Verso un nuovo ordine mondiale che tanto nuovo non è
Il vento che spira da oltre oceano
Dall’avvio di questo Forum sono passati cinque mesi e le condizioni di sofferenza nella quale già allora si trovavano i diritti umani sono possibilmente peggiorate. Mentre il massacro del 7 ottobre e la devastazione della Striscia di Gaza rimangono una ferita aperta per l’intera umanità, il quadro geopolitico mondiale sta subendo repentine ma profonde mutazioni i cui obiettivi di fondo sono purtroppo sempre più evidenti, un fatto che dovrebbe allarmare ogni cittadino responsabile. Siamo alle viste di un nuovo ordine mondiale che tanto nuovo non è per come rievoca la diplomazia delle cannoniere di ottocentesca memoria dove le grandi potenze dettavano le condizioni ai paesi più deboli, sottomettendoli. Ma forse siamo addirittura oltre perché la diplomazia delle cannoniere si muoveva pur sempre all’interno di un sistema di regole e di Trattati (che veniva violato, certo). Di Putin sappiamo, ma quando il Presidente americano scrive al suo collega brasiliano Lula qualcosa che suona come “assolvi il mio amico Bolsonaro o ti metto i dazi al 50%”, non fa pensare alle estorsioni stile Il Padrino più che al leader della più imponente democrazia del mondo? Oppure quando inaugura un nuovo carcere in Florida denominato “Alligator Alcatraz” precisando che gli alligatori sono lì per deterrenza, e che correre a zig zag è il modo migliore per non farsi azzannare, non sembra di sentir parlare il boss Savastano in Gomorra?[1]
Al di là di queste miserie, riguardo alla proiezione esterna degli Stati Uniti, l’esercizio del soft power - per decenni una delle sue colonne portanti a cominciare da quel Piano Marshall oggi tanto citato per l’Ucraina - è stato brutalmente messo da parte lasciando ogni spazio all’hard power, al punto che alcuni osservatori hanno sentito il bisogno di riesumare Tucidide e il suo celebre detto “i forti fanno ciò che possono e i deboli soffrono ciò che devono”. Se si guarda ai tre paesi alla testa della cosiddetta politica di potenza – Cina, Russia e Stati Uniti – si può notare come abbiano dei leader che abbracciano con particolare trasporto la narrativa del “make one’s country great again”. Coltivano un racconto di usurpazione di un glorioso passato, spesso manipolato o ingigantito a loro piacimento, alimentando con il risentimento la convinzione che l’unica redenzione possibile sia attraverso la forza o la minaccia di ricorrervi. Governare ed estendere sfere d’influenza a paesi vicini (e anche lontani per effetto della globalizzazione), senza necessariamente assumersene la sovranità, appaiono ai loro occhi come la strada maestra per restaurare il sogno di grandezza. Ma per la Cina, Taiwan sarà sufficiente? L’Ucraina per Putin? E le mire trumpiane si limiteranno a Canada, Groenlandia e Canale di Panama?[2]
Nei primi cento giorni di presidenza nel suo secondo mandato, come documentato da Amnesty International USA, Trump ha guidato il paese in maniera caotica e spesso con intenti crudeli, creando una “emergenza diritti umani” attraverso una sistematica erosione degli strumenti di protezione, generando un clima minaccioso e divisivo, e minando le basi dello stato di diritto. Il suo assalto all’arma bianca al multilateralismo, ai regimi di asilo, all’equità razziale e di genere, alla libertà di studio e di espressione, alla giustizia internazionale, alla salute globale e all’azione di contrasto ai cambiamenti climatici sta distruggendo decenni di faticosi sforzi per rafforzare e promuovere i diritti umani universali e rischia di imprimere un’accelerazione di queste nefaste pratiche a ogni latitudine[3].
Dispiace chiudere il nostro Forum ricordando ancora una volta quanto accade negli Stati Uniti ma il furore appena descritto non è frutto delle stravaganze di un uomo solo al comando. Sarebbe un errore crederlo. In un futuro post-liberale, come preconizzato dal teorico politico americano Patrick J. Deneen[4], la democrazia rappresentativa non è più necessaria e il potere esecutivo deve avere la facoltà di indirizzare la vita pubblica verso valori oggettivi, anche se ciò comporta una compressione dei diritti individuali[5]. Una visione ben radicata in alcuni ambiti della dottrina cattolica d’oltre oceano e che nella vita pubblica americana ha trovato massima espressione nel Vice-Presidente JD Vance, grande cultore del pensiero di Deneen e suo amico personale. In parole povere: meno Vangelo, più Bibbia. Detto altrimenti: non porgere l’altra guancia ma difendere la fede con la spada. Un dilemma anche e soprattutto per il nuovo Papa americano[5].
