanzamento dell’Agenda WPS sono ancora lenti e frammentati, risulta necessario analizzare le cause e le possibili soluzioni per favorirne una piena attuazione, specialmente in un contesto globale infiammato dai conflitti e che rischia di minare ulteriormente le possibilità di rafforzamento del ruolo delle donne nella pace e nella sicurezza.

Alla luce dell’esperienza che il CeSPI ha maturato negli ultimi anni sul tema abbiamo isolato alcuni aspetti critici in termini di implementazione, con l’idea di stimolare degli spunti di dibattito volti a condividere esperienze e a proporre nuove strade per la promozione dell’Agenda WPS[3].

Adottare l’Agenda, ma come implementarla?

Per la realizzazione dell’Agenda le Risoluzioni del CdS identificano un’ampia serie di compiti in capo agli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui dotarsi di Piani d’Azione Nazionali che recepiscano concretamente il contenuto delle Risoluzioni sia sul piano interno[4], sia nei rapporti internazionali con altri Stati. Sebbene un numero crescente di Stati (110 al Settembre 2024) abbia adottato Piani d’Azione Nazionali, lo sviluppo di tali strumenti non garantisce necessariamente un’effettiva implementazione né un miglioramento concreto degli indicatori relativi alla parità di genere. Questo perché “l'adozione di standard legali elevati da sola non è sufficiente a colmare i divari di genere”. Di fatto in più di un caso, la trasposizione dell’Agenda a livello nazionale sembra rispondere a logiche di accreditamento nei confronti della comunità internazionale, piuttosto che ad un reale progetto politico e sociale di avanzamento dei suoi principi. Un indicatore in questo senso è che l’Agenda risulta spesso sottofinanziata e/o priva di budget dedicati, ponendo delle serie criticità in termini di implementazione. Come indicato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite è necessario “colmare il divario tra le priorità e gli impegni politici espressi in materia di donne, pace e sicurezza e i finanziamenti necessari per realizzarli, soprattutto nei bilanci nazionali”.

In diversi contesti Paese, infatti, permangono delle criticità rispetto all’allocazione di risorse specifiche per l’implementazione dei Piani d’Azione, così come rispetto al monitoraggio degli obiettivi perseguiti e dei risultati attesi. Il rischio, in questi casi, è quello di ridurre il PAN ad un mero quadro teorico di riferimento.

In questa prospettiva, la questione della diffusione dell’agenda si conferma particolarmente rilevante. A livello internazionale, numerosi network, tra cui le reti di donne mediatrici, sono attivamente impegnate nell’advocacy e nella sensibilizzazione sul ruolo delle donne nella pace e sicurezza. Tuttavia, in molti contesti nazionali, la conoscenza dei PAN, del loro funzionamento e dei loro obiettivi risulta ancora poco diffusa e circoscritta principalmente agli operatori del settore, sia in ambito istituzionale sia nella società civile. Una diffusione più capillare attraverso campagne di advocacy dal nazionale al locale, come le regioni, province e i comuni, così come lo scambio e il networking tra differenti organizzazioni della società civile operative sul terreno potrebbe inoltre aiutare a sensibilizzare un più vasto pubblico sui cardini dell’Agenda, raggiungendo una copertura più ampia di beneficiari. In tale prospettiva, le nuove tecnologie potrebbero assumere un ruolo cruciale. Sia in termini di sensibilizzazione che di mobilitazione, negli ultimi decenni, hanno acquisito un’importanza particolare i social network così come canali audio-visivi nelle principali piattaforme digitali. L’analisi delle modalità attraverso cui promuovere una diffusione partecipata e inclusiva nei diversi contesti territoriali potrebbe costituire un punto di avvio significativo per l’emersione di temi di discussione e approfondimento.

Dal globale al locale: tradurre l’agenda nei diversi contesti

Negli ultimi dieci anni si è assistito a un’intensa stagione di mobilitazioni popolari, spesso caratterizzate da una significativa partecipazione femminile e delle giovani generazioni. In particolare, i movimenti sviluppatisi nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa - caratterizzata da un tasso di popolazione giovane superiore alla media - hanno spinto sia regimi consolidati sia nuovi governi ad avviare processi di riforma inclusivi, almeno a livello formale, anche di aspetti legati ai diritti di genere. Sebbene in molti casi si è trattato di riforme prevalentemente simboliche o di facciata, esse hanno comunque rappresentato segnali di trasformazione, aprendo spazi di attenzione e discussione su temi precedentemente marginalizzati o nuovi. Tra questi, l’adozione dei PAN relativi all’Agenda Donne, Pace e Sicurezza che ha tuttavia posto alcune problematiche, tra cui la difficoltà di tradurre e adattare efficacemente i suoi principi generali ai diversi contesti locali.  Considerando le differenze culturali, religiose, politiche e sociali in uno stesso contesto nazionale la necessità è quella di comprendere a quali donne ci si rivolge, a quali territori, a quali autorità e a quale società civile. Infatti, nonostante alcuni principi abbiano carattere universale, non è raro che essi vengano recepiti in maniera diversa secondo le particolarità locali specialmente nei contesti in cui il divario di sviluppo urbano/rurale è più marcato.  

In tal senso, si è fatta più volte strada una prospettiva secondo cui i paesi del cosiddetto Global South non dovrebbero essere meri destinatari passivi di agende formulate nel Global North, bensì attori centrali nella loro definizione e attuazione. Il rischio, frequentemente denunciato, è che queste vengano calate dall’alto in contesti profondamente diversi da quelli nei quali sono state originariamente concepite, riproducendo logiche e approcci che alcuni autori definiscono di stampo coloniale.

