Articolo di Paolo Pombeni

L’ora dell’Europa

La proposta della cancelliera Merkel e del presidente Macron potrebbero segnare un momento importante nella storia dell’Unione Europea. Perché si possa passare dal modo condizionale a quello indicativo, servirà che la proposta venga varata dal Consiglio Europeo e non sarà un passaggio facile. Non è tanto questione della pronta impennata del Pierino austriaco, forse timoroso di una ripresa a casa sua della destra di Strache che è tornato a farsi vivo dopo la figuraccia con i falsi oligarchi russi. Non che vada sottovalutata la possibilità di un fronte dei piccoli paesi in relativa buona salute, ma va inserita in una più grande problematica.

La ripresa del motore franco-tedesco non può che essere benvenuta. Solo un politico miope come Salvini può pensare nei termini di un sovranismo da strapaese, credendo che il buon piazzamento dei nostri titoli di stato nell’ultima asta possa far concludere che l’Italia può farcela da sola accedendo ai mercati. Quelli ti danno una mano in questo momento in cui contano sul fatto che saremo tenuti in piedi da finanziamenti europei, ma sarebbero pronti a strangolarci se vedessero che davvero ci siamo illusi di farcela da soli mettendo a rischio i loro investimenti.

Qui il tema è chi possa costruire quell’Europa solidale che sola può essere in grado di non farsi stritolare nel cozzo fra USA e Cina, magari aiutate senza volerlo dalla voglia russa di inquinare i pozzi europei. Fino a ieri la preoccupazione era che la Germania potesse continuare su quella linea che si era intravista: sfruttare la sua notevole solidità economica per primeggiare su tutti i partner, ormai in manifesta difficoltà. In fondo si deve capire che qualche desiderio di rivincita dopo due catastrofi storiche è pure sopravvissuto nella cultura tedesca, che di bocconi amari nelle sue posizioni nel quadro internazionale ne ha dovuto ingozzare.

Invece sembra che a Berlino si sia capito che la vera rivincita non è primeggiare su un cumulo di macerie, diventando alla fine un vaso di coccio fra i vasi di ferro imperiali, ma riuscire in quell’obiettivo che, muovendo da prospettive sbagliate e pericolose, l’aveva in fondo mossa nella storia della prima metà del XX secolo: conquistare la guida dell’Europa. Angela Merkel è una politica di razza, si è formata nel solco del grande gioco con cui Kohl sfruttò la crisi dell’URSS per realizzare quella riunificazione tedesca che sembrava impossibile: non è dunque strano che abbia intuito quanto possa essere importante il passaggio costruito dallo shock della pandemia (anche perché in Germania possono contare su apparati, pubblici e privati, che hanno una tradizione come analisti di quel che succede nel mondo).

Il punto che la cancelliera ha colto è che doveva superare l’atavica diffidenza verso il ruolo da riconoscere in Europa alla Germania. La storia ha radici più lunghe di quelle che sono capaci di cogliere tanti nostri improvvisati commentatori. Il modo di farlo era coinvolgere la Francia, che è l’unico altro soggetto europeo che ha ancora, per quanto zoppicante, una statura di relativa potenza. Merkel ha capito di poter contare su Macron, che ha anche lui ambizioni di condottiero europeo, ma che è consapevole di non poter fare da solo.

Il fatto è che sembra (continuiamo a non dare nulla per definitivamente scontato) che i due leader abbiano compreso che per poter essere alla testa di un soggetto che pesa sul piano internazionale dovevano evitare di trovarsi a guidare un continente disastrato dalla crisi indotta dal Covid 19. Ecco allora che si è optato per quello che un po’ ingenuamente veniva chiamato un piano Marshall, ma che questa volta, a differenza del 1947, non arrivava come un finanziamento dall’esterno, ma come un potente autofinanziamento europeo. Se l’operazione riuscirà, significherà aver fatto la fase 2 dopo l’euro, perché gli stati europei verranno cementati in una forma quantomeno para-federale dal dovere la loro ricostruzione post pandemia all’intervento targato EU.

Ovviamente sarebbe ingenuo dare il tutto per fatto. La voglia di far parte di un nuovo soggetto europeo che si potrebbe posizionare credibilmente nel nuovo mondo multilaterale, almeno senza essere spiazzato, per dire, dalle tigri asiatiche, non è molto diffusa fra le classi dirigenti nazionali, che si rendono conto che in questo scenario tutte le carte, tutte le posizioni finirebbero rimescolate. La aspirazione di molti piccoli paesi che pensavano di guadagnare nuovi spazi approfittando delle debolezze di alcuni fra quelli più grandi (vedi Spagna e Italia) verrebbe ridimensionata. Anche all’interno dei paesi maggiori, come l’Italia, far parte di un gioco più grande e complesso significherebbe doversi dotare di classi dirigenti all’altezza del nuovo contesto, il che comporterebbe sommovimenti visto quel che è successo negli ultimi anni.

Si tratterebbe di una trasformazione che, ovviamente con i suoi tempi, ridisegnerebbe il quadro degli equilibri economici, sociali e culturali del nostro continente: quello che ci si attende in ogni paese a seguito di una crisi di portata storica come è una pandemia, ma che adesso si collocherebbe nel contesto di una Unione Europea che non sarebbe più quel riottoso condominio confederale a cui si era ridotta progressivamente dopo gli allargamenti degli anni Novanta.

Proprio per questo c’è da attendersi una resistenza ed anche una reazione molto forte alla prospettiva che vediamo implicita in questo passaggio. L’esito della battaglia non è affatto scontato, perché la difesa dei vecchi equilibri legati ad una certa storia delle sovranità nazionali conta su vasti consensi e su risorse da non sottovalutare. Ma sarà una bella battaglia che francamente speriamo possa portare alla nascita di quella nuova Europa che da molte generazioni cerchiamo invano di costruire.

-----------------------------------------------------------------

Articolo pubblicato su www.mentepolitica.it il 20 maggio 2020