Un mondo in bilico

di 
Piero Fassino

Come spesso accade tra un vecchio assetto che muore e uno nuovo che non c’è ancora si determina una zona grigia, instabile e insicura, in cui ogni attore si ritiene libero di perseguire i propri obiettivi senza il rispetto di alcuna regola. Ed è esattamente la situazione del mondo di oggi che vive una sorta di “anarchia internazionale” di cui le prime vittime sono le istituzioni sovranazionali messe in mora dal riemergere prepotente della forza come unico criterio di regolazione dei rapporti tra le nazioni. 

Il ritorno della guerra, cioè dell’uso della forza come risoluzione dei conflitti, chiude la lunga era che dalla seconda guerra mondiale ad oggi aveva affidato alla politica e alla diplomazia il compito di garantire al mondo pace e sicurezza. Certo, anche negli ultimi ottant’anni non sono mancate guerre e conflitti armati che, tuttavia, non vedevano le grandi potenze direttamente implicate e si riconosceva alle istituzioni internazionali un ruolo di mediazione e pacificazione. Tutto questo sta alle nostre spalle.

Hanno dato un forte impulso a questo sovvertimento coloro che hanno scelto la guerra. In primis Putin che per riaffermare un ruolo di potenza della Russia non ha esitato ad aggredire l’Ucraina, violando regole e accordi che sancivano il rispetto della sovranità di ogni Paese. E anche la drammatica guerra che sconvolge il Medio Oriente, se pure ha radici antiche, è stata favorita dalla labilità degli equilibri internazionali: Hamas ha pensato di poter scatenare il massacro del 7 ottobre scommettendo su una incapacità di reazione della comunità internazionale e Netanyahu ha trasformato un legittimo diritto all’autodifesa in una punizione collettiva di un intero popolo violando apertamente diritti fondamentali di ogni persona e di ogni comunità.

Non minori responsabilità ha il Presidente Trump: l’offensiva sui dazi ha dissestato le relazioni commerciali; la continua destabilizzazione delle organizzazioni internazionali - dalle Nazioni Unite all’OMS all’Unesco, dal Consiglio ONU dei Diritti umani agli Accordi di Parigi sul clima - mina ogni forma di governance multilaterale; la ricerca di rapporti privilegiati con Cina e Russia propone un mondo governato dai rapporti di forza e dalle sfere di influenza; il voluto ritiro da aree strategiche, quali l’Africa, lascia libero campo ad altri attori - la Cina in primis - e a dinamiche conflittuali locali; l’alleanza transatlantica vacilla sotto i colpi di maglio del Presidente Trump. E i valori liberali e democratici che hanno connotato l’Occidente - per decenni riconosciuti come universali - oggi sono messi in discussione dal riemergere prepotente di pulsioni sovraniste, tentazioni autocratiche e esaltazione di identità etniche e religiose. E si sta dissolvendo così la gerarchia che per decenni ha presieduto all’ordine internazionale.

“Per cinque secoli l’Occidente ha dominato il mondo. Adesso ci siamo anche noi”. È questo il messaggio semplice, ma netto emerso dal vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO) svoltosi a Tianjin in Cina nelle scorse settimane. Un incontro che ha visto la presenza di decine di rappresentanti di Stato o di governo di Asia, Africa, America Latina, in testa i leader di Cina, Russia, India, dando plastica rappresentazione al progetto ambizioso di ridisegnare gli equilibri mondiali archiviando l’egemonia che, dalla scoperta dell’America ai giorni nostri, ha visto il pianeta guidato da Europa e Stati Uniti.
In realtà non sono mancati nel passato tentativi di segno analogo, il più significativo fu la Dichiarazione di Bandung (1955) seguita dalla costituzione nel 1961 del “Movimento dei Non Allineati” promosso da Nasser (Egitto), Nehru (India), Sukarno (Indonesia), Tito (Jugoslavia) e Nkrumah (Ghana) che riunì 120 Paesi di quello che allora veniva definito il “terzo mondo”. Ben presto però quel movimento si spense, riassorbito dalla polarizzazione del rapporto Stati Uniti-Unione Sovietica.

