Ripensare la Politica Estera Femminista: giustizia, potere e decolonialità nelle relazioni internazionali contemporanee

Maria Nella Lippi
Responsabile Programma Giustizia di Genere – Oxfam Italia

Sin dagli anni Novanta, la Politica Estera Femminista (FFP) è stata presentata come una risposta etica e politica capace di spostare il baricentro della diplomazia internazionale: dal potere alla cura, dalla forza alla giustizia, dall’interesse al diritto. Nel 2014 la Svezia introdusse la prima politica estera femminista, integrando l’uguaglianza di genere e i diritti umani nelle sue strategie diplomatiche e di sicurezza[1]. Promossa dall’allora Ministra degli Esteri, la politica estera femminista si ispirava alla Risoluzione ONU 1325 su Donne, Pace e Sicurezza, che riconosce la partecipazione femminile come fattore di stabilità e pace duratura. La FFP ne amplia l’ambito, estendendo l’azione a tutta la politica estera, dalla cooperazione allo sviluppo alla diplomazia, dal commercio alla sicurezza. L’esperimento svedese divenne un modello di riferimento per altre nazioni occidentali che, negli anni successivi, incorporarono l’approccio di genere nella propria azione esterna.

Nel contesto geopolitico attuale, le guerre regionali e globali, la crisi climatica, l’arretramento sui diritti civili, le profonde diseguaglianze economiche e le violenze di genere strutturali, disegnano un quadro in cui la sicurezza tradizionale, intesa come difesa dei confini e tutela degli interessi nazionali, appare profondamente inadeguata a garantire la sopravvivenza collettiva e la sicurezza umana. La FFP si propone come un tentativo di ridefinizione delle regole della politica estera, ambendo a promuovere un nuovo lessico politico in cui la pace, la parità di genere, la democrazia sostanziale e la sostenibilità ambientale divengano dimensioni interdipendenti. Se da un lato essa rappresenta una promessa di trasformazione, è anche un concetto contestato che presenta ambiguità nella sua applicazione. La sua traduzione operativa si muove dentro numerose tensioni contrapposte: tra idealismo e pragmatismo, tra discorso emancipativo e appropriazione istituzionale, tra l’urgenza di un’applicazione concreta e il rischio di ridursi a simbolismo formale. Interrogare questi limiti è essenziale per evitare che la FFP venga svuotata del suo potenziale trasformativo e per garantirne una realizzazione coerente con i principi di giustizia di genere, decolonialità e partecipazione dal basso.

Questo articolo si basa in larga parte nell’esperienza maturata da Oxfam a livello europeo e globale nell’elaborazione di raccomandazioni per una politica estera femminista come strumento di trasformazione strutturale delle relazioni internazionali. In particolare, nasce all’interno del lavoro realizzato dalla piattaforma europea della confederazione di Oxfam International sulla giustizia di genere, alla quale partecipano numerose affiliate di Oxfam, avvenuto in concomitanza con il percorso di preparazione e partecipazione alla Quarta Conferenza Ministeriale sulla Politica Estera Femminista, promossa dal Ministero francese per l’Europa e gli Affari Esteri. L’obiettivo del lavoro della Confederazione è stato quello di interrogarsi su come superare i limiti evidenziatisi nell’applicazione pratica della FFP (derive eurocentriche, cooptazione neoliberale) e di integrare in questo approccio una prospettiva realmente decoloniale e plurale, che si può realizzare solo attraverso la sostanziale partecipazione dei movimenti femministi e della società civile del Sud Globale nella definizione delle politiche estere europee.

La politica estera femminista come paradigma ancora in costruzione

Le prime formulazioni di FFP provengono da contesti europei e nordamericani, segnati da una tradizione di femminismo liberale. Tale impostazione, pur fondamentale per l’affermazione dei diritti delle donne, tende a universalizzare un modello di emancipazione fondato sull’individualismo, sulla cittadinanza e sull’uguaglianza formale. Questo approccio, se esportato acriticamente, rischia di trasformarsi in una forma di imperialismo normativo che riproduce le gerarchie coloniali nel campo delle relazioni internazionali. Inoltre, le studiose femministe e di genere hanno mostrato come la gestione della reputazione statale nelle democrazie liberali si fondi spesso su logiche di potere eteronormative e razzializzate, che perpetuano e occultano un ordine patriarcale e coloniale. In questa prospettiva, l’adozione di politiche estere femministe da parte dei Paesi del Nord globale può essere interpretata non tanto come un reale processo di trasformazione, quanto come una strategia di gender washing e cooptazione funzionale al consolidamento della legittimità e del potere statale.[2]

