Articolo di Mauro Pace

L’ONU compie 75 anni: quale futuro per il multilateralismo?

“Se la Fao è il Ministero dell’Agricoltura di tanti Paesi, noi siamo i vigili del fuoco”. Questa efficace immagine, formulata in un’intervista da Manoj Juneja, Vice direttore del World Food Programme, all’indomani dell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2020 al Programma alimentare mondiale, fotografa puntualmente i rispettivi ruoli della maggiore organizzazione e del più importante programma Onu per lo sviluppo e la sicurezza alimentare.

Oggi l’Italia sostiene attivamente progetti e programmi di sviluppo nel mondo tramite l’Agenzia Italia per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo (Dgcs), ma non va dimenticato, come recentemente sottolineato dal Presidente Sergio Mattarella, che la stretta associazione tra gli organismi delle Nazioni Unite per lo sviluppo agroalimentare e l’Italia ha una lunga storia. 

Risale infatti al gennaio 1905 la lettera di Vittorio Emanuele III all’allora Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, in cui il re d’Italia, raccogliendo le istanze di David Lubin, visionario uomo d’affari californiano che non aveva trovato ascolto negli Stati Uniti di Roosevelt impegnati nel febbrile sviluppo  industriale di inizio Novecento, sosteneva che “[…] potrebbe essere di notevole giovamento un Istituto internazionale che, scevro d’ogni mira politica, si proponesse di studiare le condizioni dell’agricoltura nei vari paesi del mondo, segnalando periodicamente l’entità e la qualità dei raccolti […]. Di un Istituto siffatto, organo di solidarietà fra tutti gli agricoltori e perciò elemento poderoso di pace, i benefici effetti sicuramente si moltiplicherebbero […]”.

Pace e solidarietà: un nesso imprescindibile che - non si può non notarlo - oggi sfugge alle politiche sovraniste, ma che proprio da un sovrano venne sottolineato più di un secolo fa. E fu così che pochi mesi dopo, nel giugno 1905, l’Italia sottoscriveva assieme a quaranta Stati partecipanti la costituzione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura (IIA), considerato a tutti gli effetti il primo embrione della Fao.

Ricorre in questi giorni il settantesimo anniversario dell'Accordo di sede fra la Repubblica italiana e la Fao, firmato a Washington il 31 ottobre 1950. Una decina d’anni dopo, nel 1961, il senatore democratico George McGovern, all’epoca direttore del Programma di aiuto alimentare degli Stati Uniti, sottopose alla Conferenza della Fao una proposta per l’istituzione di un Programma di distribuzione di aiuti alimentari. Nel 1962 venne così istituito il WFP, prima su base sperimentale per tre anni, e poi definitivamente ratificato dall’Assemblea Generale nel dicembre 1965.

Settant’anni in cui tutti i governi che si sono succeduti non hanno mai mancato di fornire supporto, logistico e istituzionale, alle attività di FAO, WFP e IFAD (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo, sorto nel 1974), le tre agenzie Onu, tutte con sede a Roma, che si pongono il nobile obiettivo di assicurare la sicurezza alimentare e di eradicare lo spettro della fame nel mondo.

Il segnale che la Commissione norvegese per l’assegnazione del Nobel ha voluto dare è forte e inequivoco. “Oggi più che mai il multilateralismo è fondamentale”, si legge tra le motivazioni del riconoscimento, che assume il ruolo di una voce stentorea in difesa della cooperazione internazionale, proprio quando il multilateralismo vacilla sotto gli attacchi dei tanti sovrano-populismi che stanno rialzando la testa, con buona pace dello spirito che il 24 ottobre 1945, data di ratifica della Carta delle Nazioni Unite da parte dei cinquanta Paesi fondatori riuniti a San Francisco, animò la creazione delle Nazioni Unite.

Il mondo usciva allora dagli orrori delle due guerre mondiali, e proprio quelle ferite ispirarono il preambolo della Carta: “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole […] concordiamo di istituire un’organizzazione internazionale che sarà denominata le Nazioni Unite”.

