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Politica

Due guerre fredde

1 Febbraio 2022
Francesco Olivieri

L’America inizia il secondo anno della presidenza di Biden divisa e tutt’altro che serena, chiedendosi come il paese affronterà questo periodo cruciale che ci separa dalle elezioni congressuali del prossimo novembre.  Queste elezioni decideranno se Biden avrà abbastanza voti per legiferare in ciò che resta del suo mandato, e il Presidente ha alcuni mesi per risollevare la propria immagine davanti agli elettori.  Se il Presidente dovesse oggi (invece del 1° marzo, tra poco più di un mese) anticiparci il rituale discorso alle camere riunite che va col nome dello “State of the Nation”, che darà il tono alla politica del 2020, ci si chiede, cosa potrebbe dire al paese?

Certamente il discorso sarà rivolto al futuro; tenderà inevitabilmente a includere elementi celebratori, evidenziando le aspirazioni che il governo ha già manifestato nel corso di questi dodici mesi, largamente ancora da realizzare; ma sarà difficile ignorare gli effetti della profonda divisione interna del paese, che intacca le certezze sul suo futuro. Lo “stato della nazione” non può essere sereno finché questa plumbea sensazione rimane nell’aria.

Per quanto di positivo potrà a buon titolo figurare nel discorso, il fantasma da esorcizzare resta infatti la contrapposizione politica sempre più intransigente che si registra all’interno del paese, capace di paralizzare il governo e di alimentare una preoccupante animosità tra i cittadini. Noi europei tendiamo a guardare superficialmente all’origine di questo paese, che è nato come una federazione di stati, l’inevitabile conseguenza delle reali diversità che esistevano già allora tra i territori dei fondatori. È facile oggi dimenticare che ciascuna delle colonie aveva alle spalle un paio di secoli di storia, e che i tredici stati firmatari non nascevano affatto da un’unica matrice. Alcuni erano territori che avevano vissuto come colonie spagnole o francesi o olandesi, popolate da queste nazioni, e poi da una gamma di coloni che non erano l’espressione di una impresa imperiale della loro nazione, come alla fine del ‘600 gli operosi germanici della Pennsylvania. Anche tra le colonie fondate dai britannici, la gamma copriva l’arco che va dai puritani del Massachusetts agli aristocratici fondatori del Maryland e ai prosperi piantatori provenienti dalle colonie caraibiche, e in più i loro schiavi, pionieri forzati prima di divenire un ceppo portante della gente americana. Il paese è dunque nato cosciente di gestire questa diversità, ed è un tributo a questi coloni sorprendentemente colti e straordinariamente articolati se la Costituzione che hanno scritto tiene insieme il paese in un mondo che i fondatori non riconoscerebbero.  Il merito sta nell’aver consacrato la scelta della democrazia come parte necessaria di questa storia, e aver creato gli strumenti per gestire la diversità. Mai come ora hanno diritto alla riconoscenza dei loro discendenti, anche se il sistema che hanno creato oggi è sollecitato come mai in passato.

Ancor oggi la nazione americana, infatti, è strutturata secondo la scelta iniziale di accettare le diversità, entro un sistema che permette loro di funzionare, accettando la convivenza e l’emulazione; e la nazione se ne è per questo arricchita. Tuttavia, la divisione che affligge l’America non è più quella bonaria di una volta. Non è più una separazione che propone vie diverse per raggiungere scopi largamente condivisi: il buon governo, la sicurezza, la prosperità, la famiglia, l’educazione, la vecchiaia, tutti concetti all’interno dei quali si possono immaginare diverse gradazioni e diverse composizioni. Si avverte una contrapposizione più profonda; eppure quando il governo di un paese è nelle mani di una democrazia collaudata non dovrebbe essere difficile trovare punti di intesa, o individuare i compromessi che preparano soluzioni future. Per l’appunto, in America da qualche tempo il meccanismo appare inceppato.

Non è la democrazia che fallisce, è il paese che sta evolvendo. Mentre sono rimaste intatte le strutture di questo sistema politico bipartitico che ha servito il paese così bene, così a lungo, la causa va ricercata piuttosto nei cambiamenti avvenuti nell’elettorato del paese. È quasi scomparsa la connessione tra i due blocchi, cioè l’elettorato “centrista”, il cui declino è iniziato con le riforme economiche dell’era di Reagan ed è accelerato per gli effetti combinati della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Il successo di Reagan ha sollevato al grado superiore un gran numero di americani della classe media, ma ha allargato il divario tra questi e il resto dei lavoratori, proprio in coincidenza con il trionfo della globalizzazione, relegando numeri importanti di americani a livelli sempre più distanti e sempre più precari, ad adattarsi ai cambiamenti delle tecnologie e a difendersi come meglio possono contro la concorrenza dall’estero.