Questo, quindi, il vento che oggi soffia da Washington ed è bene tenerne conto.
Una nuova costante dei nostri tempi
Le violazioni dei diritti umani fondamentali e del diritto umanitario internazionale sono diventate una costante dei tempi che viviamo, e non vengono erose solo dalle violazioni ma anche dal silenzio e dalla complicità. Prendendo a prestito il titolo dell’articolo di Riccardo Noury, si può agevolmente convenire che qui c’è poco da celebrare ma tanto per cui lottare. Per questo dobbiamo essere specialmente grati a tutte e tutti coloro che hanno partecipato al Forum con i loro saggi, facendo lo sforzo concettuale di vedere attraverso, e oltre, l’attuale contingenza. Numerosi sono quelli che hanno indicato nella crisi del multilateralismo la ragione principale del venir meno degli strumenti di protezione dei diritti umani e, coerentemente, ne invocano il ritorno ma con regole, procedure e strutture aggiornate ai tempi che corrono. Ci sono oggi le condizioni per farlo?
Lo storico Ernesto Galli della Loggia ha recentemente affermato che il diritto internazionale è “fatalmente” destinato a perdere un suo pilastro etico-morale costitutivo, ossia il suo carattere d’imparzialità.[6] Galli della Loggia esprime una legittima preoccupazione ma nel diritto non vi è nulla di “fatale” essendo un processo aperto e in costante evoluzione: da Grozio, considerato il nonno del diritto internazionale (“una guerra è giusta se intrapresa per difendere un diritto”), al Patto Kellogg-Briand del 1928 che sancì che le guerre di aggressione erano illegali e le conquiste territoriali proibite. Concetto poi riaffermato e rielaborato nel 1945 nella Carta delle Nazioni Unite, i leader di allora avendo compreso che non era sufficiente convenire solo a parole ma che era necessario cementare questi principi con la creazione di istituzioni sovranazionali, trattati vincolanti e cornici legali varie. Gli USA hanno svolto per ottant’anni un ruolo fondamentale nel mantenere questo ordine mondiale, anche se in maniera imperfetta visto che i conflitti non son scomparsi ma almeno le grandi potenze non si sono mai dichiarate guerra apertamente e nessuno Stato membro dell’Onu ha cessato di esistere a seguito di conquista (Antonio Marchesi lo spiega con maggiori sfumature). Ora Trump vuole riportare indietro le lancette della Storia, tornando a minacciare l’invasione come metodo per risolvere le controversie o per ottenere qualche beneficio economico. Ovviamente Netanyahu, Xi Jin Ping e Putin applaudono dagli spalti. Come scrivono due studiosi americani, Oona Hathaway e Scott Shapiro, “se lasciato fuori controllo, l’erosione del divieto di ricorso alla forza farà tornare la geopolitica a una cruda competizione tra potenze militari…le conseguenze saranno gravi: una corsa al riarmo globale, nuove guerre di conquista, commercio in declino, e crollo della cooperazione internazionale necessaria per affrontare minacce globali” [7]. L’esortazione ai leader liberali e democratici è quindi di non rimanere imbambolati o inerti di fronte alle uscite caotiche e aggressive di Trump ma di reagire pensando a nuove alleanze e raggruppamenti regionali, a nuove procedure esenti dal potere di veto, a nuovi strumenti legali, a nuove e più moderne istituzioni, a un rinnovato ruolo per gli organi delle Nazioni Unite – come d’altronde suggerito da diversi autori che hanno contribuito a questo Forum (vedere Lenzi, Fasoli, Santo, Levorato, Liberto, Moccia per citarne alcuni) - accantonando pregiudizi e interessi di corto respiro per ripristinare il principio d’imparzialità invocato da Galli della Loggia, e salvaguardare quello insuperabile del divieto di ricorso alla guerra che può apparire come un concetto scontato ma che è sempre meglio ribadire.