Una politica estera femminista autentica deve essere coerente con una politica interna trasformativa, capace di tradurre i principi di giustizia, equità e interdipendenza in scelte politiche concrete. Non può dunque limitarsi a un’azione retorica sul piano diplomatico, ma deve radicarsi in una visione sistemica in cui la politica interna e quella estera si rispecchiano reciprocamente, alimentandosi a vicenda. Come sottolineato anche dalle più recenti riflessioni della società civile globale, tra cui Oxfam International, la politica estera femminista non può esistere in isolamento.

Al centro di questa prospettiva vi è il riconoscimento dei diritti sessuali e riproduttivi come pilastro della democrazia sostanziale e della libertà individuale. I diritti sessuali e riproduttivi sono parte integrante del quadro dei diritti umani ed è perciò indispensabile l’intervento degli Stati per garantire il loro rispetto. Garantire l’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva, alla contraccezione e all’interruzione di gravidanza sicura, significa affermare il diritto all’autodeterminazione dei corpi e al controllo sulle proprie vite. Tale diritto non può essere considerato solo una questione “sociale” o “sanitaria”, ma una dimensione strutturale della sicurezza umana e della giustizia globale: negarlo equivale a perpetuare un ordine patriarcale che priva milioni di persone, soprattutto donne, persone LGBTQIA+ e soggetti marginalizzati, della possibilità di autodeterminarsi.

Una politica estera femminista deve ripensare il lavoro di cura come infrastruttura essenziale del vivere collettivo, dell’interdipendenza umana e della dipendenza dalla natura, da valorizzare come una pratica e un principio radicale per rifondare le relazioni sociali ed economiche[3]. Ciò implica riconoscere il valore economico, sociale ed ecologico della cura, oggi resa invisibile e indebolita da decenni di politiche neoliberali, politiche estrattive e coloniali che l’hanno mercificata, esternalizzata e depoliticizzata. La centralità della cura a livello politico non può ridursi a programmi di “empowerment” femminile o di welfare residuale: richiede una riconfigurazione del paradigma economico in cui la cura diventi criterio centrale di giustizia redistributiva e asse di priorità nelle politiche pubbliche, dall’assistenza alla pianificazione ambientale. Una vera politica estera femminista dovrebbe smantellare il paradigma del PIL e promuove l’adozione di metriche più appropriate e complete del benessere sociale, valorizzando in particolare il lavoro di cura invisibile su cui si fondano le economie. La FFP può contribuire a colmare il divario occupazionale e salariale di genere riconoscendo e finanziando il lavoro di cura all’interno di un quadro normativo pubblico.

Il valore monetario del lavoro di cura non retribuito e domestico svolto da donne e ragazze di età pari o superiore a 15 anni è stimato in almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno a livello globale[4].

Allo stesso modo, una politica estera femminista coerente deve prevedere azioni integrate per prevenire ed eliminare la violenza di genere in tutte le sue forme, riconoscendola non come un’eccezione o un’emergenza, ma come una struttura di dominio radicata sia a livello interno che internazionale.

Inoltre, dando priorità al disarmo civile e al controllo degli armamenti, la politica estera femminista riconosce che affrontare le cause profonde della violenza di genere è essenziale per costruire una pace sostenibile. In generale, l’approccio femminista riconosce che il militarismo indebolisce la società civile e perpetua la violenza. Una visione femminista dà priorità alla costruzione della pace, al disarmo, alla riparazione e alla protezione dei diritti umani, piuttosto che alla militarizzazione.
Ciò include non solo il controllo del commercio di armamenti, ma anche che l’aumento della spesa militare non avvenga a scapito dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS), incluso quello destinato alla giustizia di genere nei contesti di sviluppo, pace e interventi umanitari.