L’erosione di questo elettorato ha ridotto sensibilmente la possibilità di una voce moderata nelle scelte politiche e nel governo della nazione. Il nucleo tradizionale dei partiti, siano Repubblicani o Democratici, non è oggi in grado di contare sui consensi della stessa ampia base da cui attingevano in passato, e che permetteva nella migliore tradizione politica americana una pacifica e produttiva alternanza. Nella corsa per il successo elettorale, una volta mobilitati i votanti simpatizzanti, entrambi i partiti ora non hanno altra alternativa che incoraggiare il voto di settori che prima erano tagliati fuori, di cui l’espressione attuale sono i populisti di Trump da un lato, e la sinistra vicina al socialismo dall’altro, ormai parte necessaria degli schieramenti parlamentari rispettivi. Questa riorganizzazione dei partiti non può mancare di influire sui loro orientamenti, e li spinge in direzioni opposte; il governo del vincitore sarà influenzato di queste alleanze non convenzionali, un processo che potrebbe autoalimentarsi ad infinitum.

Questo bipartitismo a blocchi contrapposti, senza intermedi e senza reciproca flessibilità, non è promettente, poiché priva il sistema dello spazio necessario a forgiare intese, lasciando solo l’alternativa tra imposizione della maggioranza oppure impotenza. Una democrazia si aspetta invece che il vincitore governi nel nome di tutti, il che comporta il dovere di accettare voci diverse e tenerne conto. In questi tempi stiamo invece allontanandoci da questo ideale; dobbiamo aspettarci una quotidiana reciproca ostile intransigenza.

Quale saranno le ricadute sulle relazioni con il mondo esterno mentre maturano questi sviluppi lo sapremo presto. Il mondo non si ferma solo perché Washington attraversa una fase di riorientamento: al contrario, potrebbe muoversi più in fretta, sia per le lezioni che ne ricaveranno i paesi politicamente vicini agli Stati Uniti, sia -in direzione opposta- quelli che ne sono i competitori se non gli avversari, in attesa di una fessura che aumenti la loro libertà di azione.  

Una Presidenza che mostri all’estero segni di debolezza perde consenso in patria, il che ostacola la proiezione esterna, alimentando un circolo vizioso. Le conseguenze di una erosione dell’autorità comincerebbero a avvertirsi nel paese, ma non sarebbero confinate negli Stati Uniti.  Attraverseremmo un periodo pericoloso in cui i rivali autocratici potrebbero ritenere di avere una finestra di opportunità per perseguire i propri disegni senza il rischio di vedersi contrastati da una America democratica. Sarebbe un errore. Dopo decenni di guerre lontane e apparentemente insolubili, gli americani non sono propensi a nuove iniziative avventurose, ma non per questo saranno lenti a reagire duramente a sviluppi percepiti come direttamente offensivi. In questo, nulla è cambiato da Pearl Harbour in poi; su questa materia, l’istinto dei cittadini prende una forma estrema nel giro di pochi minuti. Chi scrive ricorda un incontro con uno dei nove giudici della Corte Suprema, una delle più auliche presenze sulla scena Washingtoniana, che la sera l’11 settembre del 2001 tuonava “Li bombarderemo tutti!” quando ancora non si sapeva nemmeno su chi far cadere le ipotetiche bombe. Sono poi seguiti vent’anni di guerra, in parte dovuti proprio a quella incertezza.   

Resta il fatto che gli equilibri sono cambiati, e ciò non mancherà di riflettersi sul prezzo delle diverse opzioni di politica estera per ciascuno degli attori sulla scena internazionale. Il campo delle democrazie resta forte, ma non onnipotente; il distacco non è più tale da allontanare ogni preoccupazione. È un momento delicato, che si situa tra il cambiamento della realtà e l’aggiustamento da parte dei governi sulla scena internazionale; è il momento in cui le percezioni si confondono con i desideri, offuscando la valutazione del rischio.

Siamo oggi alle prese con sviluppi preoccupanti in Europa, sul vecchio confine della Guerra Fredda, dove la nuova Russia vuole dimostrare la sua forza militare; a fini interni? Parte di un disegno globale per riaffermare l’orgoglio dell’impero? Contemporaneamente, in Asia la pressione aumenta dal lato della Cina, che ha ritrovato il controllo della propria storia, ed ha oggi l’ambizione ed i mezzi per cancellare il lungo periodo in cui ha dovuto subire l’imposizione straniera. I protagonisti in entrambi i casi hanno interesse a dimostrare libertà d’azione, ma nessuna delle parti dovrebbe trascurare di prendere sul serio il rischio di un conflitto, se non presumendo, come fecero nel 1914 a Vienna e nel 1939 a Berlino, della passività altrui.  

L’esito più lieve, si potrebbe pensare, sarebbe quello del ritorno ad una nuova “guerra fredda”, ma sarebbe un errore, i tempi sono cambiati, e con loro sono cambiati i rapporti di forza e le interdipendenze strategiche. Anche fermandosi lì, Il prezzo sarebbe elevato per tutti, e nessuno potrebbe presumere di uscirne indenne, nemmeno l’America. Non resta che augurarci che il 1° marzo, quando Biden parlerà alle camere riunite del Congresso degli Stati Uniti rivolgendosi alla sua nazione, abbia fondati motivi -dentro e fuori i confini del paese- per farlo con serenità.