Il rischio di un ritorno all’antico
Tuttavia, la domanda nel titolo di questo Forum - “diritti umani: mantenere una comprensione comune è ancora possibile?” - rimane sostanzialmente senza risposte. Le analisi dei contributi convergono ma sono le soluzioni innovative e praticabili a latitare. Lo scudo del diritto internazionale e dell’ampio reticolo di convenzioni, nonostante i loro treaty bodies e special procedures che dovrebbero assicurarne la messa in esecuzione, non sono più di garanzia per le vittime, e nemmeno un appiglio cui aggrapparsi. Il margine d’impunità per i violatori, soprattutto per i violatori seriali, si è allargato a dismisura. In alcune zone del pianeta si corre il rischio di tornare all’antico, dando di nuovo spazio al rifiuto della cultura dei diritti umani in ossequio a quel relativismo culturale che vuole - in nome di culture, religioni o tradizioni arcaiche diverse – che vadano bene i processi sommari e laogai in Cina, le mutilazioni genitali per le bambine in Somalia, l’imposizione delle mura domestiche, del burqa e dei matrimoni forzati per le donne in Afghanistan, il delitto d’onore che non solo rimane impunito ma che incoraggia la pratica di sfigurare le donne con l’acido in Pakistan, la piaga delle detenzioni arbitrarie nei regimi autoritari un po' ovunque e via discorrendo con un pauroso processo di normalizzazione nell’indifferenza generale. Per citare un caso emblematico, a parte Piero Fassino e pochi altri, c’è qualcuno che ancora si chiede della sorte di Aung San Suu Kyi, per la quale una volta si mobilitava il mondo intero?
Che rotta intraprendere e con quale bussola?
C’è urgenza, dunque, su come ripensare i diritti umani e con quali strumenti senza aspettare che emergano le Eleanor Roosevelt e i René Cassin dei nostri tempi, come suggerito da Michael O’Flaherty nel suo ampio contributo al Forum che abbraccia molti dei temi sollevati anche in altri interventi. Ma che rotta intraprendere e con quale bussola in mezzo a queste avversità? Certo, la Convenzione europea, che quest’anno compie il suo 75° anniversario ed è lo spunto per questo Forum, nella sua lunga vita è stata una bussola costante, per usare le parole del Segretario Generale del Consiglio d’Europa, Alain Berset, visto come ha sostenuto lo stato di diritto e protetto i diritti individuali all'interno del sistema di pesi e contrappesi che i nostri Stati hanno scelto di costruire insieme[8]. Oggi però dobbiamo registrare che la Russia, messa sotto pressione dopo il 24 febbraio 2022, ha fatto atto di recesso senza battere ciglio; che la Corte europea per i diritti umani (CtEDU) è messa pesantemente in discussione e le sue sentenze spesso ignorate; che alcuni organi del Consiglio d’Europa – come l’ECRI (razzismo) o CPT (tortura) – vengono delegittimati dai governi degli Stati membri ogni qualvolta pubblicano i loro rapporti. Della Dichiarazione Universale e dei Patti e convenzioni internazionali che ne sono scaturiti ho già scritto nel mio testo di apertura.
A questo punto accolgo l’indicazione di Patrizio Gonnella e rivolgo lo sguardo al settore delle organizzazioni non governative (ONG). Concordiamo, e ci mancherebbe altro, sul fatto che abbiamo poco da guadagnare da un settore ONG indebolito, mentre paesi autocratici e democrazie illiberali vedono solo vantaggi politici nella soppressione di organizzazioni della società civile che promuovono valori liberali. Ma chiedo: oggi le ONG sono ancora soggetti liberi in grado di restituire dignità al multilateralismo ed essere in prima linea contro il potere sovrano degli Stati? Esse rappresentano ancora quel contropotere che incarnavano negli anni ’90, ovvero l’età dell’oro delle ONG che nascevano e fiorivano ovunque, complice lo sbrinamento della Guerra Fredda? Non mi riferisco solo ai colossi Amnesty International, Greenpeace, Human Rights Watch o Oxfam ma anche alla miriade di organizzazioni estemporanee che spuntavano come funghi e si trasformavano in attori politici sull’onda del clima di allora al punto da condizionare positivamente le agende internazionali portando, per esempio, all’adozione della Convenzione contro le mine anti-uomo del 1997 (in queste settimane a rischio di fuoriuscite a causa della guerra in Ucraina) oppure della Convenzione contro la corruzione del 2003. O, tanto per gratificarci in quanto italiani, alla moratoria universale sulla pena di morte all’ONU o all’adozione dello Statuto della Corte penale internazionale, avvenuta a Roma il 17 luglio 1998. Oggi le condizioni sono assai diverse[9]. Negli ultimi vent’anni il loro numero è scemato, scetticismo si è diffuso sui loro livelli di efficienza ma soprattutto riguardo alle loro virtù, inclusa poca trasparenza sull’uso dei fondi e qualche scandalo, con le fonti di finanziamento che si sono progressivamente prosciugate, a cominciare da quelle dell’Unione europea e di USAID. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Colin Powell, allora Segretario di Stato, disse che le ONG agivano da “force multiplier”, da forza moltiplicatrice per raggiungere gli obiettivi di politica estera degli USA, promozione della democrazia e protezione dei diritti umani incluse. Al punto in cui siamo, e visto che il tema è stato sollevato, le ONG meglio farebbero non dico a scendere dal loro piedistallo – come invocano Orban e qualche leader nostrano - ma cominciare a imparare dai propri errori, a diventare più accountable, e a pensare in maniera creativa a come ricalibrare obiettivi e programmazione per captare finanziamenti alternativi e riguadagnarsi la dovuta legittimità in un’ottica da Ventunesimo secolo.