L’Italia, pur uscendo sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, seppe ritagliarsi un ruolo di primaria importanza, soprattutto grazie all’abile azione diplomatica condotta da statisti come Giovanni Gronchi e Antonio Segni, rispettivamente Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio.

La costituzione delle Nazioni Unite fu un atto di indiscutibile lungimiranza politica che ancora oggi mostra la sua sconcertante attualità. Basti pensare alle dimensioni di annose emergenze che travalicano i confini nazionali e la cui gestione richiede, anzi richiederebbe, un approccio globale di governance. Mi riferisco qui non solo ai tanti conflitti armati più o meno dimenticati, ma anche a temi di ampia portata affrontati nei Sustainable Development Goals (SDGs), che vanno dal rispetto dei diritti umani alle questioni migratorie, dalla sicurezza alimentare al riscaldamento globale, tanto per citarne alcuni. Le tensioni sociali derivanti dalla fuga da guerre o carestie sono sotto gli occhi di tutti. Senza parlare del recente esempio della pandemia, che ha messo in ginocchio il pianeta, dimostrando come un approccio tempestivo e condiviso ne avrebbe potuto - e potrebbe ancora oggi - contenerne la diffusione.

Ovvio perciò che, parlando di governance globale, si finisca a parlare dell’ONU e delle sue agenzie specializzate. Tornando per esempio al caso del Covid-19, le recenti critiche mosse da più parti all’Organizzazione mondiale della sanità (che, nel caso di Trump, hanno assunto le dimensioni di vere e proprie accuse di collusione con la Cina, e che hanno portato lo scorso luglio all’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione) sono state molteplici, soprattutto riguardo alla tempistica e a una certa contraddittorietà dell'informazione.

I toni sono stati spesso esasperati. È però lecito chiedersi se alcune critiche non abbiano un qualche fondamento e se i punti deboli evidenziati dalla pandemia non siano piuttosto paradigmatici di problemi sistemici che affliggono, seppur in modi e con tempi diversi, la galassia delle Nazioni Unite. Vista la molteplicità di attori e interessi in gioco, il discorso si fa a questo punto piuttosto complesso.

In linea di principio, non va mai dimenticato che l’ONU e le organizzazioni che la compongono altro non sono che lo specchio di ciò che i Paesi membri, i soli veri stakeholders, vogliono che sia. In parole povere, la comunità globale si dà la governance che merita.

Anche una rapida lettura del già citato preambolo della Carta delle Nazioni Unite e dei suoi primi articoli è sufficiente a realizzare un macroscopico problema alla base di tutti gli altri che ne derivano: la distanza tra gli intenti, o meglio tra il commitment sottoscritto dai 193 Stati membri che via via vi hanno aderito (praticamente il mondo intero) e la frequente prevalenza degli interessi di parte. Non è raro il caso in cui agende nazionali o regionali prevalgono sulla ricerca dell’interesse comune, segnando di fatto una pressoché ingestibile frammentazione. E qui gli esempi non mancano, soprattutto in tempi recenti, visto che l’emersione dei governi sovranisti ha eroso ulteriormente l’impegno verso un multilateralismo efficace.

Solo poche settimane fa, in occasione dell’apertura della 75ma Assemblea Generale (tuttora in corso), il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres ha dichiarato: “[…] Ci troviamo oggi di fronte a un passaggio fondamentale. Coloro che settantacinque anni fa fondarono le Nazioni Unite erano sopravvissuti a una pandemia, a una depressione globale, a un genocidio e a una guerra mondiale. Conoscevano bene il costo della discordia e il valore dell'unità. Perciò misero a punto una risposta visionaria, incarnata nella nostra Carta costitutiva, che mette al centro le persone. Stiamo vivendo oggi il nostro 1945. […] Il populismo e il nazionalismo hanno fallito. […] In un mondo interconnesso, è tempo di riconoscere un fatto: la solidarietà va nell’interesse di ciascuno di noi. Se non riusciremo a cogliere questa semplice verità, perderemo tutti […]”. E non è un caso se uno dei temi posti all’attenzione dell’Assemblea Generale quest’anno è “La Carta delle Nazioni Unite compie 75 anni: il multilateralismo in un mondo frammentato”.

