Articolo di Matteo Pretelli*

Un nuovo “sleeping giant”? Il futuro degli asiatici negli Stati Uniti

Ad ogni tornata elettorale negli Stati Uniti è ricorrente interrogarsi sul peso crescente dei latinos, un “gigante dormiente” apparentemente pronto a mobilitarsi a favore dei democratici. Assai meno si parla di un’altra consistente minoranza, ovvero quella degli asiatici americani. Si ritiene infatti che entro il 2055 questi, seppur nella loro notevole eterogeneità etnica e nazionale, diverranno la prima minoranza del paese, superando gli stessi latinos. E potrebbero aver avuto un peso importante nella tornata elettorale del 5 gennaio in Georgia, che ha assegnato gli ultimi due seggi senatoriali ai democratici Raphael Warnock e Jon Ossoff.

Se negli anni Sessanta le persone di origine asiatica negli Stati Uniti erano grosso modo un milione, per le presidenziali del 2020 sono stati stimati circa 11 milioni di eligible voters, ovvero il 5% dell’elettorato nazionale. Nello specifico, secondo il Pew Research Center i detentori del diritto di voto di origine asiatica dal 2000 al 2020 sarebbero aumentati del 139%, con tassi simili a quelli dei latinos (121%) ma assai maggiori rispetto all’elettorato nero e bianco (33% e 7% rispettivamente). Una massa rilevante che, a parere, del demografo William H. Frey, ammonterebbe a 20 milioni qualora vengano conteggiati anche i mixed race Asians[1].

In una prospettiva storica, nel corso dell’Ottocento e per buona parte del Novecento la presenza asiatica oltreoceano è stata piuttosto risicata e fortemente osteggiata da un diffuso sentimento nativista che la etichettava come “indesiderabile”. Se le comunità di riferimento erano quella cinese, giapponese e filippina, nei decenni successivi a una riforma del sistema dell’immigrazione di metà anni Sessanta il paese aprì le porte al massiccio arrivo di persone prevenienti dall’India e da molti altri paesi asiatici (si pensi ai coreani). A questi si aggiunsero i rifugiati generati dalla guerra del Vietnam. Dal 1990 al 2010 è raddoppiata la popolazione cinese e addirittura triplicata quella indiana, con consistenti aumenti di coreani e vietnamiti, andando così costituendo una minoranza che include anche nuclei consistenti di filippini e giapponesi. Gli indiani in particolare, superando i messicani, dal 2016 sono il maggiore gruppo di immigrati foreign-born presenti negli Stati Uniti.

Vincendo parte dei vecchi pregiudizi, dagli anni Ottanta del XX secolo gli asiatici sono percepiti in maniera crescente come una sorta di minoranza “modello” per i bassi livelli di criminalità e di dipendenza dal welfare, ma anche per gli altissimi livelli di istruzione e di qualifiche professionali. Fra gli Asian Americans il 50% è college graduate, a fronte di una media del 32% degli white Americans e un 28% a livello nazionale. Esistono tuttavia importanti differenze: solo per fare un esempio, il 65% degli indiani possiede un bachelor’s degree mentre i cambogiani arrivano appena al 19%.

Assai rilevante è poi il reddito medio, 105.000 dollari a fronte di una media nazionale di 80.000 (gli indiani raggiungono addirittura i 139.000). Diversamente dai latinos, che sono sparsi in tutto il paese, gli asiatici si concentrano soprattutto in alcune grandi aree metropolitane come Los Angeles, New York e San Francisco. Sono poi estremamente giovani, considerando che il 75% di tale comunità rientra nella fascia d’età fino ai 44 anni.

Nel corso degli ultimi decenni gli asiatici hanno considerevolmente cambiato i propri indirizzi di voto. Nel 1992 meno di un terzo di questo gruppo sosteneva candidati democratici alle presidenziali, anche se nel 2000 Al Gore è riuscito a conquistarne la maggioranza. È pertanto iniziata una tendenza che ha visto prima Obama affermarsi fra l’elettorato asiatico nel 2008 (62-35) e nel 2012 (73-26), seguito dalla Clinton (65-27) e da Biden (63-31). Quest’anno per il candidato democratico si è espresso il 66% degli uomini asiatici e il 60% delle donne (contro, rispettivamente, il 25% e il 39% per Trump).

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Mentre i repubblicani attirano parte di questo elettorato grazie a temi cari ai conservatori quali la famiglia e la libertà imprenditoriale, i democratici sembrano riceverne l’apprezzamento con l’enfasi sul controllo delle armi, la legislazione per il cambiamento climatico, l’uguaglianza razziale, la regolarizzazione degli unauthorized migrants. Tradizionalmente, però, in occasione delle elezioni i due partiti politici hanno prestato poco interesse agli asiatici, scarsamente attratti dalla loro ridotta partecipazione elettorale e dalla frammentarietà linguistica e culturale, tutti elementi che hanno reso complesso designare strategie comunicative ad hoc. A ciò si è aggiunta la loro concentrazione in stati saldamente democratici e non contendibili quali la California, New York, il New Jersey, le Hawaii.