L’Italia che si adegua ai tempi che corrono
Nell’articolo di apertura ho scritto delle nostre inadempienze, alcune che vengono da lontano, come l’assenza di un organismo nazionale indipendente sui diritti umani, ricordato anche da Michael O’Flaherty e Antonio Bultrini. La sensazione, tuttavia, è che l’Italia del Governo Meloni stia compiendo un’ulteriore regressione, adeguandosi al clima di delegittimazione del diritto internazionale e degli strumenti del multilateralismo. In questi mesi sono accaduti fatti che lo confermano. Si può cominciare dalla lettera del 22 maggio scorso dove nove leader europei, capeggiati dalla nostra Presidente del Consiglio e dalla Premier danese, Mette Frederiksen, a dire il vero indirizzata esattamente a chi non si capisce bene, hanno chiesto di avviare una discussione sull’interpretazione della CEDU, con particolare riferimento all’immigrazione e al ruolo della Corte. Al cuore del loro appello c’è la richiesta di maggiore discrezionalità nazionale per espellere immigrati colpevoli di crimini, che molto ricorda il principio del margine di apprezzamento delle autorità nazionali oggetto di dibattito oltre dieci anni fa. Come ha correttamente segnalato Alberto-Horst Neidhardt, senior policy analyst all’European Policy Centre, né il diritto europeo né la CEDU e le sue emanazioni impediscono il rimpatrio di soggetti che rappresentano una minaccia alla sicurezza. Piuttosto, gli ostacoli sono frapposti dalla mancanza di cooperazione tra Stati membri, scappatoie legali e riluttanza di paesi terzi a riprendersi certi individui. È più che probabile che la lettera sia stata pensata per un pubblico interno e la CtEDU individuata come comodo capro espiatorio. L’enfasi sulla parola “crimini” appare come un subdolo escamotage per mettere in dubbio la giurisprudenza della Corte in materia d’immigrazione complessivamente. Il già citato Alain Berset ha reagito dicendo che la lettera ha più il sapore di un atto politico che altro, e che il dibattito è sempre salutare ma non il fatto di minare l’indipendenza della CtEDU. E’ probabile che l’iniziativa non abbia seguito e che la polemica si rivelerà una tempesta in un bicchier d’acqua, ma tentare d’indebolire un organo giurisdizionale o tentare di renderlo un meccanismo sussidiario mentre già combatte con le sue disfunzioni è incompatibile con l’impegno per lo stato di diritto in Europa, soprattutto quando proviene da un paese, come il nostro, che ha blandamente partecipato negli anni passati al dibattito sulla riforma della CtEDU e su come snellire le procedure per evitare i colli di bottiglia creati dalla massa di ricorsi presentati a Strasburgo. Se l’intento è quello di criticare o, peggio, di affossare, meglio allora avere le carte in regola.
C’è poi il caso Almasri che ancora agita le acque della politica e della giustizia. Si possono anche discutere le ragioni degli uni (Ministro Nordio) e degli altri (Ufficio del Procuratore della CPI) ma un aspetto indiscutibile è la violazione da parte dell’Italia degli articoli 89 e 90 dello Statuto della CPI sull’obbligo di consultazione dello Stato Parte in caso di estradizione. In questa circostanza il Governo Meloni è venuto meno all’impegno morale a non tradire i principi dello Statuto di Roma, alzando con il suo atteggiamento reticente e contradditorio un indegno polverone in Parlamento e fuori.
Sicché, l’attacco alla giustizia internazionale, e le critiche alle Corti in particolare, provengono purtroppo anche dall’Italia. E’ il momento di proporre l’istituzione di un Tribunale internazionale permanente per i diritti umani, come suggerisce Federico Fasoli, magari basato sul principio della complementarietà come la CPI, peraltro proposta già formulata dalla Global Citizen Commission nel 2016? Proporre non costa nulla ma poi bisogna verificare se c’è agibilità politica e oggi non pare proprio il caso.
