Articolo di Laura Mirachian

La nostra Europa e il Mondo

Premessa: poche semplici verità.

- Noi Europei viviamo nel mondo ma non siamo i soli al mondo. Si affacciano dalla porta accanto persone diverse da noi, per cultura e religione, foggia del vestiario, colore della pelle, esperienze dettate da clima, geografia, storia, assetti istituzionali: la chiamiamo ‘globalizzazione’. Meglio ancora, ‘interdipendenza’: se la domanda di gas degli Asiatici aumenta in modo consistente, e al contempo l’offerta subisce delle strozzature, l’Europa avrà un problema con i prezzi dell’energia; se nel Mediterraneo e Medio Oriente non si ricompongono i dissidi e non si reperiscono formule percorribili di stabilizzazione, l’Europa avrà un problema di sicurezza in casa; se i cambiamenti climatici desertificheranno le terre africane, l’Europa avrà un problema di gestione delle migrazioni; se la pandemia non verrà spenta altrove, anche l’Europa non riuscirà a liberarsene. E se non saprà ascoltare gli altri rispettandone dignità e diversità, rischierà di perdere se stessa e i propri valori.  

- Dopo secoli di conflitti e due guerre mondiali, abbiamo deciso di percorrere un cammino comune, ci siamo dotati di norme comuni, riconoscendoci nella comunanza di interessi e principi. Molta strada è stata fatta dagli albori della costruzione europea, gradualmente, e non senza qualche intoppo. Sempre alla ricerca di un equilibrio tra unitarietà e specificità, tra interessi e valori, tra sovranità nazionale e integrazione europea.

- I tempi di crisi offrono sempre opportunità di rinnovamento. Ci troviamo a un tornante della storia. Cosa sta cambiando? Alle sfide epocali della pandemia e del cambiamento climatico si aggiunge l’accelerazione di tendenze già in atto, tra tutte, il cambio di registro geopolitico a Washington e il riequilibrio internazionale che ha eroso il ruolo dell’Occidente a presidio dell’Ordine Mondiale: in un mondo multipolare, il sistema internazionale è rimasto privo di pilota (‘Westlessness’, Monaco, 2019) e la competizione imperversa sul piano tecnico-industriale e tra differenti assetti politico-istituzionali. A questa nuova realtà, l’Europa deve dare risposte, per avere un ruolo da protagonista nel nuovo ordine decentrato verso l’Indo-Pacifico e ancor prima per essere padrona del proprio destino. Serve una ‘bussola strategica’, si dice. L’Unione sta muovendo verso un nuovo Global Compact che aggiorni la Strategia 2016. Anche la Nato sta finalizzando una Strategia 2030, che dovrà contemperare priorità e prassi disomogenee, a partire da una maggiore consultazione tra i due lati dell’Atlantico (Vertice Nato, giugno 2021). Le stesse Nazioni Unite, che fin dal 2015 segnalano i grandi capitoli da gestire per la sopravvivenza del Pianeta e la convivenza mondiale, rilanciano una gestione collettiva del ‘beni pubblici globali’, in primis salute e ambiente (Cop26),  e propongono una Nuova Agenda per la Pace: ‘il mondo è sull’orlo del precipizio’, dice Guterres (UNGA, New York 2021).

- Per l’Europa, le sfide si pongono tanto sul fronte internazionale quanto sul frastagliato fronte interno. I due aspetti sono strettamente collegati. Perché la capacità di incidere negli scenari internazionali dipende dal grado di coesione tra gli Stati Membri: la Politica Estera e di Sicurezza dell’Unione comincia a casa! A partire dalla protezione dei valori fondanti, democrazia, stato di diritto, non-discriminazione, rispetto dei diritti di ognuno dei cittadini, e continuando con il rafforzamento della coesione intra-europea. E se non sarà possibile procedere compatti verso la Ever Closer Union auspicata da alcuni, occorrerà reperire formule che quantomeno consentano alle avanguardie di procedere. Cruciale sarà l’orientamento del nuovo Governo in Germania per una conferma, anche in Politica Estera e di Sicurezza, della direzione di marcia che Angela Merkel ha saputo intraprendere in campo economico con l’avvallo al Next Generation EU. Altrettanto importanti saranno poi le presidenziali in Francia, che si auspica possano coltivare la creatività francese mettendola al servizio dell’Europa.