La coerenza tra politica estera e politica interna si misura anche nella capacità dello Stato di rafforzare lo spazio civico e sostenere concretamente i movimenti femministi, e della società civile, spesso primi attori nel promuovere cambiamento, promozione dei diritti e trasformazione delle norme sociali che perpetrano la violenza. Non si tratta solo di “consultarli”, ma di redistribuire potere e risorse per garantire la loro partecipazione effettiva alla definizione delle agende di sicurezza, sviluppo e pace. Oxfam Italia negli ultimi tre anni ha dialogato e collaborato con oltre 80 organizzazioni della società civile (con particolare attenzione a quelle che lavorano sui diritti delle donne e delle persone LGBTQIA+) in Italia ed a livello europeo: dal confronto e dall’analisi dei bisogni svolte emerge una drastica riduzione dei fondi, la difficoltà crescente a lavorare in rete con le Istituzioni e le Autorità pubbliche ed in alcuni contesti il crescere di minacce e rischi per gli/le attiviste (online e di persona).

Una politica estera femminista autentica deve opporsi attivamente ai movimenti anti-gender e al risorgere delle destre autoritarie e neofasciste, che minano i fondamenti stessi della democrazia, della parità e della coesione sociale. La FFP dovrebbe definire il suo impegno concreto nel difendere uno spazio politico aperto, pluralista e democratico, dove la diversità sia riconosciuta come ricchezza e la giustizia come condizione di pace.

Fondamentale è l’integrazione di politiche migratorie e di asilo realmente inclusive, fondate sulla protezione e sul riconoscimento della dignità delle persone in movimento, molte delle quali fuggono proprio da guerre, crisi climatiche e violenze di genere prodotte o alimentate dai sistemi di potere globali. Le persone appartenenti a gruppi marginalizzati, tra cui persone con disabilità, popolazioni indigene, minoranze etniche e razziali, e migranti a basso reddito, affrontano barriere sovrapposte che limitano la mobilità sicura e l’accesso alla protezione, all’assistenza sanitaria e al lavoro dignitoso. È essenziale riconoscere l’intersezionalità delle oppressioni e promuovere politiche di asilo e protezione internazionale che tengano conto delle specifiche esigenze di genere, garantendo accesso equo ai servizi, percorsi di cura e strumenti di autodeterminazione.

Come molti sistemi giuridici, anche il diritto internazionale è stato costruito da una prospettiva prevalentemente maschile, che ha ignorato o assimilato la differenza sessuale ad altri fattori di diversità: il soggetto giuridico di riferimento, apparentemente neutro, riflette in realtà una dimensione maschile sovra estesa, relegando le donne, e in particolare le donne migranti e rifugiate, al ruolo di soggetti marginali che non influenzano pienamente il modo stesso in cui il diritto è costruito, ignorandone i bisogni specifici[5].

Una FFP coerente non può sostenere la militarizzazione dei confini o la esternalizzazione della responsabilità di accoglienza: al contrario, deve promuovere solidarietà transnazionale e protezione effettiva come elementi costitutivi della sicurezza collettiva in ottica inclusiva e di genere.

Conclusioni

La politica estera femminista costituisce un esperimento politico ambizioso e necessario, ma ancora incompiuto. La sua capacità di incidere realmente dipende dalla volontà degli Stati di tradurre i principi di uguaglianza, pace e sostenibilità in pratiche coerenti e strutturali. I movimenti femministi del Sud Globale hanno da tempo integrato approcci femministi nella diplomazia e nei processi di pace, ben prima della nascita del concetto di FFP. Paesi come Cile, Sudafrica, Namibia e Messico stanno sviluppando pratiche di politica estera sensibili al genere, basate su esperienze locali. Il Messico è stato il primo paese del Sud Globale ad adottare una FFP nel 2020. Ha promosso i diritti delle donne a livello internazionale e approvato leggi contro la discriminazione SOGIESC. Nonostante le sfide interne e la pervasività della violenza di genere, i movimenti femministi messicani hanno ottenuto la parità politica e spingono per un sistema nazionale di cura.