Alcuni fattori, tuttavia, rendono appetibile questa minoranza per le prossime tornate elettorali. Innanzitutto dalle elezioni di midterm del 2014 a quelle del 2018 il turnout asiatico, ovvero la partecipazione al voto, è sensibilmente aumentato, passando dal 26,9 al 40,2%. Gli asiatici hanno poi un peso elettorale crescente in alcuni stati che quest’anno sono stati in bilico (swing states): oltre che in Georgia (4% dell’elettorato), in Pennsylvania (4%), in North Carolina (3,5%). Inoltre, sebbene tradizionalmente repubblicani, parte dei 250.000 cinesi residenti in Texas (altro stato che è sembrato a lungo contendibile) sembra si siano allontanati da Trump per via delle sue dichiarazioni contro Pechino, così come per il crescente tasso di violenza da loro subito per il clima anti-straniero che si respira nel paese.

Quest’anno sono stati soprattutto Biden e alcuni candidati democratici alla Camera dei rappresentanti che hanno messo in moto azioni per raggiungere l’elettorato cinese e hindi. La scelta come vice presidente di Kamala Harris, di origine indiana da parte di madre, è stato sicuramente un fattore mobilitante degli Indian Americans, mentre Biden ha dedicato loro una voce specifica nel suo programma elettorale, così come ha fatto per tutti gli Asian Americans. Gli indiani, in particolare, oggi sono una potente lobby etnica negli Stati Uniti[2] che investe pesantemente nella terra di origine e che ha avuto un ruolo di rilievo per la stipula dell’accordo nucleare indo-statunitense del 2008.

Il nuovo presidente ha promesso di adoperarsi a favore delle buone relazioni con il colosso indiano, incentivando la collaborazione nella lotta al terrorismo islamico; ma ha garantito anche l’impegno in patria contro la diffusione dei crimini d’odio (hate crime) e a tutela della sicurezza delle minoranze Sikh, Hindu e buddiste. Biden ha poi parlato dell’importanza dell’imprenditoria etnica e, in opposizione alle politiche di Trump, della tutela degli immigrati detentori di una green card.

Insomma, un cambio di rotta importante rispetto agli anni del tycoon, che con un executive order del 2017 ha reso più complicata la concessione di visti ai lavoratori altamente qualificati (H1B), fra i cui primi recettori vi sono 3 nazioni asiatiche (India, Cina, Corea del Sud). Gli indiani in particolare ne usufruiscono ampiamente perché impiegati oltreoceano nell’industria hi-tech. Analogamente, gli studenti di origine asiatica (cinesi e indiani in particolare) costituiscono una quota considerevole degli stranieri iscritti nelle università del paese, sebbene abbiano di recente sperimentato un clima di crescente paura e diffidenza, alimentato dal fatto che Trump ha richiesto ai consolati americani di concedere i visti assicurandosi che vi fossero le garanzie per il rientro in patria dopo la conclusione degli studi negli Stati Uniti.  

Si diceva all’inizio della Georgia, stato in cui gli Asian Americans potrebbero aver spostato l’ago della bilancia il 5 gennaio. Già alle elezioni del 2018 Stacey Abrams, candidata democratica alla poltrona di governatore, aveva prestato particolare attenzione all’elettorato asiatico, conquistandone ben il 78%. Il trend a favore dei democratici si è poi confermato a novembre con Biden. Significativo è apparso in particolare il risultato democratico nella Gwinnett County, ovvero la seconda contea più popolosa dello stato e quella con la maggiore concentrazione di popolazione di origine asiatica. Qui Biden si è affermato di 18 punti, registrando un ragguardevole avanzamento rispetto al risultato della Clinton di 4 anni fa.

Questi risultati appaiono anche come l’esito di campagne promosse da gruppi di attivisti come They See Blue Georgia, organizzazione nata nell’agosto 2018 con l’obiettivo di portare alle urne il maggior numero di South Asia voters. In Georgia pertanto i democratici sembrano aver saputo sfruttare l’importante crescita demografica della comunità asiatica americana, indirizzandole sapientemente messaggi elettorali e mostrando nello stato la faccia di importanti personalità dem di origine asiatica come la Harris e il candidato presidenziale democratico Andrew Yang.

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* Docente di Storia dell’America del Nord, Università di Napoli “L’Orientale”

[1] William H. Frey, Diversity Explosion: How New Racial Demographics are Remaking America, Washington DC, The Brookings Institution, 2018 (2015).

[2] Anjali Sahay, Indian Diaspora in the United States: Brain Drain or Gain, Lanham, Lexington Books, 2009.