Quale multilateralismo?  ‘Multilateralism is back’, promette Biden (UNGA, New York 2021). Si spera, a partire dal funzionamento del WTO e del suo Meccanismo di Regolamento delle Controversie, ancora bloccato dalla mancata nomina dei giudici di appello della gestione Trump. Un multilateralismo che significhi condivisione dei vaccini, gestione comune dei cambiamenti climatici, i cosiddetti ‘global common goods’, e non ultimo operazioni di pace condivise nelle aree di crisi. Un multilateralismo sorretto dalla compagine del G20 che segnali le grandi direzioni di marcia per il governo mondiale. Per l’Europa, la vocazione al multilateralismo è sancita fin dagli albori. All’ONU abbiamo insistentemente perorato la causa di un ‘multilateralismo efficace’. Per registrare, tuttavia, che davvero efficaci sono solo le Agenzie Specializzate, in primis quelle umanitarie (UNHCR, OCHA, PAM, etc), mentre il motore decisionale, il Consiglio di Sicurezza, trova ostacoli sia sulla definizione delle strategie che sull’attuazione delle decisioni prese. Valgano, per tutte, le crisi del Medio Oriente e Mediterraneo, ove si intrecciano vistosamente  dinamiche conflittuali (oltre che divergenze tra Stati Membri): Conferenze Internazionali ed  Inviati Speciali faticano ad imprimere svolte sostanziali. Del resto, diceva Ban-Ki-Moon, le Nazioni Unite funzionano nella misura in cui i paesi decidono di farle funzionare. Il risultato sono continue violazioni delle risoluzioni e operazioni di stabilizzazione che si protraggono nel tempo contestualmente alle crisi che dovrebbero contribuire a sanare. Nel frattempo, il centro di gravità si è spostato dall’Occidente verso l’Asia-Pacifico. La Cina è divenuta una protagonista assoluta (con un contributo al bilancio secondo solo agli USA) e punta a conquistare posizioni apicali per rimodulare normative e processi a misura dei propri parametri. Né è superfluo rilevare che l’Europa all’ONU non è protagonista a pieno titolo: non siede nel CdS, e lo status di ‘osservatore rafforzato’ acquisito all’UNGA nel 2011 le conferisce il diritto di rappresentanza degli Stati Membri, ma non di voto. Un vulnus grave nella capacità di incidere unitariamente nella gestione delle crisi internazionali. Nondimeno, va riconosciuto che le Nazioni Unite restano una formidabile, universale, piattaforma di dialogo e conoscenza reciproca trai popoli, la fonte per eccellenza della legalità internazionale, e  che l’Europa vi rimane un punto di riferimento imprescindibile, e non solo per il Vicinato. Questo è il prezioso valore delle Nazioni Unite, oggi come ieri.

Quale commercio internazionale? Non è solo la ‘dottrina Trump’ ad aver minato il funzionamento del WTO (vedi sopra), ma la difficoltà di gestire problemi concreti dovuti al ri-equilibrio delle economie verificatosi nei decenni della globalizzazione. Occorre aggiornare la normativa per quanto riguarda il Trattamento Preferenziale (tariffario e non) di paesi un tempo considerati ‘emergenti’, in primis la Cina, ovviare alle distorsioni dovute a sussidi di Stato, trattamento dei lavoratori, ivi incluso lavoro minorile e femminile, diseguaglianze sociali, pratiche protezionistiche, scarsa trasparenza, e avviare la regolamentazione delle nuove problematiche relative a sostenibilità ambientale, commercio digitale, catene del valore nel settore sanitario, rafforzamento delle PMI nel commercio internazionale, giganti dell’high tech.  Un lavoro urgente e al contempo complesso, al quale può dare un contributo cruciale il Consiglio UE-USA da ultimo costituito, ma che necessita di un approccio costruttivo anche degli altri partner, in particolare della Cina.     

Quali Alleanze? L’Europa si riconosce nella Nato in nome di principi e valori condivisi, anche se non tutti gli Stati Membri ne fanno parte. I migliori risultati nella collaborazione UE-NATO si sono registrati nella gestione delle crisi balcaniche degli anni ’90 ove, grazie alla leadership americana, le due istituzioni hanno fornito un contributo sinergico fondamentale alla stabilizzazione del Vicinato europeo. Non così, più tardi, nella gestione delle crisi nel Mediterraneo e Medio Oriente, ove la mancanza di coesione atlantica si è sommata ed anzi è stata alimentata dalle divergenze tra stessi Stati Membri. La ‘dottrina Trump’ , concepita nel contesto di una revisione complessiva della proiezione americana nel mondo, non smentita da Biden, ha condotto l’Europa a una salutare riflessione sull’urgenza di rafforzare i propri strumenti di politica estera e sicurezza: si è fatta strada l’idea di una ‘Strategia Europea di Difesa’. Una Strategia non sganciata o alternativa rispetto alla Nato, ciò che sarebbe irrealistico immaginare, ma complementare, quale pilastro dell’Alleanza che consenta all’Europa di interloquire con gli Stati Uniti da posizioni più solide e costruttive. Senza escludere operazioni di stabilizzazione autonome, in particolare nel Vicinato, ora che le priorità americane si concentrano altrove. La mancata consultazione transatlantica nella vicenda della ritirata dall’Afganistan e poi nell’intesa AUKUS non fa che confermare che solo un rafforzamento della strumentazione europea può assicurare uno scenario simmetrico nelle decisioni ed azioni da adottare. In altri termini, quel meccanismo di ‘consultazione’ paritaria che gli Europei evocano a gran voce.