Tuttavia, per citare esempi concreti e recenti, diversi Stati che hanno aderito alla FFP hanno reagito in modo contrastante al conflitto armato a Gaza: nel 2024 Germania e Canada hanno sostenuto Israele, mentre Spagna, Colombia e Cile hanno denunciato l’aggressione e richiamato gli ambasciatori. In un contesto segnato da gravi violazioni dei diritti umani e da una prevalenza di vittime civili tra donne, bambini e bambine, si è resa evidente una tensione ed una contraddizione profonda tra i principi proclamati della politica estera femminista e la loro effettiva traduzione nelle pratiche di politica internazionale. La priorità alla protezione dei civili, centrale nella FFP, rischia di restare astratta se non tradotta in azioni coerenti, efficaci e concrete.

Anche l’Italia pur non aderendo alla politica estera femminista, afferma il suo impegno per l’Agenda Donne Pace e Sicurezza (WPS). Attraverso i National Action Plan -cinque dal 2010 ad oggi- si impegna a rafforzare il ruolo delle donne nei processi di pace e decisionali, integrare la prospettiva di genere nelle operazioni di pace e promuovere empowerment femminile e tutela dei diritti umani. Nel periodo 2019-2023, l’Italia ha rappresentato lo 0,9% delle importazioni israeliane di armamenti principali. La maggior parte di queste riguardava elicotteri leggeri (59%); il resto erano cannoni navali (41%). Nel gennaio 2024, l’Italia ha dichiarato che, da ottobre 2023, aveva sospeso tutte le spedizioni di sistemi di armi o materiali militari di qualsiasi tipo verso Israele. Tuttavia, nel marzo 2024, l’Italia ha chiarito che le esportazioni di armi verso Israele erano continuate, ma solo per consegne relative a contratti firmati prima del 7 ottobre, e solo dopo verifiche per assicurarsi che non fossero utilizzate contro civili a Gaza. Questo evidenzia una tensione tra l’agenda WPS e le scelte operative di politica estera.

Una FFP autentica deve essere sostenuta da un processo politico in grado di identificare e eliminare le proprie contraddizioni interne: smettere di essere strumento di immagine, riconoscere la propria matrice eurocentrica affinché si amplino i suoi paradigmi e le sue influenze, promuovere processi di allineamento tra politiche e trasformarsi in un processo collettivo e decoloniale. Ciò richiede una doppia coerenza: tra il piano interno e quello esterno, e tra il linguaggio dei diritti e la distribuzione reale del potere.

Ripensare la politica estera in chiave femminista significa, in ultima analisi, affermare che la sicurezza del mondo non deriva dal controllo, ma dalla giustizia; non dallo sfruttamento economico e dall’estrazione delle risorse ma dalla redistribuzione reale di queste; non dalla forza, ma dalla relazione, dal confronto e dal dialogo. Le dinamiche attuali politiche ed economiche si stanno spingendo pericolosamente verso dimensioni opposte. Per questa ragione, risulta sempre più urgente condividere queste priorità, supportando i movimenti della società civile che ridefiniscono e rivitalizzano le pratiche di diritto e tutela delle persone, e dare spazio ai processi politici che le includano, affinché da percorsi formali si traducano in trasformazioni concrete.

 

[1] Nel 2022, la Svezia ha visto l’insediamento di un governo di centro-destra: il nuovo esecutivo ha annunciato la fine della politica estera femminista. Pur ribadendo l’impegno per l’uguaglianza di genere, il Ministro degli Esteri ha dichiarato che tale approccio non riflette più le priorità della politica estera svedese (Human Rights Watch, Sweden’s New Government Abandons Feminist Foreign Policy, 2022).

[2] S. Chappell & L. Baker, Nation branding and feminist diplomacy after crisis: France’s response to SEA allegations in Central African Republic, European Journal of International Security, 2024.

[3] The Care Collective, Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, traduzione di Marie Moïse e Gaia Benzi, prefazione di Sara R. Farris, postfazione di Jennifer Guerra, Edizioni Alegre, 2021.

[4] Oxfam International, Time to care: Unpaid and underpaid care work and the global inequality crisis (Briefing paper). 2020.

[5] Ilaria Boiano, Le persecuzioni nei confronti delle donne e il sistema di protezione internazionale: quale Paese può dirsi “sicuro” per le donne?, in Differenza Donna, Il diritto femminile alla protezione internazionale, pp. 21–43, 2023.