In molte realtà, infatti, l’implementazione risulta problematica proprio perché i valori e i diritti su cui si fonda l’agenda sono recepiti e declinati secondo modalità culturali e politiche differenti. In Tunisia, ad esempio, diverse organizzazioni della società civile hanno evidenziato come il primo PAN del 2018, sebbene basato su ampie consultazioni istituzionali e con la società civile, non ha incluso la prospettiva delle donne che vivono in zone rurali, di confine o provenienti da aree svantaggiate, che pur sono le più esposte a discriminazione, violenza, terrorismo e radicalizzazione. Inoltre, nonostante un arsenale giuridico all’avanguardia, almeno rispetto agli sviluppi dal 2011 e fino al 2021, le norme sociali non hanno seguito la stessa evoluzione in tutte le parti del Paese: le donne che abitano nelle regioni costiere hanno recepito le innovazioni legali, ma lo stesso non si può dire per le donne in ambito rurale o nelle regioni interne.

La traduzione dei principi universali a livello nazionale richiede perciò un processo di scambio, confronto e dibattito tra le diverse realtà istituzionali, sia nazionali che locali, nonché con la società civile attiva a tutti i livelli, compreso quello grassroot. Comprendere in che modo tale approccio possa assicurare che vengano considerate tutte le donne, incluse coloro che vivono in contesti marginalizzati, poveri, rurali o decentrati, potrebbe facilitare una localizzazione adeguata dei principi generali dell’Agenda Donne, Pace e Sicurezza, promuovendone un’implementazione efficace.

Rivedere e ampliare il concetto di sicurezza

Sebbene il concetto di sicurezza venga frequentemente associato all’assenza di conflitto armato, una tale definizione appare oggi ampiamente insufficiente per coglierne la complessità. Le sfide contemporanee che mettono a rischio la vita e il benessere di milioni di individui vanno ben oltre il campo della guerra convenzionale. Lo dimostrano, seppur indirettamente, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 che evidenziano come l’accesso ai servizi essenziali, la disponibilità di risorse primarie e l’attenzione alle dinamiche legate ai cambiamenti climatici siano elementi centrali per la costruzione di società inclusive, resilienti e sostenibili e pacifiche.

Pur avendo progressivamente allargato il novero delle sfide alla sicurezza delle donne dalla mera accezione di conflitto armato, molti Piani d’Azione Nazionali hanno mantenuto una concezione ‘militarizzata’ dell’Agenda. Specialmente alcuni Paesi che hanno adottato il PAN senza attraversare una fase di conflitto vivo hanno considerato la ‘partecipazione’ delle donne alla pace o alla prevenzione dei conflitti principalmente come strumenti per migliorare operazioni di sicurezza tradizionali, ponendo l’accento sul rafforzamento del personale femminile all’interno delle forze armate nazionali o nelle missioni di peacekeeping. Se da un lato è vero che il numero di conflitti armati è tornato ad aumentare rimettendo prepotentemente l’uso della forza al centro della ‘soluzione’ delle controversie internazionali, i fattori che minacciano la ‘sicurezza’ sono sempre più vari e annoverano, tra gli altri, anche pandemie e cambiamento climatico il cui impatto sproporzionato sulle donne è ancora poco considerato all’interno dei Piani d’Azione Nazionali. Dall’altro, questo approccio non si focalizza sulle cause profonde dei ‘conflitti’ come le disuguaglianze socioeconomiche e la povertà.

L’intersezione di questi fattori impone una ridefinizione del concetto stesso di sicurezza, che non può focalizzarsi principalmente sulla dimensione militare o sull’assenza di conflitto. È necessario investire maggiormente sulla prospettiva olistica, che dà all’interno della categoria concettuale di sicurezza un peso preponderante all’accesso equo e garantito a risorse vitali, a servizi pubblici di qualità e a opportunità economiche e sociali. Tale approccio risulta particolarmente rilevante nei paesi del cosiddetto Global South, dove oltre ai casi di conflitti armati, crisi socioeconomiche erodono i servizi di base, limitano l’accesso alle risorse primarie e la partecipazione al mercato del lavoro, specialmente delle donne. L’implementazione dell’agenda WPS deve dunque dare priorità al concetto di sicurezza umana, ponendo le donne al centro della diplomazia, delle politiche di costruzione della pace, di ricostruzione delle comunità, di ripresa economica, assistenza ed integrazione sociale, assicurando che queste siano sensibili al genere fin dalla loro definizione.

Invitiamo le/i partecipanti a riflettere sugli spunti emersi e a formulare proposte concrete per un'azione più incisiva degli attori istituzionali, e della società civile a vari livelli, per la promozione dell’Agenda Donne Pace e Sicurezza

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[1] 1820, 1888, 1889, 1960, 2106, 2122, 2242, 2467 e 2493

[2] Dichiarazione congiunta al termine della Women, Peace and Security (WPS) International Conference, tenutasi a Sarajevo a giugno del 2025; https://bosniaherzegovina.un.org/sites/default/files/2025-06/WPS%20International%20Conference%20Sarajevo%20Pledge%20DRAFT.pdf

[3]Pur risultato di analisi di casi studio Paese specifici, tali questioni sembrano di fatto trovare replicabilità in diversi contesti geografici, oltre ad essere già stati oggetto di attenzione della letteratura sul tema.

[4] (Risoluzione 1889/2009)