Ma la coerenza tra princìpi ed azione è solo parte del problema. Altri aspetti riguardano la governance stessa dell'Onu, della cui riforma si parla da decenni. Il sistema di voto, il cosiddetto one-country-one-vote, certo non è in grado di annullare, o almeno di controbilanciare adeguatamente, il peso politico ed economico dei grandi blocchi geopolitici (Usa, Cina, Ue, Russia e gli altri cosiddetti BRICS), che possono esercitare pressioni sui budget per indirizzarne i programmi e gli obiettivi.

Non va poi dimenticato che la struttura del Security Council riflette ancora oggi gli equilibri post bellici, nonostante siano state avanzate negli anni innumerevoli proposte di riforma, sia da parte di singoli Stati membri che da unioni territoriali, Italia ed Eu comprese. Se si pensa che solo cinque membri possono esercitare il diritto di veto, si può facilmente immaginare quale sia la sperequazione di poteri all'interno dell’organo da cui dipendono le decisioni più importanti per la risoluzione dei conflitti armati. Questo fa sì che in un mondo che continua ad essere fortemente polarizzato l'azione super partes dell'Onu venga spesso messa in discussione, con relativa caduta di credibilità. “Il nostro mondo soffre di un severo caso di «disturbo da deficit di fiducia»", ha dichiarato ancora, e non a caso, Guterres, facendo ricorso alla terminologia della medicina.

Altro macroscopico segno di incoerenza è l’esiguità dell’investimento globale nella cooperazione allo sviluppo. Basti per tutti il confronto tra la spesa militare e le risorse destinate alla pace. Secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il più accreditato istituto di ricerca indipendente sul tema, nel 2019 la spesa militare globale è stata di 1.917 miliardi di dollari, mentre il budget approvato per il medesimo anno dalla 73ma Assemblea Generale per le operazioni di peacekeeping è stato di 6,5 miliardi di dollari. Il rapporto di quasi 1:300 non richiede ulteriori commenti.

Ne deriva che, nella gran parte dei casi, la progressiva riduzione delle contribuzioni degli Stati membri ai bilanci delle Nazioni Unite e delle entità che ne fanno parte ha spinto le organizzazioni verso forme di finanziamento alternative e creative, comprese le sottoscrizioni volontarie e le partnership col settore privato. Pecunia non olet, è chiaro, ma si può facilmente immaginare come questo approccio ne riduca sensibilmente l’indipendenza decisionale. Questo la dice lunga su quanto i Paesi membri intendano realmente investire nei principi fondativi dell'Onu, che rimane l’unica struttura potenzialmente in grado di offrire soluzioni globali a problemi globali. Un “elemento poderoso di pace”, secondo la definizione di Vittorio Emanuele III, che andrebbe però messo in grado di ritrovare la sintonia con i propri ideali e con le tante realtà, società civile e terzo settore compresi, che per quegli stessi ideali si battono.

L’auspicato processo rifondativo non potrà non tener conto di quanto profondamente il mondo sia nel frattempo cambiato, e con esso la nozione stessa di servizio civile internazionale, oggi ben più sfaccettata di quanto non fosse dopo la Conferenza di Yalta, all’albore dei processi di decolonizzazione che nei decenni a seguire hanno ridisegnato i confini e le relazioni tra Stati. L’approccio alla solidarietà, allora di natura pressoché esclusivamente assistenziale, si è andato progressivamente evolvendo in forme di partnership tra pari e si sono affacciate sul mondo della cooperazione nuove generazioni di giovani animati dal desiderio di contribuire in prima persona allo sviluppo del proprio Paese. Il fermento delle numerose espressioni della società civile, Ong e associazioni umanitarie comprese, andrà perciò inquadrato in un più vasto disegno di collaborazione sistemica, che non potrà che trarre giovamento dalla loro motivazione e dal loro capillare contatto con le realtà sul terreno.     