Quale Politica Estera e di Sicurezza?  L’Europa si è concepita e consolidata come potenza ‘soft’ basata sul diritto e sulla propensione alla trattativa: di fatto, ha delegato agli Stati Uniti il ruolo preponderante in operazioni militari, coltivando negli anni una sorta di dipendenza psicologica ancor prima che operativa dal paese-guida. Alimentata dalla revisione geopolitica operata a Washington, l’Europa ha ora accentuato la riflessione verso una ‘Autonomia Strategica’, concetto più ampio della sola ‘Strategia di Difesa’. Un’autonomia che si estenda ai settori delle alte tecnologie, intelligenza artificiale, robotica, cibernetica, spazio, e di tutti i comparti ove le potenzialità europee rimangono inespresse (sicurezza energetica, semiconduttori etc). Un primo passo è stata l’adozione degli strumenti di Politica Estera e di Sicurezza (PESD) elaborati ai sensi del Trattato di Lisbona (2009): la figura di un Alto Rappresentante e un Servizio Diplomatico Europeo a composizione mista Istituzioni-Stati Membri, nonché la possibilità di ‘cooperazioni strutturate permanenti’ (PESCO) tra Stati Membri che lo ritengano e ne abbiano le capacità (‘willing and able’), con un bilancio iniziale (FED) che alimenti sinergie tra apparati di sicurezza nazionali e avvio di collaborazioni industriali. Per queste cooperazioni è previsto che le decisioni vengano prese a maggioranza qualificata, in deroga alla regola dell’unanimità. Rimane tuttavia irrisolto il problema a monte, la piattaforma consensuale di politica estera sulla quale questi strumenti devono innestarsi. A che serve un Alto Rappresentante, un costoso apparato SEAE o una cooperazione tecnica rafforzata tra alcuni Stati Membri, se non vi è unitarietà di analisi e di valutazione sugli scacchieri internazionali prioritari per la sicurezza collettiva, se prevalgono divaricazioni sugli obiettivi primari da perseguire?  Come ovviare? Aiuterebbe, certo, un chiarimento di fondo tra Stati Membri sulle grandi scelte strategiche dell’Europa, cioè sul perimetro dell’autonomia strategica europea. Ma basterebbe questo per consentire a un nucleo ristretto di Stati Membri di procedere con il consenso tacito, o non-opposizione, degli altri partner? O sarebbe comunque necessario ricorrere a un nuovo Trattato aperto ad adesioni successive come già avvenuto per l’Euro o per il sistema Schengen?

Vicinato first? Nella gestione delle cosiddette ‘primavere arabe’ di questo decennio, l’assenza di Europa, fatta eccezione per gli aiuti umanitari, è stata clamorosa. E’ mancata la comprensione profonda del disagio sociale che ha sconvolto le società arabe, nel mentre si facevano sentire i contraccolpi di radicalizzazione, terrorismo, migrazioni. Questi aspetti hanno monopolizzato il dibattito delle opinioni pubbliche e determinato risposte essenzialmente ‘difensive’. Le stesse che vengono ora invocate in relazione alle dinamiche dell’Afganistan. Alla fine, ha spesso prevalso la realpolitik, a costo di sacrificare i valori. Per tutte, valga la gestione delle migrazioni, attuata spesso a prescindere dal rispetto dei diritti umani e delle Convenzioni internazionali. L’assenza di Europa e Stati Uniti ha comunque lasciato ampi spazi ad altri protagonisti internazionali e regionali, Russia, Turchia, Iran, paesi del Golfo, mentre anche la Cina ha colto l’opportunità per avanzare verso il Mediterraneo. Con questi vecchi e nuovi protagonisti, l’Europa deve ora confrontarsi. La nuova strategia proposta dalla Commissione per una “Rinnovata Partnership con il Vicinato Meridionale”, esteso dal Mediterraneo al Sahel, mette a regime in modo integrato investimenti, sostegno alla governance, politiche educative, e politiche per migrazione ed asilo in un’ottica di condivisione degli oneri e solidarietà. Ma più oltre, la gestione dell’area non potrà che essere una co-gestione con un circuito più ampio di paesi. Sarà possibile immaginare un’Architettura di Sicurezza Regionale a guida europea, una sede di consultazione e collaborazione che assicuri contrasto a terrorismo, crimine organizzato, corruzione, e al contempo vada incontro alle istanze popolari locali per un buon governo e, non ultimo, una crescita economica e sociale in linea con standard ecologici e modernizzazione tecnologica ?

Migrazioni. Al centro del dibattito europeo, le dinamiche migratorie non hanno ancora ricevuto una risposta genuinamente europea. Non a caso, solo alcuni europei hanno aderito al Migration Compact delle Nazioni Unite. All’assenza di solidarietà tra Stati Membri, si è aggiunta una interpretazione formalistica delle regole che pur esistono. Formule innovative o rimaste inutilizzate, quali la protezione temporanea, canali di immigrazione legale, politiche di integrazione programmate, non solo riscontrerebbero i principi di rispetto dei diritti umani e dignità delle persone coinvolte, ma sarebbero funzionali, se ben gestite, alle esigenze stesse dell’Europa sotto il profilo della sostenibilità economica in presenza del declino demografico e connesse spese sociali. Il tema della gestione delle migrazioni è uno dei grandi test  che l’Europa deve affrontare per avere certezza del suo domani.