Oggi il contesto è radicalmente diverso. La caduta dell’Unione Sovietica ha archiviato l’equilibrio bipolare organizzato intorno alle potenze nucleari. Ma soprattutto con la globalizzazione Paesi che per decenni erano fuori dal mercato, sono divenuti protagonisti dell’economia globale: non solo Cina e India, ma una numero crescente di Paesi di ogni continente, dal Vietnam alla Corea del Sud, dall’Indonesia al Messico, dall’Angola alla Nigeria, dal Pakistan alle nazioni euroasiatiche, dagli Stati della penisola arabica alle nazioni dell’America Latina.
Ed è muovendo da questo scenario che pochi anni fa si è costituito il cartello dei BRICS, acronimo dalle iniziali dei cinque Paesi fondatori: Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica, i quali nel vertice di Kazan di un anno fa hanno incluso altre nazioni, tra cui Egitto, Iran, Etiopia, Emirati, invitando altri 28 paesi ad unirsi a loro.
Peraltro che gli equilibri mondiali stessero cambiando lo aveva reso evidente il progressivo mutamento di atteggiamento di molti Paesi verso il conflitto russo-ucraino. Se nelle settimane successive al 24 febbraio 2022 la condanna dell’aggressione russa era stata pressoché unanime (solo cinque paesi, inclusa la Russia, non approvarono la risoluzione delle Nazioni Unite), via via quel consenso si è incrinato riducendosi ai Paesi “occidentali”, Stati Uniti, Europa, Canada, Giappone, Australia. E la conferma si è avuta alla riunione del G20 a presidenza indiana dove non si adottò alcuna posizione sul conflitto russo-ucraino.
Il vertice di Tianjin ha dunque rappresentato un salto in avanti, confermando per un verso le ambizioni globali di Pechino, che nel 2049 - centenario della lunga marcia con cui Mao Tse Tung prese il potere - punta ad essere il paese leader dell’economia globale, e per altro verso la rivendicazione sempre più esplicita di molti Paesi di essere protagonisti di un nuovo ordine internazionale. Ne potrete trovare un’analisi approfondita nel recente Annuario CeSPI dedicato al Sud Globale (pubblicato da Donzelli a cura di Stefano Manservisi)
Intendiamoci: ipotizzare uno schieramento antioccidentale non può nascondere le molte differenze che lo percorrono. La difformità di interessi tra Cina e India non sono certo superate da un vertice celebrativo di qualche ora. E così i rapporti critici tra Iran e Arabia Saudita o tra India e Pakistan o tra Brasile e Argentina o tra Egitto e Etiopia. Tuttavia l’obiettivo di ridisegnare l’ordine mondiale c’è e sarà perseguito, grazie alla forza economica e politica di chi lo guida.

Uno scenario che sfida “l’Occidente” e lo interroga. Questione che investe direttamente l’Europa e il suo destino. Se per ottant’anni il legame transatlantico ha garantito la forza dell’Europa, la scelta di Trump di non guardare più all’Europa come ad un partner essenziale, obbliga le capitali europee a ridefinire le proprie politiche.
E due scelte appaiono essenziali per un’Europa che non sia condannata alla marginalità.
La prima è la necessità di affermare una propria “autonomia strategica” attraverso un radicale salto in avanti nel livello di integrazione politica dell’Unione europea, passaggio ineludibile per affrontare sfide sistemiche: un sistema di difesa e sicurezza europeo, una effettiva politica estera, l’Unione bancaria e l’unificazione del mercato dei capitali, l’Unione energetica, la riconversione ecologica, la difesa della democrazia e dello Stato di diritto oggi insidiati dal diffondersi anche in Europa di regimi autocratici. Tutti obiettivi che difficilmente potrebbero essere perseguiti da un’Europa sovrastata dalle gelosie delle sovranità nazionali. Mario Draghi ancora nelle scorse settimane ha più volte sollecitato quel salto richiamando l’urgenza di superare l’afasia che in molti campi caratterizza oggi l’Europa.

La seconda scelta riguarda come l’Europa raccoglie la domanda di “pari dignità” che viene da molti Paesi dell’economia globale. Di fronte al neoprotezionismo dell’attuale amministrazione americana, è l’Europa che deve difendere la libertà dei mercati attraverso Accordi di libero scambio come quelli già sottoscritti in questi anni con Canada, Giappone, Nuova Zelanda, Vietnam, Singapore, Corea del Sud e altre nazioni. In questo contesto grande rilievo assume la sottoscrizione ormai prossima dell’Accordo UE-Mercosul per la realizzazione della più grande l’area di libero scambio su scala mondiale. Così come va nella stessa direzione l’avvio di colloqui tra UE e India. Scelte che non solo rappresentano un nuovo ordine economico globale, ma evitano la contrapposizione “west/rest” da cui nessun beneficio trarrebbero i cittadini del pianeta.
Sfide che investono anche l’Italia - paese fondatore dell’UE, seconda nazione industriale del continente, tra i primi sette esportatori su scala mondiale - chiamata ad assumere fino in fondo scelte che consentano al nostro Paese di essere protagonista della costruzione di un ordine mondiale più libero e più giusto. Il che richiede che chi oggi ha la responsabilità di guidare l’Italia si liberi della pregiudiziale diffidenza con cui Roma guarda a Bruxelles. “Un’Europa che faccia meno, ma meglio”, frase che troppo spesso circola nei palazzi ministeriali, è solo apparentemente di buon senso. Che cosa sarebbe il “di più” che l’Europa dovrebbe dismettere? Quando in realtà non c’è tema di rilievo - dalla politica estera e di difesa alla gestione del climate change, dalla regolazione dei commerci all’unificazione del mercato dei capitali, dall’intelligenza artificiale alle politiche antipandemiche, dall’immigrazione alla rivoluzione digitale - che non richieda strategie europee entro cui collocare le politiche nazionali. E peraltro se non bastassero tutte queste ragioni, le drammatiche guerre alle porte di casa impongono all’Europa di essere e di agire come un soggetto unitario e integrato.

Insomma, proprio di fronte ai tanti cambiamenti che ridisegnano il mondo serve un’Europa capace di stare al passo. Non farlo, vuol dire consegnarsi alla marginalità e al declino.