Restano in questo contesto efficaci le operazioni a carattere umanitario delle organizzazioni - Unhcr, Wfp e Who in primo luogo - chiamate ad arginare gli effetti devastanti dei tanti problemi irrisolti. Ma è lampante che le cause alla radice dei problemi stessi, i conflitti e le profonde disuguaglianze che li alimentano, saranno effettivamente estirpate solo attraverso la coerenza d’intenti, la destinazione di maggiori risorse che salvaguardino l’indipendenza operativa delle organizzazioni e, infine, alcune necessarie deroghe alla sovranità nazionale che a oggi sembrano pressoché irrealizzabili.

La storia, anche la più recente, non porta ad essere ottimisti, ma non è questo un motivo sufficiente a desistere dall’intento, visto che qui si gioca il futuro che lasceremo in eredità ai nostri figli. Un’eredità però destinata a sciogliersi come neve al sole, se sceglieremo di seguire la visione miope del sovranismo.

L’Italia, dicevamo, è storicamente un affidabile partner della cooperazione allo sviluppo. Eppure, un campanello d’allarme è suonato recentemente: la mancata adesione italiana al Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration (meglio conosciuto anche come Global Compact sull’immigrazione), accordo intergovernativo negoziato sotto l’egida dell’Onu che riguarda le migrazioni interne e internazionali, costituisce purtroppo un inquietante precedente. Meno di due anni fa, per l’esattezza il 19 dicembre 2018, l’Assemblea generale dell’Onu adottò il documento con 152 voti favorevoli, 12 astensioni (tra cui la nostra) e 5 voti contrari (Israele, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e USA a guida Trump). Come nel caso di altri trattati, il Global Compact non è un accordo legalmente vincolante, ma una cornice che stabilisce degli obiettivi comuni a cui ispirare la collaborazione tra Stati per far fronte al dramma delle migrazioni.

L’Italia è senza ombra di dubbio tra i Paesi che trarrebbero maggior vantaggio da una gestione condivisa dei flussi migratori. Eppure, il 28 febbraio 2019 Giorgia Meloni, dopo un infuocato intervento in cui paventava invasioni di barconi sulle nostre coste se solo avessimo aderito all’accordo Onu, riuscì a far passare alla Camera (con soltanto 112 voti favorevoli e l’astensione di Lega e M5S) una mozione presentata da Fratelli d’Italia per impedire che ciò avvenisse. Come sappiamo, riuscì nel suo intento e l’Italia si sfilò dall’accordo all’ultimo momento. Ne scaturì una magra figura internazionale per il nostro Paese, visto che soltanto pochi mesi prima Giuseppe Conte (allora a capo del governo giallo-verde) apriva il suo intervento all’Assemblea Generale promettendo il sostegno italiano al Global Compact.

Episodi di questo genere possono compromettere seriamente la credibilità accumulata dall’Italia in più di un secolo di impegno nella cooperazione multilaterale. C’è da augurarsi perciò che il governo attuale e quelli che lo seguiranno traggano profitto dall’errore commesso sul Compact e non lo ripetano.

Pochi giorni fa il presidente Conte, stavolta a nome del secondo esecutivo che porta il suo nome, ha candidato l’Italia a ospitare nel 2021 il Summit delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, organizzato nell’ambito della cornice attuativa dei Sustainable Development Goals. Il Summit si pone l’importante obiettivo di lanciare una serie di azioni per trasformare il modo in cui il mondo produce e consuma cibo. Un invito questo che ci fa onore, e rappresenta un’eccellente opportunità per riaffermare che il nostro Paese vuol continuare a camminare da protagonista verso la meta dello sviluppo sostenibile.