Più in generale, il Rapporto UE 2025 sullo stato di diritto in Italia – da poco diramato - ha espresso forti preoccupazioni riguardo al decreto sicurezza e al suo impatto sullo spazio civico e sull’esercizio delle libertà fondamentali, al rischio di corruzione negli appalti pubblici, alle limitazione alla libertà di stampa e all’uso senza precedenti di uno spyware contro giornalisti (caso Paragon), all’irragionevole durata dei processi nonostante gli sforzi per smaltire gli arretrati, alle indebite interferenze politiche nel servizio pubblico radio-televisivo (sai che novità…). Non un quadro di cui andare orgogliosi. In attesa dell’esito del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea, personalmente alla lista aggiungerei il Protocollo Italia-Albania in materia di immigrazione e rimpatri.
Infine, quello che manca drammaticamente in Italia, al netto del Presidente Mattarella con i suoi evidenti limiti costituzionali, è una forte public voice sui diritti umani, come si dice nel mondo anglo-sassone, una lacuna che, assieme all’amico Antonio Bultrini, non cessiamo di ricordare.
Concludo ringraziando tutti gli autori che, con i loro testi, hanno contribuito a dar vita a un dibattito a distanza su di un tema oggi difficile da trattare. Mi auguro vivamente che non cada nel vuoto ma sia presto ripreso da tutti gli stakeholders del vasto mondo dei diritti umani. Ovviamente ringrazio il CeSPI per averci ospitato e per aver accolto l’idea non far passare sotto silenzio il 75° anniversario della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950.
p.s. nelle conclusioni del mio intervento d’apertura ho citato il filosofo e analista culturale Jianwei Xun e il suo libro Ipnocrazia: Trump, Musk e la nuova architettura della realtà. Successivamente all’avvio del Forum, il settimanale L’Espresso ha rivelato che Jianwei Xun non esisteva e che “Ipnocrazia” era frutto della combinazione di meccanismi dell’Intelligenza artificiale e di citazioni da varie fonti con riadattamenti e riscritture da parte dell’editore del volume. L’intento dell’operazione era quello di denunciare i rischi della manipolazione del dibattito pubblico da parte di leader populisti usando i loro stessi meccanismi. E’ come se, per mostrare quanto sia spregevole violare un diritto umano – tanto per rimanere nel nostro tema – se ne violasse uno per comprovarne la teoria. L’esercizio, a suo modo, ha messo in luce il “patto col diavolo” che stiamo portando avanti con i meccanismi dell’IA. Al di là del merito del metodo scelto, rimane il fatto che le tesi dell’inesistente Xun restano valide, rivelandoci il valore del materiale generato dall’IA a patto che origini delle fonti e veridicità siano assicurate. Questo c’interpella in quanto anche i diritti umani si vedranno inevitabilmente ricompresi nella sfida rappresentata dal dialogo tra intelligenze diverse e da una nuova etica della lettura e della scrittura che le dirompenti nuove tecnologie stanno imponendo, in un contesto dove i principali attori - decisori politici, regolatori, CEOs delle Big Tech - sono non solo poco inclini alla collaborazione tra loro ma anche poco predisposti a trovare soluzioni. Per questo, mentre la linea di demarcazione tra il reale e il simulato diverrà progressivamente più opaca, è auspicabile che organismi di verifica e certificazione digitale assumano presto maggiore peso e autorevolezza. Un tema tra l’altro affrontato nel contributo di Barbara D’Ippolito.
----------------------------------------------------------------------------
[1] Agenzia ANSA da Washington, 1 luglio 2025.
[2] Monica Duffy Toft, “The Return of the Spheres of Influence: will the negotiations over Ukraine be a new Yalta conference that carves up the world?”, Foreign Affairs, luglio-agosto 2025.
[3] Amnesty International, “Chaos & Cruelty: 10 compounding assaults on human rights. A review of President Trump’s first 100 days in office”, aprile 2025.
[4] Patrick J. Deneen, “Regime Change. Toward a Post-liberal Future”, Sentinel, 2023.
[5] Antonio Spadaro, “Il Papa venuto dalla fine del mondo”, La Repubblica, 7 giugno 2025.
[6] Ernesto Galli della Loggia, “Il diritto, i pregiudizi e gli interessi”, Corriere della Sera, 23 giugno 2025.
[7] Oona Hathaway e Scotto Schapiro, “Might unmakes Right”, Foreign Affairs, 24 giugno 2025.
[8] Euronews, “Il Consiglio d’Europa risponde a Meloni e Frederiksen, No a pressioni politiche sulla CEDU”, Fortunato Pinto, 24/5/2025.
[9] Sarah Bush e Jennifer Hadden, “The End of the Age of NGOS?”, Foreign Affairs, 3 luglio 2025.